Il Sole domenica 11.3.18
Catilina
La congiura nella congiura
di Alessandro Schiesaro
È
davvero lunga, a Roma, la stagione delle guerre civili. Quando i
contemporanei di Cesare e Cicerone volgono lo sguardo all’indietro
contemplano quasi un secolo di lotte intestine, guerre, vendette.
Diversi i protagonisti, dai Gracchi a Mario e Silla, e poi proseguendo
sulla china disastrosa che conduce al trionfo e alla morte di Cesare
stesso. Nata all’insegna del fratricidio, Roma è ormai una città troppo
ricca e potente per temere un nemico esterno, solo se stessa. Non
stupisce che tutto il secolo prima di Cristo sia percorso da timori e
preannunci della fine, quasi che il mondo intero si stia pericolosamente
avvicinando al baratro. Roma, dopotutto, è il mondo. Lo avevano
annunciato gli aruspici etruschi, per i quali la fine era non solo
ineluttabile, ma imminente, quando si erano udite trombe squillare nel
cielo sereno. Lo confermavano con regolare insistenza portenti
terrificanti: un aspro terremoto a Modena, il rogo dei Libri Sibillini
nel tempo di Giove.
È in quest’epoca d’angoscia che nel 63 a.C.
una congiura minaccia davvero di far crollare le istituzioni
repubblicane. Lucio Sergio Catilina è il rappresentante ideale delle
tensioni e delle contraddizioni di una società in affanno. Aristocratico
ma in rovina, conservatore per nascita eppure pronto a far leva sui
ceti popolari, un senatore che uscito dall’aula si nasconde nelle
bettole per complottare contro lo Stato. Non ha nulla da perdere, e come
lui molti altri, umili e potenti. Solo uno sconvolgimento radicale del
sistema politico e finanziario può liberarlo dal peso opprimente dei
debiti e restituirlo al ruolo e al prestigio dei suoi avi.
È
difficile, perché in fondo è quasi troppo facile, scrivere un romanzo su
Catilina. Di lui e delle sue mosse sappiamo molto, grazie a fonti
antiche insolitamente abbondanti. Le Catilinarie di Cicerone, il console
che scopre la congiura, la proclama in Senato, spinge l’avversario alla
fuga e ne consegna al carnefice i complici che cadono nelle sue mani,
trasportano il lettore nella trepidazione di una seduta memorabile,
lasciano assistere al colpo di scena del disvelamento. E poi Sallustio,
che non molti anni dopo le vicende affida la sua ricostruzione dei fatti
a una monografia sofisticata, drammatica.
Il problema,
ovviamente, è che Cicerone, ma anche Sallustio, tutto sono meno che
testimoni spassionati. Al console preme scolpire l’autoritratto di
salvatore della patria, dell’uomo che con sagacia e determinazione ha
saputo porre rimedio al più grave pericolo che la Repubblica avesse fino
ad allora affrontato, anche a sprezzo del pericolo personale. Le
intenzioni di Sallustio sono più sfumate, e più articolata è la sua
narrazione. Loda Cicerone, il cui primo discorso definisce «magnifico e
utile alla Repubblica», e fa pronunciare a Catone un discorso
implacabile che caldeggia l’immediata esecuzione dei congiurati. Ma
altrettanto spazio la sua Congiura di Catilina riserva all’astuta
riflessione di Cesare: critico, ci mancherebbe, eppure sottile nei
distinguo. Per grave che sia lo sdegno occorre mettere da parte ogni
emozione, ammonisce. Nessuna pena, «concede, è adeguata al crimine di
Catilina, tanto grave da risultare quasi comprensibile: e allora,
paradossalmente, meglio evitare la condanna a morte e attenersi alle
pene usuali. Meglio non creare un precedente che in questo caso sarebbe
sacrosanto, ma aprirebbe le porte ad abusi e distorsioni. Un capolavoro
di equilibrismo e Realpolitik, insomma, che mentre evita di alienare del
tutto la parte politica in qualche modo rappresentata da Catilina getta
le basi per future alchimie di potere. In Senato, Catilina stesso ha in
fondo l’ultima parola. Inseguito e sconfitto arringa i suoi soldati
prima della battaglia finale nel nome della comune “antica virtù” –
vinto, ma certamente non domo. Lo stesso tratto superbo, sprezzante, che
lo aveva spinto a presentarsi in Senato per fronteggiare Cicerone. Alle
accuse aveva reagito ricordando i meriti della sua illustre famiglia
infangati da un parvenu, “un inquilino dell’Urbe”. Sconfitto, aveva
promesso di estinguere la sua rovina nella catastrofe.
Alessandro
Banda trasforma abilmente in opzione narrativa la difficoltà di
confrontarsi con fonti antiche così dettagliate ed eloquenti. Neppure il
suo Catilina esce dalle ombre del discorso indiretto, del resoconto
interessato. Ma alle spalle di un Cicerone troppo desideroso di gloria
per conservare fino in fondo la scaltrezza del politico, il romanzo
disegna una trama occulta parallela, una congiura nella congiura, frutto
di una rete di alleanze e di interessi che di lì a poco trasformeranno
il console da apparente trionfatore in capro espiatorio. Mentre nelle
ville dei potenti Cesare e Crasso tramano contro di lui, la vox populi
per le strade e nei negozi, qui racchiusa in dialoghi rapidi, vivaci,
amplifica le critiche rivolte a un Cicerone precipitoso, avventato,
ingenuo. Cesare, d’altronde, lo aveva detto a chiare lettere: le
emozioni, in un caso tanto eccezionale, rischiano di oscurare il
giudizio.
In fondo era vero. Cicerone, per salvare la Repubblica,
ne aveva violato le leggi, mettendo a morte cittadini liberi, certo in
piena emergenza, ma senza seguire le procedure previste. Un errore di
valutazione involontario, anzi no, perché previsto nei minimi dettagli
(nel romanzo) dai suoi avversari occulti, maestri nello sfruttare la sua
debordante vanità contro un uomo che «ama se stesso di un amore
inesauribile». Un amore funesto, che in pochi anni lo condannerà
all’esilio. Tutto previsto, o appunto orchestrato, da Cesare e Crasso. O
forse neppure da loro. Si aggira nelle pagine di questo
romanzo-pastiche, intessuto di rielaborazioni dei modelli antichi (e non
solo), un personaggio che trasforma la saggezza dei filosofi in arma di
potere. È il misterioso “Vasaio”, il Nigidio Figulo seguace di
Pitagora, che seminascosto nell’ombra spinge il console all’errore
guidando la mano di Cesare e Crasso in obbedienza a un oscuro disegno di
saggezza secolare. Per Cicerone, ma anche per Cesare, il potere è solo
illusione effimera.
Alessandro Banda, Congiura , Guanda, Milano, pagg. 328, € 19