lunedì 12 marzo 2018

Il Sole domenica 11.3.18
Evoluzione umana
Il testamento di Neandertal
di Guido Barbujani


Ma allora, questo Neandertal? Per decenni l’abbiamo rappresentato come un bruto, una creatura che di umano aveva solo il nome scientifico; poi abbiamo cominciato a pensarlo come un fratellastro un po’ tonto; e adesso salta fuori che probabilmente i Neandertal praticavano l’arte prima di noi. Un po’ alla volta le nostre conoscenze sono aumentate, e abbiamo capito un po’ meglio questi strani, vecchi europei. Ma è cambiato anche il nostro modo di immaginarceli, i neandertaliani, e per strada abbiamo perso parecchi pregiudizi.
Li abbiamo persi tutti? O addirittura troppi? Non si sa, ma a fare il punto sulla situazione arriva tempestivo il bel libro di Silvia Condemi e François Savatier, Mio caro Neandertal. Il punto per modo di dire, perché non è mai finita: è di questi giorni la scoperta di pitture rupestri in Spagna datate a 64mila anni fa, quando in Europa c’erano solo loro, i Neandertal. Dunque, a dipingere non hanno imparato da noi; e neanche a farsi belli. Oggi si sa che già prima di incontrarci i neandertaliani non trascuravano il look, si decoravano il corpo con pigmenti e penne d’uccello.
Come la veda Silvana Condemi, paleoantropologa, (Savatier invece è un giornalista scientifico) lo si capisce alla prima occhiata alla copertina: «L’uomo di Neandertal non è mai scomparso: vive in noi», ci si legge. Prima di arrivare a conclusioni tanto impegnative, Condemi e Savatier ripercorrono le tappe della preistoria europea, cominciando dalla specie che oggi chiamiano Homo heidelbergensis. Alcuni di loro (pochi: qualche migliaio), sarebbero migrati in Europa, 800mila anni fa o giù di lì, e si sarebbero evoluti dando origine ai Neandertal; altri, rimasti in Africa, avrebbero invece dato origine a popolazioni sempre più simili a noi, Homo sapiens, che meno di 50mila anni fa si sono spinte fino in Europa. Due gruppi imparentati, quindi, che attraverso percorsi evolutivi diversi in continenti diversi si sono poi incontrati di nuovo, 800mila anni dopo.
Cosa è successo in tutti questi anni, e poi al momento dell’incontro, e dopo? Quando e perché i Neandertal sono diventati quello che sono diventati? Conta molto il clima freddo in cui hanno dovuto sopravvivere. «Piccoli, tarchiati, ma possenti»: così Condemi e Savatier li descrivono. Ma attenzione a non restare ancorati a vecchi stereotipi. Condemi e Savatier spiegano bene come funziona la scienza, come siamo arrivati a ricostruire l’evoluzione dei neandertaliani e la loro vita quotidiana, sempre precisando cosa è certo, cosa è probabile, e quelle che sono ipotesi ragionevoli, ma difficili o impossibili da dimostrare. E siccome alcune ipotesi sono anche affascinanti, cominciano ogni capitolo con un brano narrativo. Ci sono precedenti illustri, (La danza della tigre di Bjorn Kurtén, Muzzio), o un po’ meno illustri (di recente lo abbiamo fatto anche Andrea Brunelli e io, in Il giro del mondo in sei milioni di anni, Il Mulino). Ma funziona: la fiction ci avvicina a gente vissuta tanto tempo fa.
Fra le ipotesi non provate c’è quella che sia rimasto DNA neandertaliano in ciascuno di noi. Qui ho qualche dubbio più degli autori. Dopo aver descritto in pagine ben documentate e spesso molto piacevoli la dieta, la struttura sociale e la cultura neandertaliane (e come facciamo a conoscerle), 10 si affronta un tema caldo, la possibile ibridazione fra Neandertal e noi. In questo caso, «noi» vuol dire gli antenati di tutti quelli che oggi vivono fuori dall’Africa. C’è un dato su cui non si discute: i DNA degli attuali abitanti dell’Eurasia sono più simili a quello di Neandertal di quanto non lo siano i DNA degli africani: un po’ di più, fra l’1 e il 4%. Può voler dire che, uscendo dall’Africa, questi nostri antenati si sono mescolati e riprodotti con i Neandertal, portando poi con sé, nelle successive migrazioni, un po’ del loro DNA. Però potrebbe voler dire, semplicemente, che gli antenati di chi oggi sta in Eurasia erano già da prima un po’ più simili ai Neandertal degli africani. L’uomo assomiglia più allo scimpanzé che al canguro, non perché ci siamo accoppiati con gli scimpanzé, ma perché condividiamo con loro un pezzo più lungo della nostra storia evolutiva.
Non è il caso, qui, di riassumere in poche righe un dibattito scientifico complesso. Diciamo che qualche liaison, non si sa quanto dangereuse, è provata: oltre al Neandertal di Riparo Mezzena, citato nel libro, il DNA di una mandibola di 30mila anni fa indica che un sapiens romeno aveva un trisavolo neandertaliano. Ma un conto è dire che qualcuno di noi ha fatto figli con qualcuno di loro, un altro dire che tutti noi eccetto gli africani, discendiamo da questi figli ibridi. Come Condemi e Savatier notano, l’unione fra maschi neandertaliani e femmine sapiens era probabilmente sterile; però il DNA suggerisce che neanche l’unione fra femmine neandertaliane e maschi sapiens abbia lasciato discendenti. E allora, chi si è unito con chi? Gli incroci possibili sono solo questi due, direi.
Non c’è da scandalizzarsi se questioni così importanti restano aperte. I grandi progressi della paleontologia, dell’archeologia e della genetica non devono farci dimenticare che abbiamo solo qualche osso, qualche oggetto scheggiato e qualche frammento di DNA per ricostruire la storia di miliardi di persone, attraverso milioni di anni. È emozionante poter lanciare uno sguardo su vicende così remote, ma tante cose sono destinate comunque a sfuggirci.
Mio caro Neandertal si conclude con un salto nel futuro sorprendente ma giustificato, che ci avvicina a creature vissute tanto tempo prima di noi. Neandertal ci ha lasciato un testamento, scrivono Condemi e Savatier; sta a noi trarne qualche insegnamento:Sono sopravvissuto senza crescere/Sono scomparso perché incapace di crescere/Tu sei sopravvissuto perché cresci sempre/Scomparirai perché non decresci mai?
Silvana Condemi, François Savatier,
Mio caro Neandertal , Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 220, € 24