venerdì 9 marzo 2018

il manifesto 9.3.18
Via da Gerusalemme i palestinesi non «fedeli» a Israele
Territori occupati. Lo prevede una legge approvata mercoledì dalla Knesset. E ora Netanyahu aspetta Donald Trump all'apertura dell'ambasciata Usa a Gerusalemme.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Si può essere “leali” ad uno Stato che occupa illegalmente il territorio in cui vivi? L’interrogativo è riemerso due giorni fa quando la Knesset ha approvato una legge che consente al ministro degli interni israeliano di revocare lo status di residente ai palestinesi di Gerusalemme Est responsabili o complici di «attività terroristiche o anti-israeliane». Revoca che equivale all’espulsione poiché già ora una disposizione ministeriale prevede la deportazione quasi immediata di coloro ai quali è stata ritirata la residenza. Israele considera Gerusalemme la sua capitale e applica le sue leggi anche sulla zona Est, palestinese, che ha occupato nel 1967. L’approvazione della legge è coincisa con il viaggio di Benyamin Netanyahu negli Usa dove il premier israeliano ha strappato la presenza, quasi certa, di Donald Trump alla cerimonia di apertura del’ambasciata Usa a Gerusalemme il prossimo 14 maggio, un passo conseguente al riconoscimento della città come capitale di Israele fatto dal presidente americano tre mesi fa. Il New York Times ha rivelato che il terreno sul quale sorgerà la rappresentanza diplomatica americana ricade nella zona occupata. «È un territorio occupato – ha protestato Ashraf Khatib a nome dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina – lo status di quel territorio sarà deciso dal negoziato finale».
La legge appena approvata prevede la revoca della residenza al palestinese che «mette in pericolo la sicurezza pubblica o tradisce lo Stato» e si applica a tutti i residenti a Gerusalemme Est, quelli giunti da poco o quelli vi abitano da lungo tempo. Ed è stata redatta dopo che l’Alta Corte di Giustizia l’anno scorso annullò il ritiro, più di dieci anni fa, della residenza a quattro abitanti di Gerusalemme est: tre parlamentari del movimento islamico Hamas Mohammed Abu Tier, Ahmad Attoun e Muhammad Totah e l’ex ministro per Gerusalemme Khaled Abu Arafeh. Tutti furono accusati di «slealtà» nei confronti dello Stato di Israele. Ora sarà istituito un comitato consultivo al ministero dell’interno che valuterà la «fedeltà» dei palestinesi, tenendo conto della loro partecipazione ad attività “terroristiche”. In Israele è considerato terrorismo anche il lancio di pietre.
Il governo e l’opinione pubblica applaudono alla nuova legge. Al contrario il deputato comunista Dov Khenin, della Lista unita araba, la descrive come «pericolosa». I palestinesi di Gerusalemme Est, spiega Khenin, «vivono lì non perché hanno scelto di essere israeliani ma perché è la loro casa. Questa legge vuole imporre un obbligo di fedeltà tra loro e lo Stato di Israele che non ha alcuna logica».
Intanto proseguono le proteste palestinesi per il raid compiuto due giorni fa nel campus dell’università di Bir Zeit da una unità sotto copertura dell’esercito israeliano. Fingendosi dei manovali, gli agenti israeliani hanno bloccato Omar al Kiswani, un leader del consiglio studentesco. Poi si sono allontanati puntando le loro pistole contro i presenti, tra scene di panico e le urla degli studenti. Un’azione in stile Fauda (caos), la serie tv israeliana sulle unità speciali dei servizi di sicurezza che operano in Cisgiordania e che riscuote un enorme successo nel Paese. Nella fiction e come nella realtà le vittime sono sempre i palestinesi.

La Stampa 9.3.18
Padova, don Contin coinvolto in uno scandalo a lci rosse nel Padovano è stato ridotto allo stato laicale
Era stato coinvolto in un’inchiesta a «luci rosse». La decisione «inappellabile» del vescovo Cipolla: «Queste vicende hanno arrecato tanto danno alla Chiesa»
di Domenico Agasso jr

qui

Repubblica 9.3.18
La strage di Parla la psicologa che ha fatto parte della task force di supporto dei bambini sopravvisuti ad Amarice
“Era giusto dirle tutto e subito la verità non si rinvia”
intervista di Alessandra Ziniti


«Era giusto che sapesse ora. Non bisogna mai procrastinare la verità, ma dirla con le parole adatte prima possibile».
Annarita Verardo, psicologa e psicoterapeuta, una lunga esperienza nelle terapie di superamento dei traumi in ambito familiare ma anche su teatri di sciagure, sa bene che per un genitore non può esserci niente di peggio che sopravvivere ad un figlio. Ma il caso di Antonietta Gargiulo non è certo come gli altri.
Dottoressa, come si fa a dire una verità così sconvolgente ad una donna che è sopravvissuta ad un tentativo di omicidio e si è appena svegliata?
«Sono certa che i familiari e i colleghi che li hanno assistiti lo hanno fatto con le parole giuste pronunciate non da estranei e nel momento in cui le condizioni fisiche lo hanno consentito».
Ma quali possono mai essere le parole giuste per comunicare una verità così sconvolgente?
«Le parole reali. Il fatto di cui la signora è stata vittima è terribile, è una cosa che ha sconvolto tutti noi ed è ovvio che la verità provochi uno shock in questa mamma. Non si può ancora parlare di lutto. Il lutto prevede tempi lunghi. Qui siamo all’impatto con un evento aggressivo che va al di là delle nostre capacità di comprensione e che provoca shock, disperazione, colpa, rabbia, impotenza».
Già, colpa. Il fatto che ad uccidere le sue bambine sia stato quel marito che da tempo la perseguitava potrebbe farle scattare un enorme senso di colpa?
«Certamente sì, Senso di colpa di chi si tormenterà chiedendosi che cosa poteva fare che non ha fatto per evitare la tragedia ma anche rabbia nei confronti di chi avrebbe potuto agire diversamente davanti alla sua richiesta di aiuto e fermare quell’uomo. In circostanze come questa il nostro cervello non ce la fa a dare una spiegazione, tenta di trovarla e deposita sentimenti. È la fase acuta, quella dello shock, quella in cui il cervello si difende da solo».
Antonietta Gargiulo in questo momento, dopo l’intervento, non può neanche parlare, esprimere le sue reazioni . Non è terribile?
«La cosa positiva è che il cervello sa cosa fare. Dopo lo shock lei avrà una fase di distanziamento che le impedirà di impazzire. In 48-72 ore si entra e si esce dal dolore in maniera intermittente e tollerabile».
E poi?
«E poi passerà alla fase fisiologica della tristezza e del dolore che accompagnano ogni perdita. Avrà bisogno di supporto, comprensione del suo stato emotivo. Non si riprenderà subito. Normalmente l’elaborazione del lutto dura un anno ma in un caso così ci vorrà molto di più».
Oggi non potrà essere presente al funerale delle sue figlie. Non è anche questa una cosa insopportabile?
«E’ vero, è atroce. I riti sono un aiuto enorme per fronteggiare la realtà e un lutto. Il fatto che lei non ci sia è una complicazione in più, il suo percorso sarà molto più difficile».
Dove troverà la forza per andare avanti?
«Le risorse sono dentro di lei, Non bisogna dirle cose del tipo “Le tue bambine stanno meglio lì” o “Non dovresti pensare a questo o a quello”. Bisogna farla fermare sul fatto che non è stato un caso che lei sia sopravvissuta, vuol dire che lei deve fare ancora qualcosa della sua vita».
Insomma, anche un trauma come questo si riesce a superare?
«Lei ha perso tutto, qualsiasi stabilità e punto di riferimento.
Durerà a lungo ma potrà superarlo. C’è uno strumento straordinario ed è il nostro cervello che nel momento del trauma ha tutte le risorse per farlo. Questo è importante e dà speranza. E poi non dimentichiamo che in questa storia c’è un altro aiuto da dare».
Quale?
«I compagni di scuola delle bambine. Hanno visto che un genitore può fare un atto del genere e sono traumatizzati. La scuola, i genitori devono chiedere aiuto, spiegare che è un evento fuori dalla norma. Il tempo da solo non basta».

