lunedì 12 marzo 2018

Il Sole domenica 11.3.18
Catilina
La congiura nella congiura
di Alessandro Schiesaro


È davvero lunga, a Roma, la stagione delle guerre civili. Quando i contemporanei di Cesare e Cicerone volgono lo sguardo all’indietro contemplano quasi un secolo di lotte intestine, guerre, vendette. Diversi i protagonisti, dai Gracchi a Mario e Silla, e poi proseguendo sulla china disastrosa che conduce al trionfo e alla morte di Cesare stesso. Nata all’insegna del fratricidio, Roma è ormai una città troppo ricca e potente per temere un nemico esterno, solo se stessa. Non stupisce che tutto il secolo prima di Cristo sia percorso da timori e preannunci della fine, quasi che il mondo intero si stia pericolosamente avvicinando al baratro. Roma, dopotutto, è il mondo. Lo avevano annunciato gli aruspici etruschi, per i quali la fine era non solo ineluttabile, ma imminente, quando si erano udite trombe squillare nel cielo sereno. Lo confermavano con regolare insistenza portenti terrificanti: un aspro terremoto a Modena, il rogo dei Libri Sibillini nel tempo di Giove.
È in quest’epoca d’angoscia che nel 63 a.C. una congiura minaccia davvero di far crollare le istituzioni repubblicane. Lucio Sergio Catilina è il rappresentante ideale delle tensioni e delle contraddizioni di una società in affanno. Aristocratico ma in rovina, conservatore per nascita eppure pronto a far leva sui ceti popolari, un senatore che uscito dall’aula si nasconde nelle bettole per complottare contro lo Stato. Non ha nulla da perdere, e come lui molti altri, umili e potenti. Solo uno sconvolgimento radicale del sistema politico e finanziario può liberarlo dal peso opprimente dei debiti e restituirlo al ruolo e al prestigio dei suoi avi.
È difficile, perché in fondo è quasi troppo facile, scrivere un romanzo su Catilina. Di lui e delle sue mosse sappiamo molto, grazie a fonti antiche insolitamente abbondanti. Le Catilinarie di Cicerone, il console che scopre la congiura, la proclama in Senato, spinge l’avversario alla fuga e ne consegna al carnefice i complici che cadono nelle sue mani, trasportano il lettore nella trepidazione di una seduta memorabile, lasciano assistere al colpo di scena del disvelamento. E poi Sallustio, che non molti anni dopo le vicende affida la sua ricostruzione dei fatti a una monografia sofisticata, drammatica.
Il problema, ovviamente, è che Cicerone, ma anche Sallustio, tutto sono meno che testimoni spassionati. Al console preme scolpire l’autoritratto di salvatore della patria, dell’uomo che con sagacia e determinazione ha saputo porre rimedio al più grave pericolo che la Repubblica avesse fino ad allora affrontato, anche a sprezzo del pericolo personale. Le intenzioni di Sallustio sono più sfumate, e più articolata è la sua narrazione. Loda Cicerone, il cui primo discorso definisce «magnifico e utile alla Repubblica», e fa pronunciare a Catone un discorso implacabile che caldeggia l’immediata esecuzione dei congiurati. Ma altrettanto spazio la sua Congiura di Catilina riserva all’astuta riflessione di Cesare: critico, ci mancherebbe, eppure sottile nei distinguo. Per grave che sia lo sdegno occorre mettere da parte ogni emozione, ammonisce. Nessuna pena, «concede, è adeguata al crimine di Catilina, tanto grave da risultare quasi comprensibile: e allora, paradossalmente, meglio evitare la condanna a morte e attenersi alle pene usuali. Meglio non creare un precedente che in questo caso sarebbe sacrosanto, ma aprirebbe le porte ad abusi e distorsioni. Un capolavoro di equilibrismo e Realpolitik, insomma, che mentre evita di alienare del tutto la parte politica in qualche modo rappresentata da Catilina getta le basi per future alchimie di potere. In Senato, Catilina stesso ha in fondo l’ultima parola. Inseguito e sconfitto arringa i suoi soldati prima della battaglia finale nel nome della comune “antica virtù” – vinto, ma certamente non domo. Lo stesso tratto superbo, sprezzante, che lo aveva spinto a presentarsi in Senato per fronteggiare Cicerone. Alle accuse aveva reagito ricordando i meriti della sua illustre famiglia infangati da un parvenu, “un inquilino dell’Urbe”. Sconfitto, aveva promesso di estinguere la sua rovina nella catastrofe.
Alessandro Banda trasforma abilmente in opzione narrativa la difficoltà di confrontarsi con fonti antiche così dettagliate ed eloquenti. Neppure il suo Catilina esce dalle ombre del discorso indiretto, del resoconto interessato. Ma alle spalle di un Cicerone troppo desideroso di gloria per conservare fino in fondo la scaltrezza del politico, il romanzo disegna una trama occulta parallela, una congiura nella congiura, frutto di una rete di alleanze e di interessi che di lì a poco trasformeranno il console da apparente trionfatore in capro espiatorio. Mentre nelle ville dei potenti Cesare e Crasso tramano contro di lui, la vox populi per le strade e nei negozi, qui racchiusa in dialoghi rapidi, vivaci, amplifica le critiche rivolte a un Cicerone precipitoso, avventato, ingenuo. Cesare, d’altronde, lo aveva detto a chiare lettere: le emozioni, in un caso tanto eccezionale, rischiano di oscurare il giudizio.
In fondo era vero. Cicerone, per salvare la Repubblica, ne aveva violato le leggi, mettendo a morte cittadini liberi, certo in piena emergenza, ma senza seguire le procedure previste. Un errore di valutazione involontario, anzi no, perché previsto nei minimi dettagli (nel romanzo) dai suoi avversari occulti, maestri nello sfruttare la sua debordante vanità contro un uomo che «ama se stesso di un amore inesauribile». Un amore funesto, che in pochi anni lo condannerà all’esilio. Tutto previsto, o appunto orchestrato, da Cesare e Crasso. O forse neppure da loro. Si aggira nelle pagine di questo romanzo-pastiche, intessuto di rielaborazioni dei modelli antichi (e non solo), un personaggio che trasforma la saggezza dei filosofi in arma di potere. È il misterioso “Vasaio”, il Nigidio Figulo seguace di Pitagora, che seminascosto nell’ombra spinge il console all’errore guidando la mano di Cesare e Crasso in obbedienza a un oscuro disegno di saggezza secolare. Per Cicerone, ma anche per Cesare, il potere è solo illusione effimera.
Alessandro Banda, Congiura , Guanda, Milano, pagg. 328, € 19