Il Sole domenica 11.3.18
Evoluzione umana
Il testamento di Neandertal
di Guido Barbujani
Ma
allora, questo Neandertal? Per decenni l’abbiamo rappresentato come un
bruto, una creatura che di umano aveva solo il nome scientifico; poi
abbiamo cominciato a pensarlo come un fratellastro un po’ tonto; e
adesso salta fuori che probabilmente i Neandertal praticavano l’arte
prima di noi. Un po’ alla volta le nostre conoscenze sono aumentate, e
abbiamo capito un po’ meglio questi strani, vecchi europei. Ma è
cambiato anche il nostro modo di immaginarceli, i neandertaliani, e per
strada abbiamo perso parecchi pregiudizi.
Li abbiamo persi tutti? O
addirittura troppi? Non si sa, ma a fare il punto sulla situazione
arriva tempestivo il bel libro di Silvia Condemi e François Savatier,
Mio caro Neandertal. Il punto per modo di dire, perché non è mai finita:
è di questi giorni la scoperta di pitture rupestri in Spagna datate a
64mila anni fa, quando in Europa c’erano solo loro, i Neandertal.
Dunque, a dipingere non hanno imparato da noi; e neanche a farsi belli.
Oggi si sa che già prima di incontrarci i neandertaliani non
trascuravano il look, si decoravano il corpo con pigmenti e penne
d’uccello.
Come la veda Silvana Condemi, paleoantropologa,
(Savatier invece è un giornalista scientifico) lo si capisce alla prima
occhiata alla copertina: «L’uomo di Neandertal non è mai scomparso: vive
in noi», ci si legge. Prima di arrivare a conclusioni tanto
impegnative, Condemi e Savatier ripercorrono le tappe della preistoria
europea, cominciando dalla specie che oggi chiamiano Homo
heidelbergensis. Alcuni di loro (pochi: qualche migliaio), sarebbero
migrati in Europa, 800mila anni fa o giù di lì, e si sarebbero evoluti
dando origine ai Neandertal; altri, rimasti in Africa, avrebbero invece
dato origine a popolazioni sempre più simili a noi, Homo sapiens, che
meno di 50mila anni fa si sono spinte fino in Europa. Due gruppi
imparentati, quindi, che attraverso percorsi evolutivi diversi in
continenti diversi si sono poi incontrati di nuovo, 800mila anni dopo.
Cosa
è successo in tutti questi anni, e poi al momento dell’incontro, e
dopo? Quando e perché i Neandertal sono diventati quello che sono
diventati? Conta molto il clima freddo in cui hanno dovuto sopravvivere.
«Piccoli, tarchiati, ma possenti»: così Condemi e Savatier li
descrivono. Ma attenzione a non restare ancorati a vecchi stereotipi.
Condemi e Savatier spiegano bene come funziona la scienza, come siamo
arrivati a ricostruire l’evoluzione dei neandertaliani e la loro vita
quotidiana, sempre precisando cosa è certo, cosa è probabile, e quelle
che sono ipotesi ragionevoli, ma difficili o impossibili da dimostrare. E
siccome alcune ipotesi sono anche affascinanti, cominciano ogni
capitolo con un brano narrativo. Ci sono precedenti illustri, (La danza
della tigre di Bjorn Kurtén, Muzzio), o un po’ meno illustri (di recente
lo abbiamo fatto anche Andrea Brunelli e io, in Il giro del mondo in
sei milioni di anni, Il Mulino). Ma funziona: la fiction ci avvicina a
gente vissuta tanto tempo fa.
Fra le ipotesi non provate c’è
quella che sia rimasto DNA neandertaliano in ciascuno di noi. Qui ho
qualche dubbio più degli autori. Dopo aver descritto in pagine ben
documentate e spesso molto piacevoli la dieta, la struttura sociale e la
cultura neandertaliane (e come facciamo a conoscerle), 10 si affronta
un tema caldo, la possibile ibridazione fra Neandertal e noi. In questo
caso, «noi» vuol dire gli antenati di tutti quelli che oggi vivono fuori
dall’Africa. C’è un dato su cui non si discute: i DNA degli attuali
abitanti dell’Eurasia sono più simili a quello di Neandertal di quanto
non lo siano i DNA degli africani: un po’ di più, fra l’1 e il 4%. Può
voler dire che, uscendo dall’Africa, questi nostri antenati si sono
mescolati e riprodotti con i Neandertal, portando poi con sé, nelle
successive migrazioni, un po’ del loro DNA. Però potrebbe voler dire,
semplicemente, che gli antenati di chi oggi sta in Eurasia erano già da
prima un po’ più simili ai Neandertal degli africani. L’uomo assomiglia
più allo scimpanzé che al canguro, non perché ci siamo accoppiati con
gli scimpanzé, ma perché condividiamo con loro un pezzo più lungo della
nostra storia evolutiva.
Non è il caso, qui, di riassumere in
poche righe un dibattito scientifico complesso. Diciamo che qualche
liaison, non si sa quanto dangereuse, è provata: oltre al Neandertal di
Riparo Mezzena, citato nel libro, il DNA di una mandibola di 30mila anni
fa indica che un sapiens romeno aveva un trisavolo neandertaliano. Ma
un conto è dire che qualcuno di noi ha fatto figli con qualcuno di loro,
un altro dire che tutti noi eccetto gli africani, discendiamo da questi
figli ibridi. Come Condemi e Savatier notano, l’unione fra maschi
neandertaliani e femmine sapiens era probabilmente sterile; però il DNA
suggerisce che neanche l’unione fra femmine neandertaliane e maschi
sapiens abbia lasciato discendenti. E allora, chi si è unito con chi?
Gli incroci possibili sono solo questi due, direi.
Non c’è da
scandalizzarsi se questioni così importanti restano aperte. I grandi
progressi della paleontologia, dell’archeologia e della genetica non
devono farci dimenticare che abbiamo solo qualche osso, qualche oggetto
scheggiato e qualche frammento di DNA per ricostruire la storia di
miliardi di persone, attraverso milioni di anni. È emozionante poter
lanciare uno sguardo su vicende così remote, ma tante cose sono
destinate comunque a sfuggirci.
Mio caro Neandertal si conclude
con un salto nel futuro sorprendente ma giustificato, che ci avvicina a
creature vissute tanto tempo prima di noi. Neandertal ci ha lasciato un
testamento, scrivono Condemi e Savatier; sta a noi trarne qualche
insegnamento:Sono sopravvissuto senza crescere/Sono scomparso perché
incapace di crescere/Tu sei sopravvissuto perché cresci
sempre/Scomparirai perché non decresci mai?
Silvana Condemi, François Savatier,
Mio caro Neandertal , Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 220, € 24