Il Fatto 9.3.18
Gustavo Zagrebelsky: “Questo voto è una rivolta contro la politica oligarchica”
Il giurista e presidente emerito della Consulta: “Hanno voluto rinviare di un po’ il redde rationem, ma alla fine è arrivato e per via democratica”
intervista di Silvia Truzzi


Professor Zagrebelsky, che lettura dà del voto del 4 marzo?
Non una rivoluzione, piuttosto una ribellione o, se preferisce, una rivolta. Mi baso non su dati di demoscopia elettorale, ma su personali diffuse percezioni.
Rivolta contro chi o contro cosa?
La psicologia politica democratica è ciclica. Le democrazie, all’inizio, sono sistemi aperti alla larga partecipazione popolare; poi, più o meno rapidamente si rattrappiscono in oligarchie. Le forme possono restare tali, ma i cittadini iniziano a sentirsi estranei in casa propria. Della trasformazione delle democrazie in oligarchie è testimone la storia. La ribellione non è una malattia dello spirito, ma la reazione a un sentimento di spossessamento, tanto più forte quanto più la classe politica è stata sorda e si è costituita in casta. Non appena si toglie il coperchio, arrivano le sorprese.
Se questo è “populismo”, allora equivale alla ribellione delle masse contro le élite?
La parola è carica di valenze negative. Che cosa davvero significhi è difficile dirlo. Di sicuro, chi la rivolge a un altro non vuole fargli un complimento. Senza risalire più indietro, populisti sono stati detti Perón e la moglie Evita in Argentina; papa Giovanni XXIII e papa Francesco; Obama, Trump e Sarah Palin negli Usa; Di Pietro, Berlusconi e Renzi da noi. Insomma, populisti sono sempre gli altri, quando li si teme. Salvo poi, quando serve, scambiare le vesti; così, per esempio, Berlusconi e Renzi, all’inizio esempi di populismo, diventano a un certo punto magicamente gli alfieri dell’anti-populismo. Chi parla di populismo, insomma, parla per frasi fatte e si esonera dal guardare dentro la complessità delle cose. Proporrei di abbandonare la parola tra gli scarti del lessico politico.
Se “guardiamo dentro”, come dice lei, che cosa vediamo?
Possiamo vedere tante cose, ma c’è una costante: si dice populista al leader, al movimento, al partito che, con l’appoggio del popolo, contesta i poteri costituiti. Oggi diremmo: contesta “la casta”. La parola populismo, non ha a che vedere con il conflitto tra idee politiche: si può essere populisti o anti-populisti di destra e di sinistra. Ha a che vedere, invece, con la competizione per il nudo potere. Nella contesa politica, chi più frequentemente la pronuncia appartiene (così rivelando di appartenere) al giro di coloro che si ritengono superiori e perciò pretendono d’impersonare il “buon-governo”. Pochi che sanno contro i tanti che non sanno: oligarchia, per l’appunto. Salvo poi constatare che il bene di tutti finisce presto per coincidere con gli interessi più forti.
E ora?
Mi pare di vedere che siamo pienamente in una fase di diffusa insofferenza nei confronti di questo modo di concepire la vita politica come affare di circoli riservati. Come dicevamo, ribellione di massa contro la cristallizzazione e l’autoreferenzialità di un potere chiuso, lontano, incapace di avvertire le tante ragioni di sofferenza della nostra società. I 5Stelle dovranno ancora chiarire diverse cose circa la propria identità, e non potranno non farlo quando saranno chiamati alla prova del governo. Ciò che, comunque, si può dire fin da adesso, è ch’essi sono una risposta all’insofferenza che caratterizza il ciclo attuale della democrazia di cui parlavo all’inizio.
Che succede, quindi?
Nessuna struttura di potere è immune dal rischio oligarchico. Nemmeno chi ha avuto successo in nome della lotta contro le oligarchie. Vedremo se e come ci si renderà conto del rischio sempre presente d’essere fagocitati.
Si è interrotta la connessione sentimentale con gli elettori?
Miopia politica del ceto politico, direi piuttosto. O forse arrendevolezza, impotenza di fronte agli effetti sociali di un sistema di relazioni dominato dalla libertà della speculazione finanziaria. I diritti sociali conquistati nel secolo scorso si sono progressivamente erosi. I più deboli sono in difficoltà. Il numero dei poveri e degli emarginati cresce.
Facciamo qualche esempio?
Si rinuncia a fare studiare i propri figli; si rinuncia a cure mediche pur essenziali; si cerca altrove la prospettiva d’un futuro; si vive di carità o di espedienti. A fronte di ciò stanno i garantiti, anzi i super-garantiti. Andare all’estero per cercare un proprio futuro non è per tutti la stessa cosa. Per alcuni è questione di sopravvivenza; per altri, è status symbol della upper class. Non sono la stessa cosa il cameriere o il barista, e lo studente del college esclusivo che si prepara a entrare nell’agognato cerchio della finanza internazionale. Lei parla di connessione sentimentale. Come può esserci qualcosa di questo genere quando si fronteggiano precarietà e sicurezza, fragilità e immunità, ingiustizia e privilegio. Sono patetiche illusioni, vuote parole quelle di chi si propone il recupero della fiducia tacendo delle responsabilità maggiori che gravano su chi sta più in alto nella scala sociale. Anche gli atti simbolici sarebbero importanti. Non si risolvono i problemi della finanza pubblica riducendo indennità, emolumenti, regalie varie, ma certo si darebbe un segno importante. È un segno negativo la difesa a testuggine “fino alla sentenza definitiva” dei politici e degli amministratori che incappano in incidenti giudiziari, anche se non è solo su questo terreno che si sconfigge la corruzione dilagata nel nostro Paese.
Tutto questo genera frustrazione?
Certo. Al fondo della piramide c’è una massa di cittadini con difficoltà a vivere il presente e a immaginare il futuro. È irritante sentir dire, per esempio, che il Jobs Act ha creato migliaia di nuovi posti di lavoro: parli con i giovani e scopri che sono lavori sottopagati, a tempo limitato, senza garanzie e spesso aggravati dalla minaccia del licenziamento facile. Spesso non è diritto al lavoro ma sfruttamento.
La democrazia si basa sul consenso: come non capire i rischi di questa cecità?
Le oligarchie si considerano depositarie del verbo. Se dovessimo definire “oligarchia” non solo da un punto di vista numerico, potremmo dire questo: pochi che si sentono tutti. Ma siamo in democrazia e almeno ogni cinque anni si dà voce agli elettori: si può tenere la rabbia sociale sotto un coperchio per un po’, ma arriva il momento in cui il coperchio salta. Ed è esattamente il tempo che stiamo vivendo.
Vuol dire che il coperchio peraltro è saltato nella forma giusta, con la protesta nelle urne.
