Il Sole domenica 11.3.18
Antiche mnemotecniche
Sublime arte per smemorati
di Lina Bolzoni
Memoria
artificiale? E ce ne parla, e ce la mette sotto gli occhi con le sue
immagini, un manoscritto del Quattrocento? Tutto questo oggi ci risuona
familiare e strano nello stesso tempo. Per noi è normale pensare a
strumenti (dal computer al tablet, al telefonino) che appunto in modo
artificiale sorreggono, al limite sostituiscono la nostra memoria; si
tratta però appunto di macchine, di strumenti, non di tecniche che si
affidano alla nostra mente, non di procedure, semplici e arzigogolate
nello stesso tempo, che cercano di porre ordine nelle sterminate
praterie, nei misteriosi spazi, nelle tenebrose caverne della nostra
memoria (così se la raffigurava sant’Agostino). Eppure il manoscritto di
cui parliamo è solo un esempio di una tradizione millenaria - l’arte
della memoria - che ha cercato di rafforzare le nostre capacità naturali
di ricordare affidandosi al controllo della mente. Ha cercato di porre
un ordine tra i fantasmi disordinati che, carichi di passioni, si
presentano nei nostri sogni e nei nostri ricordi, ha cercato di
rimodellare i territori della memoria, proiettandovi spazi su cui
scrivere (di libro della memoria parla all’inizio della Vita nuova
Dante, che quel libro leggerà e riscriverà sul modello dei manoscritti
miniati che gli erano familiari), vi ha costruito palazzi, templi,
teatri, edifici in cui collocare le immagini cui affidare i ricordi,
così da ritrovare le une e gli altri quando con la mente si
ripercorreranno quei luoghi. Nel mondo classico l’arte della memoria
serve agli oratori, a chi deve recitare in pubblico un discorso; nel
Medioevo si intreccia con la novità della religione cristiana: è al
servizio dei predicatori, ma guida anche alla purificazione morale e
alla contemplazione, scandisce e imprime nella mente le tappe che
portano a una trasformazione interiore; nel Quattrocento ha un’ampia
diffusione e viene incontro a bisogni diversi: serve a medici e
giuristi, a letterati e ambasciatori, ma anche a giocare a carte
ricordando quelle che sono già uscite, oppure a tenere a mente crediti,
debiti, date e nomi , oppure le merci imbarcate su di una nave, assume
insomma un carattere più tecnico e più pratico.
A questa fase
“pratica” dell’arte della memoria, o memoria artificiale, come recita il
titolo, appartiene il manoscritto italiano, oggi conservato a Parigi,
nella Biblioteca Sainte-Geneviève (ms.3368), che questo splendido libro
ci fa vedere e conoscere: vedere perché ce ne offre una preziosa
riproduzione in facsimile, di alta qualità; conoscere perché il testo è
trascritto criticamente, accompagnato da un accurato commento e da una
serie di saggi che da diverse prospettive disciplinari ci permettono di
capire cosa abbiamo di fronte, ci danno tutti gli strumenti necessari
per apprezzare questo oggetto strano e bellissimo: una specie di fossile
giunto a noi da un mondo alieno, in cui ricordare era una necessità
vitale, una pratica riconosciuta e ricercata, e insieme qualcosa che ha
una sorta di inquietante familiarità, perché ha a che fare col potere
delle immagini e con i meccanismi attraverso cui la nostra mente fissa e
trasforma i suoi ricordi.
Federica Pich e Andrea Torre hanno
curato il volume, hanno scritto due dei saggi introduttivi e coordinato i
contributi, affidati a studiosi di età e di nazioni diverse: Sabine
Seelbach ha inserito il testo nella tradizione quattrocentesca mostrando
come sia influenzato dalle Artificialis memoriae regulae che nel 1434
Jacopo Ragone dedica al marchese di Mantova; Federica Toniolo ha
analizzato le illustrazioni, collocandole nella Venezia degli anni
Sessanta-Settanta del Quattrocento, in una bottega in cui operava un
maestro di formazione tardogotica; Carlo Alberto Girotto ha fornito una
descrizione codicologica del manoscritto; Sara Shroukh ha interrogato il
testo in un’ottica antropologica, sottolineando le modalità cognitive
che esso mette in scena. Come interagiscono parole e immagini nel teatro
della memoria che il manoscritto descrive e insieme via via costruisce
ce lo mostrano in modo preciso e avvincente i due saggi di Federica Pich
e di Andrea Torre. Quello che rende speciale il nostro manoscritto è
infatti la ricca presenza delle immagini, disegni e miniature a tempera,
a volte incompiuti. Già nella dedica l’anonimo autore sottolinea questa
componente: ha scritto, dice, il testo dietro le insistenti preghiere
di Bartolomeo, che ha un «ardentissimo disio» di avere a disposizione la
memoria artificiale non solo scritta «ma in apparente imagine». Non si
tratta cioè soltanto di costruire le immagini mentali, le imagines
agentes, capaci di colpirci emotivamente, che la tradizione
raccomandava, ma di dar corpo e visibilità a quelle immagini, così che
accompagnino, commentino il testo, lo integrino, ne suggeriscano lo
sviluppo. E quel che abbiamo davanti è uno straordinario set di immagini
fantastiche, quasi surreali: corvi neri che spuntano da stivali rossi,
scale che si arrampicano nel vuoto, sirene accovacciate sul pavimento
che suonano il flauto, improbabili botteghe, scaffali su cui si
allineano oggetti e esseri disparati, banchetti in cui i commensali
reggono strani oggetti e fanno gesti incongrui. Nello spazio teatrale
delle stanze della memoria, la cui mappa si dispiega all’inizio del
manoscritto, compare, elegantemente vestito, chi pratica l’arte.
Costruisce le immagini per ricordare, ma assiste anche alle scene
violente e sanguinose di chi ferisce, uccide, caccia le immagini e i
personaggi che le incarnano perché ha bisogno di liberarsi dai ricordi.
Se l’arte della memoria è difficile, ancor più lo può essere, a volte,
l’arte dell’oblio.
Di l’artificial memoria. Ms.3368 Bibliothèque Sainte-Geneviève di Parigi ,
a cura di Federica Pich e Andrea Torre,
La Stanza delle Scritture, Napoli,
pagg. 275, € 130