È saltato democraticamente. Chi ha a cuore la democrazia deve sempre temere che l’insofferenza prenda altre strade, il ricorso all’uomo forte, all’uomo della provvidenza. Per questo è pericoloso soffocare oltre misura l’espressione per vie democratiche di quel sentimento.
Sta dicendo che si sarebbe dovuto andare a elezioni anticipate?
Dico solo che anche a questo riguardo l’impressione che si è avuta è che si sia voluto posticipare il redde rationem elettorale, pur quando ci sarebbe stato più d’un motivo per ridare la parola agli elettori. Se si fosse potuto, le elezioni si sarebbero rinviate a non si sa quando.
Si potrebbe obiettare che sono stati sempre rispettati i meccanismi della democrazia parlamentare.
Certamente. La forma è salva, la sostanza ha scricchiolato.
Nel sentimento di autosufficienza della “casta” quanto pesa la legittimazione dei media?
L’informazione viene considerata o un’alleata o una nemica. Ma chi governa dovrebbe sapere che una stampa indipendente e vigile, né alleata né ostile per principio, alla lunga fa il suo bene, non il suo male. L’aiuta a non cadere nell’autoreferenzialità e a evitare d’essere vittima di “populismo”.
Alla base forse c’è un equivoco che nasce dal desiderio di alcuni giornalisti di far parte del mondo che si deve raccontare.
In un passo di La politica come professione, il celebre saggio di Max Weber, un grande capitano d’industria invita a cena alcuni suoi colleghi e anche un giornalista, lusingato di essere associato a questa cerchia di ottimati. Quando se ne va, il padrone di casa si scusa con gli ospiti per la presenza dell’intruso: “Ho dovuto invitare quello zotico perché prossimamente si occuperà delle nostre cose”.
Veniamo a vincitori e vinti. Proviamo a tracciare la parabola di Renzi dal 4 dicembre al 4 marzo? Nel discorso in cui ha annunciato le sue strane dimissioni ha fatto intendere che tutti i guai derivano dalla vittoria del No al referendum costituzionale.
Chi ha avversato la riforma costituzionale ha capito una cosa semplice: che si trattava, per chi l’aveva promossa, di uno strumento potente per vincere una battaglia politica, legittimarsi plebiscitariamente, rivestirsi d’una corazza anche istituzionale. Ma le costituzioni non possono essere bozzoli del potere. Devono essere limiti e aperture nel potere. Quell’eccesso d’immedesimazione di Renzi e dei suoi non ha fatto che convincere i più a difendere la costituzione esistente.
C’è, secondo lei, un rapporto di continuità tra il 4 dicembre 2016 e il 4 marzo 2018?
Mi pare di sì. Nel referendum costituzionale è prevalso il rigetto della prospettiva della politica privatizzata a vantaggio d’un certo “giro di potere”. È stato la premessa, l’introduzione al secondo atto, l’atto finale. Non avere intravisto lo svolgimento e non essersi messo da parte allora hanno portato al disastro attuale del partito democratico. Ogni cosa ha il suo tempo giusto e i suoi tempi sbagliati.
Molti hanno detto che era materia troppo complicata per il popolo: poteva votare chi ci capiva qualcosa, non l’uomo della strada.
Nei Quaderni Gramsci risponde così a chi gli chiede come possa la democrazia equiparare il voto di Benedetto Croce a quello del pastore della Barbagia: è vero, è ingiusto. Ma la colpa non è del pastore sardo, la colpa è di chi non ha saputo informarlo, creargli una coscienza e una cultura politica. Quanto alla riforma costituzionale, non si è trattato tanto di bicameralismo perfetto, di competenze regionali concorrenti, o di altre delizie di questo genere. Si è trattato d’una operazione di potere tentata con mezzi costituzionali. Per capirlo, non c’era bisogno d’essere professori di diritto costituzionale e, infatti, lo si è capito benissimo. Questo è stato il primo errore di Renzi; il secondo, dopo la sconfitta, l’aver voluto restare al centro della scena. Muoia Sansone e tutti i Filistei: accecamento per megalomania e preludio di rovine.
Direbbe che aveva pur avuto l’investitura delle primarie.
Ma io mi riferisco non solo a lui, anzi nemmeno principalmente a lui. Mi riferisco soprattutto a quelli che gli sono stati vicini, ne hanno approfittato, non sono stati capaci o non hanno voluto aprire gli occhi, innanzitutto a se stessi e poi a lui. Tipico d’ogni oligarchia è di far quadrato anche oltre il tempo massimo. Della sconfitta renziana anche loro, anzi forse loro più di tutti, sono responsabili. Della distruzione della sinistra e del Partito democratico non si faccia di Renzi un solitario capro espiatorio.
Si evoca un possibile governo di scopo per modificare l’ennesima legge elettorale, probabilmente incostituzionale. Se in un’azienda un dirigente venisse incaricato di portare a termine un compito e questo per sei anni la facesse sempre male, che fine farebbe? C’è anche un problema d’incapacità?
No, non credo. Leggendo ciascun comma di queste leggi – Porcellum, Italicum, Rosatellum – è subito chiaro a favore o contro chi è stato scritto. Il ceto politico pensa le norme elettorali come strumenti per fare i conti al proprio interno. Ma le leggi elettorali – sarò ingenuo a pensarlo – devono essere soprattutto nell’interesse dei cittadini. L’elettore non esiste in natura, ciascuno diventa elettore dopo che la legge gli ha dato o negato certi poteri. Tutte le altre leggi non hanno questa intensa caratteristica “definitoria” dei soggetti cui si riferiscono. Le nostre ultime leggi elettorali non sono leggi (solo) mal scritte; sono leggi mal tournées, leggi che guardano cioè dalla parte sbagliata.
Se anche il Rosatellum dovesse essere dichiarato incostituzionale, cosa accadrebbe?
Probabilmente, niente. Il principio di continuità dello Stato, già utilizzato per salvare il Parlamento eletto tramite una legge incostituzionale, può essere utilizzato indefinitamente: si fa una legge elettorale, si elegge un Parlamento, la legge è annullata, il Parlamento continua e fa quel che gli pare, poi magari si fa un’altra legge incostituzionale e si ricomincia da capo. Uno scherzetto, indice d’irresponsabilità democratica. Non può non avere contribuito ad alimentare l’idea di senso comune di essere nelle mani d’un ceto politico autoreferenziale.
Come si può rimediare?
Si poteva sperare nei custodi della Costituzione – Corte costituzionale e presidente della Repubblica – che facessero valere ciò che è ovvio: vera l’esigenza di continuità, ma altrettanto vera la necessità di sanare al più presto il vulnus che si era realizzato al piano più alto delle istituzioni rappresentative.
Molti trovano strano chiedere al Pd e alla sinistra di sostenere un governo con i 5 Stelle. E lei?
Io per nulla. La direzione è quella. Ma ci vorranno tempi lunghi. Quindi avremo modo di riparlarne.

il manifesto 9.3.18
Le crisi del Pd e della sinistra chiedono di ricostruire una prospettiva politica
Crisi della sinistra. I risultati elettorali dicono che l’assenza di ogni pensiero apre la strada al successo, la massa non aspetta che sentirsi dire questo poiché in questa assenza è stata formata
di Alberto Asor Rosa


Siccome quando Matteo Renzi fu eletto segretario del Pd a furor di “popolo” (primarie del….), io mi azzardai, a dire che il candidato eletto appariva chiaramente inadeguato al compito che aveva tenacemente richiesto e conquistato, e nell’occasione azzardai anche qualche dubbio sull’opportunità dell’utilizzo dello strumento delle primarie anche per le specifiche questioni riguardanti la struttura di un partito (anticipo di “populismo” anche quello?); e siccome nel corso della sua opera di presidente del consiglio e di segretario di partito mi è accaduto di nominarlo su queste colonne come «Mister Catastrofe»; credo di essere autorizzato a dire oggi che quanto è accaduto con questo risultato elettorale è la conseguenza logica e inevitabile della logica e della natura dell’intero percorso. Anche in politica, e anche oggi (stagione d’imprevediblità), quel che accade continua a essere la conseguenza naturale di quel che è accaduto; e se ce lo dimentichiamo sono guai.
SE MAI, SI PUÒ esprimere perplessità sul fatto che il gruppo dirigente del Pd non abbia trovato la forza d’interrompere prima questo percorso catastrofico. Anche la scissione di LiberieUguali, peraltro inevitabile e ragionevole, ne rappresenta una testimonianza: chi non accettava se n’è andato, non ha avuto la forza, non ha trovato il modo di cambiare.
Oggi le dimissioni di Renzi vanno considerate immediatamente valide: non c’è tempo né modo di rimandarne gli eventuali, anche se problematici, esiti positivi. Non manca nell’attuale gruppo dirigente del Pd un gruppo di nomi in grado di costituire un direttorio, allo scopo di promuovere un’auspicabile, anche se, ripeto, problematica, transizione. I primi che verrebbero in mente a chiunque sono quelli di Del Rio, Franceschini, Gentiloni, Martina, Orlando; ora, a quanto sembra, Calenda; ma certamente, io penso, soprattutto nelle periferie del partito ce ne sono altri, e altre.
PER FARE COSA? Certamente non per andare al governo, in qualsiasi forma questo oggi si possa contemplare. Al governo è giusto e corretto che vadano i vincitori, se ne sono capaci. Gli sconfitti vanno senza ombra di dubbio all’opposizione, e da lì, se ne sono capaci, riprendono la strada. Così in articulo mortis (in senso figurato, s’intende), anche «Mister Catastrofe» ha detto una cosa giusta, anche se lui l’ha detta per prolungare l’agonia, per rimandare l’uscita di scena: motivo di più per toglierlo di mezzo subito.
PER RIPARTIRE, – perché di questo si tratta, – bisogna però chiarire subito e definitivamente una faccenda: e cioè se il Movimento 5Stelle possa esser considerato un interlocutore attendibile di un possibile, autentico partito o movimento di centro-sinistra. Il Movimento 5Stelle rappresenta, – che strano, lo abbiamo detto tutti fino a poco tempo fa, ora per la banale conquista di un 30% elettorale molti si sentono autorizzati a cambiare opinione?, – l’essenza più pura e rappresentativa, – proprio da qui, appunto, l’attuale successo elettorale, – della sconfitta della “politica” a livello nazionale italiano. Il fatto che il più grande successo sia stato conseguito al Sud, dove le strutture della rappresentanza e del potere, e dunque della “politica”, sono sempre state più fragili che altrove, ne rappresenta un ulteriore testimonianza, non un segnale positivo, ma un’aggravante.
IL SUCCESSO glielo abbiamo consegnato noi, – vedi il renzismo, – non è nato consapevolmente e originalmente da solo. Se si ignora questo, e ci si allea con i 5Stelle, tempo due anni, e il Pd si scioglie in quello, cioè nella preclara Ditta Grillo-Casaleggio-Di Maio. Leggo che Grillo ha dichiarato in questi giorni: «Noi siamo dentro democristiani, un po’ di sinistra e un po’ di centro. Possiamo adattarci a qualsiasi cosa, quindi vinceremo sempre noi, sul clima, sull’ambiente, sulla terra». Cioè: l’assenza di ogni pensiero apre la strada al successo. E’ vero: la massa non aspetta che sentirsi dire questo, poiché l’assenza di ogni pensiero (per responsabilità anche nostra, certo) l’ha formata così.
E ALLORA, che fa il Pd all’opposizione? Ricostruisce quello che è venuto meno in questi anni, e ha consentito il risultato elettorale da cui siamo partiti per questo ragionamento.
Cos’è mancato? E’ mancato nel quadro politico italiano, – e questo mi pare indubitabile, quale che sia il giudizio positivo o negativo da formulare sul fenomeno, – una chiara, persuasiva, convincente, nutrita di argomenti e di fatti, prospettiva di centro-sinistra. Può sopravvivere e avanzare un paese dell’Europa sviluppata e moderna, nelle attuali, condizioni critiche globali, senza una prospettiva di centro-sinistra?
LA STORIA ORMAI parla chiaro: dove non c’è dilaga quello che più o meno propriamente viene definito “populismo”. Questa prospettiva c’è stata in Italia? No, per niente, perché la politica del Pd, ammiccante a destra e come sospesa sul limbo di una sorta d’infantile autonomia politico-ideologica, non se n’è curata, anzi, l’ha impedita.
Perché dico centro-sinistra e non puramente e semplicemente sinistra, come forse ci si aspetterebbe? Perché la sinistra può avere un ruolo importante, anzi, per certi versi decisivo, se accetta di partecipare a questo gioco. Naturalmente, se accettasse di giocarlo; se non accettasse sarebbe un altro disastro. Se accettasse di giocarlo, sarebbe estremamente importante, in presenza delle attuali difficoltà interne al Pd, che dichiarasse apertamente subito, o almeno i1 prima possibile, di volerlo giocare.
MA BISOGNA in ogni caso accettare e riconoscere che questo gioco, – un gioco fortemente riparatore e risarcitorio, non puramente difensivo, – si svolge nel quadro strategico, – strategico, ripeto, – di un centro-sinistra italiano ed europeo.
Ora, è ovvio che in Italia senza Pd non si può ricostruire una prospettiva di centro-sinistra. Da qui l’importanza che assumeranno le scelte, nei prossimi giorni e settimane, da parte del gruppo|dirigente di quel partito. Sto parlando intenzionalmente di “tempi politici”, attuali, anzi attualissimi. Se decidessimo di ragionare su “tempi storici”, forse la meditazione e la proposta potrebbero essere diverse. Ma chi con noi avrebbe voglia di farlo?
Un’ultima cosa: e se, oltre a tutto il resto, si aprisse un dibattito politico-intellettuale comune su forme, contenuti, strumenti, dislocazioni e proiezioni sociali, di un’eventuale prospettiva di centro-sinistra, riportata qui in Italia, certo, ma con uno sguardo all’Europa? Non era tradizione della sinistra (più o meno, in gradazioni diverse, qualsiasi sinistra), coniugare il dibattito politico con quello culturale? Da quanti anni questo non accade più?

Corriere 9.3.18
Vincitori e vinti
di Sabino Cassese


Il vinto (il Pd) deve correre in soccorso del vincitore (il M5S)? C’è un dovere morale e politico di cooperare con i propri avversari, oppure chi è rimasto soccombente ha la responsabilità di fare nel modo più efficace l’opposizione? E questo dovere di cooperare come può realizzarsi e a quali condizioni? Queste domande si pongono perché la scelta popolare, mentre ha destinato chiaramente la sinistra all’opposizione, non ha, però, altrettanto chiaramente indicato un (solo) vincitore, consentendo maggioranze diverse.
Non ho una risposta a queste domande (limitate a una parte soltanto dello schieramento, che non include l’altro vincitore, il centrodestra, né la possibilità — anch’essa aperta e secondo molti auspicabile — di una cooperazione tra centrodestra e centrosinistra), ma proverò a valutare pro e contra , partendo da una riflessione sull’assetto costituzionale che si è venuto affermando in questo ultimo quarto di secolo.
Esso rappresenta una forma nuova e singolare di democrazia, nella quale i binomi classici, maggioranza–opposizione, alternanza–continuità, concentrazione–distribuzione dei poteri, sono declinati in modo diverso. È dal 1994 che l’elettorato italiano ha voluto una alternanza di destra e sinistra al potere. Ora che si sono presentate nuove forze politiche (la nuova Lega e il M5S), il pendolarismo da bipolare diventa tripolare, e i nuovi entranti sono stati premiati. Il messaggio che si trae da queste scelte elettorali è chiaro: sfiducia nei governanti, affidamento nella breve durata e nel ricambio. Il popolo ha più fiducia in deleghe temporanee e in un alternarsi delle forze politiche al potere che in un ragionevole gioco maggioranza-opposizione, o in un sistema di poteri contrapposti (i checks and balances della Costituzione americana). Le ragioni di queste scelte vanno forse cercate nel trasformismo della classe politica (i «cambiamenti di casacca»), oppure nella «verticalizzazione» del potere (la «stanza dei bottoni» appare sempre ermeticamente chiusa, quindi è meglio cambiarne gli occupanti).
Si aggiunga, in questo caso, che la «delega» popolare emersa dalle elezioni politiche del 2018 non è piena, costringe all’accordo, un messaggio particolarmente scomodo per chi (il M5S) aveva creato aspettative di people’s empowerment , e fino a ieri ha dichiarato di voler dare la voce al popolo, mentre è ora costretto a negoziare in Parlamento, legato alle procedure della democrazia rappresentativa. Se dovesse farsi un accordo, quali forme prenderebbe, quello della «Grande Coalizione» tedesca, con Pd e M5S insieme al governo, o quello di un appoggio esterno, e in che modo potrebbe manifestarsi tale appoggio? Essendo l’Italia un grande laboratorio politico, nel quale ogni forma di gestione del potere è stata sperimentata, c’è il precedente, più volte evocato nel 2013 e in questi giorni, del governo Andreotti III (1976). Allora, nessuno aveva i numeri per governare. Al Senato fu eletto Fanfani (Dc), alla Camera Ingrao (Pci). Andreotti (Dc) chiese alle camere la fiducia «o almeno la non sfiducia». Il Pci e altri partiti si astennero e nacque il governo detto «della non sfiducia» o «delle astensioni». Il governo durò poco più di un anno e mezzo e l’attività legislativa venne concordata dalle due grandi forze politiche, democristiani e comunisti. Analoghe esperienze sono in corso in Irlanda e in Spagna.
Anche un appoggio esterno richiede un minimo di intese sul programma, che nel caso attuale imporrebbe una maggiore fedeltà europea, almeno per rispettare i trattati.
Una soluzione di questo tipo ha alcuni vantaggi, ma anche molti inconvenienti. Era prevedibile, tanto che da mesi si parlava di necessità di accordi. Implicherebbe negoziati tra forze avversarie, ma composte di un elettorato non molto disomogeneo, considerato il travaso di voti che vi è stato nelle ultime elezioni da Pd a M5S. Riguarda due forze politiche che hanno inseguito obiettivi comuni (basti pensare alle critiche ai vitalizi o ai tetti degli stipendi). Consentirebbe al Pd di proteggere le proprie leggi e di assicurare, quindi, continuità delle sue politiche. Darebbe una voce alla questione meridionale, rimasta afona in questi anni (considerato che dal Sud vengono i voti del M5S), così tenendo insieme le due diverse Italie, come ha osservato Angelo Panebianco nei giorni scorsi su questo giornale. Potrebbe consentire al Pd di riavvicinarsi a una parte del suo elettorato, quello che ha preferito migrare tra Leu.
Il soccorso prestato dal vinto al vincitore, anche nella forma di astensione e senza condividere l’attività di governo, presenta, però, anche numerosi inconvenienti. Le distanze tra i due poli sono forti e sono fortemente sentite nella fase post-elettorale. L’accordo o l’appoggio esterno dovrebbe essere concesso oggi dal Pd al M5S, mentre, a parti invertite, i grillini non lo concessero nel 2013 ai democratici. Rapporti di questo tipo, molto instabili, lo sono ancor di più con forze politiche improvvisate e volubili come il M5S, e quindi si corre il rischio di creare un governo molto precario. Specialmente subito dopo le elezioni, quando sono ancora aperte le ferite inflitte nella competizione per il voto, può essere difficile assicurare compattezza dei gruppi parlamentari. Infine, il Pd, nell’appoggiare il M5S, potrebbe metter in gioco la propria sopravvivenza.
Una sola conclusione è possibile. Il futuro politico dell’Italia è pieno di incognite. Le divisioni sono ancora molto forti. Fare previsioni è azzardato. Ma si possono dare alcuni consigli. Cessato lo scontro elettorale, misurate le forze in campo, si cerchino accordi: più ipotesi sono possibili e il Paese ha bisogno di un governo che lo accompagni nella lenta ripresa economica. Chi vuol fare accordi lo dica chiaramente, e gli accordi siano alla luce del sole. Se accordi di lungo periodo sono impossibili, programmi limitati e di breve periodo possono essere sperimentati. Se neanche questi sono realizzabili, si tenti almeno un’intesa, la più larga possibile, sulle regole del gioco (dopo tutto, anche la nostra Costituzione è nata da un’intesa tra forze opposte).

La Stampa 9.3.18
Marco Minniti: “Adesso per la prima volta il Pd rischia di scomparire”
Il ministro dell’Interno: parlare di governo è strafottenza verso gli elettori
Dopo le elezioni che hanno portato il partito democratico al 18%, e le dimissioni del segretario Matteo Renzi, il partito vive ore di grave crisi interna
di Fabio Martini

qui

Repubblica 9.3.18
Il dialogo impossibile
Il pd non ceda rischia la fine
di Roberto Esposito


Come scrive ieri Mario Calabresi, la scelta di stare all’opposizione per il Pd non è questione di tattica, ma di strategia. In gioco non è la scelta del leader o i rapporti di forza tra i suoi dirigenti, ma la difesa della sua stessa esistenza politica. Se il Pd cedesse alla tentazione di allearsi con coloro che l’hanno battuto perderebbe non soltanto l’anima, ma si dissolverebbe nel giro di una legislatura. Intanto perché non avrebbe la forza per condizionare un governo guidato da altri, ma soprattutto perché smarrirebbe la propria ragione sociale di forza politica della sinistra. Come può, un partito appartenente alla famiglia della sinistra socialdemocratica europea, allearsi con un movimento che respinge ogni identità in un amalgama indistinto di umori diversi e contrapposti?
Il riferimento di Di Maio al pragmatismo scava un solco profondo tra politica e valori, facendo della prima un mero contenitore di interessi incapaci di saldarsi in un progetto per il Paese. L’assenza di ogni riferimento all’Europa — cioè all’orizzonte in cui siamo storicamente collocati da qualcosa che va oltre una semplice convenienza — la dice lunga su questa politica schiacciata sul presente e le sue urgenze immediate.
Naturalmente stare all’opposizione non significa abbandonare il campo chiudendosi in un bunker, in attesa che i vincitori del 4 marzo sbattano contro il muro dell’impossibilità di formare un governo. Intanto perché non è detto che ciò accada. Ma soprattutto perché, da parte del Pd, sarebbe un altro modo, speculare a quello populista, di rinunciare alla politica. La quale è comunque situata in un quadro istituzionale che il Pd non può perdere di vista, abbandonandolo nelle mani di altri. La partecipazione all’elezione della seconda e della terza carica dello Stato è cruciale soprattutto per chi sta all’opposizione. Ma fare politica dall’opposizione vuol dire anche altro. Significa distinguere tra progetti politici diversi come sono quelli della Lega e dei 5stelle. E inserirsi politicamente in questa diversità, non escludendo, su singole questioni, di appoggiare alcuni provvedimenti.
I due bacini elettorali della Lega e dei 5stelle sono differenti, non solo geograficamente. Il secondo è molto più contiguo a quello della sinistra. Mentre rispetto all’egoismo sociale e ai rigurgiti xenofobi di Salvini la battaglia non può che essere frontale, le domande espresse da chi ha votato 5stelle, allontanandosi per sfiducia dalla sinistra, sono legittime — e a esse va data risposta. Anche se in una forma politica più elaborata e consapevole, capace di articolare i singoli problemi in una cultura di governo.
Pensare di risolvere l’esclusione sociale che aggredisce i ceti più esposti con un semplice sussidio di cittadinanza è una risposta che presuppone l’irreversibilità del declino del lavoro, senza neanche porsi il problema della sua trasformazione. Così come immaginare di affrontare l’ondata migratoria con procedure di puro contenimento è un modo di derubricare un problema di dimensioni epocali a questione di ordine pubblico. Manca la consapevolezza che solo un rafforzamento dell’Italia in Europa può portare a gestire a livello adeguato quello che si va configurando come un vero passaggio di civiltà. Ciò che resta estraneo alla cultura politica dei 5stelle è la percezione complessa del ruolo storico di un grande Paese occidentale, come pur sempre siamo. Se il Pd vuole ritrovare se stesso, prima ancora dei suoi elettori, deve impegnarsi nella costruzione di questo progetto. Combattendo con nettezza le forze politiche avverse, ma facendosi carico delle domande che si rivolgono a esse.

Repubblica 9.3.18
Il dialogo possibile
Ma ora M5s ha cambiato pelle
di Piero Ignazi


Non stupisce il voto “ popolare” dato ai 5Stelle. Si è indirizzato verso il partito di Di Maio grazie a due spinte diverse. Da un lato i disoccupati e le persone in difficoltà che hanno visto nel M5S una opportunità di riscatto sia attraverso un cambio radicale della politica ( l’appello anti- establishment), sia attraverso il miraggio del cosiddetto reddito di cittadinanza, che in realtà è un reddito minimo di inclusione soggetto a varie condizioni, sulla falsariga di quello che ha adottato, benché in scala molto ridotta, anche il governo Gentiloni. Dall’altro il Pd ha donato sangue ai pentastellati non solo al sud, ma anche e soprattutto al centro- nord, come le analisi dell’Istituto Cattaneo indicano chiaramente. Alla fine la delusione e la sfiducia verso quello che un tempo era il partito dei lavoratori ha prevalso. I ceti sociali sottoprivilegiati si sono sentiti abbandonati e traditi da chi doveva proteggerli. E hanno reagito rabbiosamente, andando a ingrossare, in tutta Europa, le file della destra radicale che prometteva loro, almeno, protezione. In Italia, questi ceti prima sono stati attratti dal forzaleghismo con il suo impasto di seduzione televisiva berlusconiana e di ruspantismo valligiano bossiano; poi sono approdati al Vaffa grillino e alla ruspa salviniana. Ora il Vaffa ha indossato il doppiopetto; ma ha dilagato comunque nelle zone a maggior disagio sociale.
L’onda grillina ha impedito una vittoria storica del centrodestra a trazione leghista perché ha tagliato le unghie al tradizionale notabilato meridionale. Gli elettori del sud non hanno più creduto ai vecchi cacicchi. Hanno premiato una nuova, più giovane e sperabilmente meno corrotta, classe notabiliare che ha affiancato i soliti personaggi improbabili delle liste grilline. Un impasto arrischiato di tradizione e novità che, però, ha funzionato. Quel senso di marginalità ed esclusione che trapela in tante contrade meridionali ha trovato sfogo nei 5stelle. Che rappresentano una sorta di ultima speranza, difficile da soddisfare in pieno.
Il carico di responsabilità che grava sul M5S è pesantissimo. Per ora, tra i pentastellati, prevale l’ebbrezza della vittoria, ma non durerà molto perché la loro purezza incontaminata di cui si sono tanto vantati sarà inevitabilmente sporcata dal “ fare politica”. Era facile strepitare dall’opposizione; adesso devono recitare tutto un altro copione.
Vero è che da mesi, dalla visita d’obbligo al seminario settembrino dello studio Ambrosetti in poi (ma anche prima, a Davos con Carla Ruocco), il M5S ha indossato i panni della responsabilità. E la scelta come potenziale ministro del Tesoro del professor Andrea Roventini, coautore con il premio Nobel Joseph Stiglitz di alcuni saggi, è una chiara dimostrazione di quanto siano lontane le invettive di Grillo contro l’euro e l’Unione europea.
Il M5S è riuscito in una impresa difficile: cambiare pelle e aumentare il consenso. Ha assunto sembianze e adottato toni più moderati e dialogici. Forse sarà solo per una breve stagione ma il passaggio è evidente. E questo cambiamento è stato percepito e apprezzato, soprattutto dagli elettori del Pd, vero bacino di reclutamento dei nuovi elettori pentastellati (mentre il M5S ne ha persi, al nord, verso la Lega). Il che significa, se i flussi elettorali hanno un senso, che il M5S si è spostato a sinistra. E il fatto che cerchi un dialogo con il Pd, e non con la Lega, al netto di considerazioni tattiche, è un segno di questa nuova inclinazione. Del resto, difficile pensare a una intesa con Salvini quando, ad esempio, sulla questione immigrazione il programma dei 5Stelle prevede, testualmente, “ la sospensione di tutti i rimpatri verso i paesi extra Ue che violano i diritti umani”.

Corriere 9.3.18
Adesso il pd ha bisogno di un congresso vero
di Paolo Franchi


Il paragone è un po’ forte, almeno per i più grandicelli, che comprensibilmente faticano un po’ a ragionare su Luigi Di Maio e Matteo Salvini più o meno come da giovani avevano ragionato su Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Ma il voto del 4 marzo, lo stesso terremoto che, come largamente previsto, non ci ha dato una maggioranza parlamentare, ci ha consegnato ben due vincitori, il M5S e la Lega. Allo stato, nulla lascia prevedere che il loro possa rivelarsi, almeno sul breve e medio periodo (ma nel lungo, ammoniva lord Keynes, saremo tutti morti), un fuoco di paglia o poco più. Non è la prima volta, un precedente c’è, e pure di grandissima importanza nella storia nazionale. Poco più di 45 anni fa, correva l’anno 1976, si andò a votare il 20 e il 21 di giugno, fu proprio Moro a sintetizzare lucidamente l’esito di quelle elezioni con una formula, quella, appunto, dei due vincitori, che non era solo una fotografia dei risultati (la Dc al 38,7 per cento divorando i partiti laici intermedi «come il conte Ugolino i suoi figli», annotò Arnaldo Forlani; il Pci al 34,4; il Psi, rimasto sotto il 10, costretto a interrogarsi drammaticamente sulla propria stessa sopravvivenza), ma suonava come un appello a trovare la via per fronteggiare una situazione non solo inedita, ma soprattutto molto pericolosa. Visto che, è doveroso ricordarlo, nemmeno troppo sullo sfondo c’erano una situazione economica e finanziaria terribile, fortissime pressioni internazionali in parte esplicite in parte sotterranee, il terrorismo stragista e quello delle Brigate rosse e affini. I due colossi non potevano, almeno per un certo lasso di tempo, né governare insieme né farsi la guerra. Bisognava trovare le forme di una possibile non belligeranza, che ai più ottimisti potesse apparire come l’avvio di fatto di una futura, solida alleanza, ai più pessimisti (o ai più realisti) come una tregua armata. L’Italia di allora, nonostante nessuno avesse decretato la fine delle ideologie, e forse proprio per questo, disponeva di una maestosa cultura politica barocca, e di grande fantasia. Vi si ricorse senza risparmio, appassionandosi a formule inedite e misteriose (la «non sfiducia», le «astensioni non contrattate», la «nuova maggioranza»), sulla cui scorta, oltre che, naturalmente, sulla concessione della presidenza della Camera e di numerose commissioni parlamentari ai comunisti, Andreotti potè governare, seppure tra eventi sconvolgenti come il rapimento e l’assassinio di Moro, per quasi tre anni. Il processo di reciproca legittimazione (qualcuno diceva: di reciproca amnistia, politica, si intende) tra democristiani e comunisti non andò in porto, ma l’Italia riuscì a passare la nottata. E chi c’era può assicurare figli e nipoti che non fu affatto facile.
Bene, finiamola qui. Storie di un altro tempo, e di un altro mondo? Sicuramente sì. Al vecchio cronista che seguì tante di quelle trattative, di quegli scontri e di quei compromessi, non sfugge un’evidenza: né Di Maio né Salvini (e figuriamoci i loro elettori) sono cresciuti alla scuola della Fuci o di Palmiro Togliatti, per molto, ma molto meno si griderebbe all’inciucio e magari si invocherebbe pure il pronto intervento della magistratura. Ma il problema di trovare la via di una qualche convivenza tra i due vincitori del 2018 resta intatto. Anche, e forse soprattutto, per gli sconfitti: Silvio Berlusconi, certo, ma in primo luogo il Pd e quella gran parte della sinistra che non ha seguito né il messaggio inopinatamente muscolare di Matteo Renzi né la proposta odorosa di naftalina di Leu, ma ha votato Cinque Stelle o se ne è rimasta a casa. Se da quelle parti ci fosse ancora (ma abbiamo motivo di dubitarne) un Dottor Sottile, forse sarebbe il caso di sguinzagliarlo a caccia del pertugio che consenta di evitare nuove elezioni, temibili come la peste nera, senza lasciarsi intrappolare dagli appelli di chi chiede al Pd e a Leu di diventare non l’alleato (il che non avrebbe alcun senso) ma la ruota di scorta del M5S.
Ci riuscisse (ma anche di questo dubitiamo), quel che resta della sinistra italiana avrebbe il dovere primordiale di guardare in faccia i tanti perché di una sconfitta storica, più grave ancora di quella del 18 aprile 1948, peggiore persino di quelle subite all’indomani del crollo dell’Urss e del socialismo reale; e di stabilire da dove, e in nome di chi, e di che cosa, provarsi a ripartire. I congressi veri, che sono cosa diversa dalle primarie, si facevano per questo, e non deve essere un caso se nello statuto del Pd non se ne parla. Datecene ancora uno, fosse anche l’ultimo, se ne siete capaci.

Repubblica 9.3.18
Intervista a Susanna Camusso
“L’operaio della Cgil ormai vota per i Cinquestelle questa sinistra è da rifondare”
di Roberto Mania

ROMA «Che tra gli operai delle fabbriche del nord iscritti alla Cgil ci fosse chi votava Lega lo sapevamo da tempo, la novità è che c’è un’altra quota di nostri tesserati che non si astiene più e che vota per i Cinquestelle». È una parte della «sconfitta brutale subita dalla sinistra» di cui parla in questa intervista Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, alla vigilia dell’avvio dell’iter congressuale che porterà al ricambio del vertice del sindacato. Un congresso che darà un contributo alla necessaria «ricostruzione di una sinistra», ai suoi valori, alla sua identità.
«Perché — spiega Camusso — basta guardare la cartina dell’Italia con l’attribuzione dei seggi parlamentari per vedere che è finita l’epoca dell’”Italia rossa”, pensi all’Emilia Romagna, che era la riserva di voti per la sinistra. È cambiato tutto, quel modello non c’è più».
Dunque, lei da capo del “sindacato rosso” si ritrova ad essere il capo di un sindacato di iscritti grillo-leghisti? Ma il voto di domenica, allora, è un voto anche contro la Cgil?
«No, francamente questo non riesco a vederlo. Non c’è alcun voto contro la Cgil, anzi ne esce confermata la nostra capacità di tutela al di là e oltre gli schieramenti politici, come ha certificato Ilvo Diamanti sul forte amento di consenso alla Cgil. Poi, è vero che quel voto, il primo dopo la crisi economica, sollecita i soggetti sociali a una maggiore autonomia dalla politica e a essere tra i lavoratori in maniera costante non solo durante le vertenze o le vicende contrattuali».
Eppure lei era prima fila quando partì il progetto Liberi e uguali. Leu è stato un flop, la Cgil non porta voti?
«Non c’è alcun automatismo tra l’orientamento dei gruppi dirigenti e il voto degli iscritti. La Cgil non è — e lo diciamo da tempo — una macchina elettorale. Resta il fatto che la sinistra, tutta, non ha capito la domanda di rappresentanza che viene dai ceti più popolari».
La sinistra perde perché non si occupa più del disagio sociale, perché non è nelle periferie, perché non c’è più nelle regione del Sud se non nella forma di “potentati”. Ma la Cgil non dovrebbe esserci in questi luoghi?
«Noi ci siamo. Nel quartiere romano di Tor Bella Monaca siamo rimasti noi e sono arrivate le organizzazioni neofasciste.
Riconosco però che non è sufficiente quello che facciamo.
Chi ha votato M5S ha votato anche per il reddito di cittadinanza, per una nuova forma di assistenza. Ecco: in questa richiesta c’è un messaggio anche per il sindacato. C’è una parte crescente di popolazione che non trova protezione e il mondo del lavoro in generale si sente isolato senza più rappresentanza politica».
E qui si è infilato il movimento di Grillo. Sono i Cinquestelle i nuovi socialdemocratici?
«Si può pensare tutto dei grillini ma non mi pare affatto che la loro offerta possa essere considerata socialdemocratica se in questa formula si vede ancora la coesistenza tra sviluppo ed equità sociale in chiave solidaristica. Di certo c’è una parte del movimento che viene da sinistra ed è per questo che dobbiamo evitare che prevalgano le pulsioni di destra».
Sta dicendo che il centrosinistra dovrebbe cercare l’accordo con i Cinquestelle per fare il governo?
«La Cgil non si sceglie gli interlocutori, dialoga con chi c’è.
Ci interessa capire cosa si può fare per bloccare il rischio di una deriva a destra, per diminuire le diseguaglianze, per dare una risposta positiva ai bisogni di chi ha il lavoro, lo cerca o lo cercherà.
Personalmente penso che per quanto riguarda la sinistra non ci possano essere scorciatoie. Il voto ha bocciato le ipotesi in campo: il partito personale, la socialdemocrazia, i rassemblement sociali, il modello tosco-emiliano. Deve con umiltà, unità e responsabilità ripartire, tornare a esserci, ripensare se stessa abbandonando la disintermediazione e tornando tra la gente costruendo una nuova cultura di partecipazione».

Corriere 9.3.18
Da Forza Italia i primi segnali di unità nazionale
di Massimo Franco


È difficile non cogliere nelle parole pronunciate ieri da Sergio Mattarella un sottinteso di preoccupazione, se non di perplessità, per il modo in cui i partiti si muovono dopo il voto del 4 marzo. Chiedere che si metta al centro «l’interesse generale del Paese e dei suoi cittadini» è un richiamo a non giocare allo sfascio; e a non fare prevalere calcoli di partito che rischierebbero di portare all’ingovernabilità e, in tempi brevi, perfino a nuove elezioni. La richiesta a tutti di mostrare senso di responsabilità suona anche come risposta indiretta a quanti insinuano l’immagine di un Quirinale che preme per un governo tra M5S e Pd, altamente improbabile.
Si tratta della prima presa di posizione del presidente della Repubblica dopo il voto. E le reazioni fotografano le contraddizioni che attraversano vincitori e vinti, più che un presunto interventismo presidenziale. Il centrodestra sembra condividere l’appello. Il leader «della Lega e del centrodestra», Matteo Salvini, è pronto a dichiarare che Mattarella «ha ragione». E Silvio Berlusconi va oltre, quando afferma che intende fare «il possibile, con la collaborazione di tutti, per consentire all’Italia di uscire dallo stallo e si darsi un governo». Il suo riferimento alla «collaborazione di tutti» suona come la disponibilità a trattare oltre il recinto del centrodestra.
Per non irritare Salvini, il capo di Forza Italia precisa che rimane fermo l’impegno a sostenere «il candidato premier indicato dal maggior partito della coalizione». Eppure, è necessario anche «produrre le condizioni di una maggioranza e di un governo» che abbiano abbastanza voti in Parlamento. Altrimenti si arriverebbe a «una paralisi che porterebbe ineludibilmente a nuove elezioni». Il messaggio è chiaro: se Salvini non ha i numeri per andare a Palazzo Chigi, non si debbono escludere a priori altre soluzioni. Berlusconi teme che la Lega sia tentata dalla prospettiva del voto anticipato, dal quale il suo partito uscirebbe ulteriormente ridimensionato.
Gioca dunque d’anticipo, con una larvata apertura a un possibile governo di unità nazionale, teso a includere vincitori e vinti; e a evitare irrigidimenti e veti incrociati che impedirebbero alla legislatura anche solo di partire. Il problema è che per arrivarci occorreranno diversi passaggi, con tentazioni di strappo all’interno dello stesso centrodestra. E Berlusconi fa capire da subito che si opporrebbe a un ritorno alle urne. Il suo è un tentativo di frenare un alleato che si sente giustamente rafforzato dal voto, e potrebbe cercare di andare all’incasso al più presto. Ma è in parallelo la conferma che gli interessi di Lega e FI non coincidono del tutto.
Quanto al M5S, plaude al capo dello Stato dicendo «no al caos e all’instabilità». Non si capisce ancora, invece, chi in un Pd che deve metabolizzare la sconfitta, sia pronto a assecondare l’invito di Mattarella. La risposta del renziano Luca Lotti non scioglie il mistero. «Se vogliamo essere seri», dice, «siamo pronti come sempre ad ascoltare Mattarella. Forse, anziché parlare del Pd, che ha perso e starà all’opposizione», bisogna vedere «che vogliono fare Salvini e Di Maio». Richiesta legittima. Ma ieri anche Mario Draghi, presidente della Bce, ha ammonito: «Una instabilità protratta nel tempo potrebbe minacciare la fiducia» dei mercati finanziari. Per questo, alla lunga il Pd potrebbe convincersi a cambiare schema.

il manifesto 9.3.18
Perché LeU ha fallito come tutta la sinistra
Post-elezioni. La crisi è della democrazia. Il voto porta alla ribalta solo un’agorà popolata da individuali grida di scontento o di plauso improvvisato. In un vuoto che i movimenti non hanno saputo riempire
di Luciana Castellina


Sono rimasta zitta fino ad ora per svariate ragioni: 1) perché non avevo voglia di parlare. Come, credo, tutti noi. E siccome non ho incarichi che mi obblighino a farlo, ne ho approfittato; 2) perché sono una vecchia abituata ai partiti, e per dire cosa bisognerebbe fare, aspetto di confrontarmi con la mia organizzazione, Sinistra italiana, che riunisce il suo Comitato Nazionale sabato prossimo; 3) perché – e questa è la ragione più importante – non so che dire.
Quanto è accaduto è andato troppo al di là delle pur negative aspettative che nutrivo, rafforzate dalla esperienza di campagna elettorale fatta in svariate regioni d’Italia.
Parlare, certo, bisogna. Ma vorrei che tutti evitassimo conclusioni frettolose. La crisi, non solo della sinistra ma della democrazia, è troppo profonda per non imporci una riflessione collettiva di lungo periodo. Dico crisi anche della democrazia perché se siamo arrivati a questo risultato è anche perché non c’è più quel tessuto politico-sociale che i grandi partiti di massa offrivano un tempo al confronto, e dunque ad una analisi del presente e a una costruzione collettiva del progetto da proporre.
Un vuoto che i movimenti, che pure hanno avuto ed hanno (quando ci sono, e non è sempre) un ruolo importante, non hanno saputo riempire con reti consolidate di riferimento.
Il solo voto, senza tutto questo, è troppo poco per far vivere la democrazia, porta alla ribalta solo un’agorà popolata da individuali grida di scontento o di plauso improvvisato. È facile dire che si è perduto il rapporto col territorio. Certo che si è perso, perché sul territorio non c’è più vita sociale e ricostruirla è oramai difficilissimo: la gente non ne vuole sapere; gli orari di lavoro non sono più omogenei come quando era naturale incontrarsi alle 7 di sera in sezione (il precariato ha prodotto anche questo guaio); non ci sono più le sedi; i socials, checché ne dicano i miei compagni giovani, non suppliscono, rischiano di diventare solo un noioso ammasso di sfoghi personali.( Ma come si fa a scegliere chi dove rappresentarci, senza aver avuto modo di verificare nel tempo e nel concreto le sue capacità e affidabilità?)
Fra le cose che non so, c’è anche questa: come si ricostruisce una cultura e una pratica collettiva, un rapporto con l’altro, un senso di responsabilità comune, visto che non si possono reinventare più i vecchi partiti e però non si può nemmeno fare a meno della funzione cui essi assolvevano. Quello che so, tuttavia, è almeno questo: che il problema non si può eludere.
Ce lo impone il fatto che viviamo in un tempo di terribili cambiamenti, che stanno già producendo e produrranno anche peggiori mutamenti al nostro modo di vivere e di lavorare, rispetto ai quali il nostro pensiero di sinistra è balbettante.
Non ci aiutano i progetti del passato (né quelli comunisti, né quelli socialdemocratici), ma nemmeno ne abbiamo altri, e solo dire che non siamo liberisti e bisogna combattere la disuguaglianza, è ben lungi dal bastare. Pensare che basti redistribuire più equamente gli stessi beni – obiettivo già impervio – non è più nemmeno sufficiente, occorre – di fronte al disastro ecologico e al mutamento del lavoro – fare assai di più: produrre in modo diverso beni diversi e indurre consumi diversi. Cioè cambiare anche gli esseri umani.
Direte che potevo fare anche a meno di scrivere se era solo per dire che tutto è difficilissimo e noi siano impreparati. L’ho fatto perché mi sento in dovere di un’autocritica. Questa: quando abbiamo dovuto decidere come affrontare queste elezioni io sono stata fra i più convinti sostenitori della proposta Liberi ed Uguali. Ritengo tuttora che non ci fosse alternativa migliore, nonostante i limiti dell’esperienza di cui tutti eravamo peraltro consapevoli.
E però io ho creduto veramente che il distacco dal Pd di un gruppo così consistente e qualificato della sua leadership, si potrebbe dire quasi tutta quella proveniente dal Pci, avrebbe scosso il vecchio corpo cresciuto se non più dentro quella organizzazione ormai sepolta da tempo, ma nella scia di quella cultura e tradizione. Che la rottura di Mdp, insomma, avrebbe portato allo scoperto la contraddizione ormai stridente fra un partito, il Pd, che si definisce di sinistra e però è da tempo espressione di un altro blocco sociale.
E che dunque un gesto così estremo come l’abbandono della “ditta” da parte, non di una frangia, ma di una così consistente parte della storia della sinistra, avrebbe suscitato riflessione, e rinnovata mobilitazione in una base ormai passivizzata. Mi sono sbagliata. Era ormai troppo, troppo tardi
. Quel corpo, quei compagni, tanti dei quali conosco bene per aver così a lungo condiviso con loro tante battaglie, quelli che, pur essendo sempre più scettici verso le ripetute reincarnazioni del Pci, continuavano tuttavia a dire “il partito”, quella storia si è oramai largamente consumata. I loro voti hanno lasciato il Pd, ma si sono perduti nella Lega, nei 5 stelle, nell’astensione, io credo senza entusiasmo, visto che non c’è nulla di consistente nelle promesse alimentate, ma per rabbia e confusione.
Adesso dobbiamo ricominciare da capo. Innanzitutto riprendendo a riflettere insieme, senza farci dominare dall’assillo dell’immediato. (Potremmo dire che, per fortuna, siamo così piccoli da non esser determinanti né nel bene né nel male, anche se nel PdUP dicevamo, giustamente, che, secondo l’insegnamento di Santa Teresa di Lissieux, bisognava comunque comportarsi come se tutto dipendesse da noi.)
Ragionando su come si ricostruisce una rappresentanza sociale, che non si recupera alzando il livello delle proposte, col “più uno” rivendicativo, ma costruendo un soggetto che sia in grado di imporle, un compito oggi reso impervio dalla frantumazione del lavoro, e dunque ormai anche delle culture. Per farlo non basta la protesta, ma sempre più un progetto che renda chiara e convincente un’alternativa. (Per questo il prossimo congresso della Cgil ci interessa tutti, non è solo dibattito interno al suo gruppo dirigente.)
Con chi dobbiamo lavorare? Anche a questo interrogativo non so rispondere, vorrei solo che avviando, come si deve, una costituente che coinvolga tutti quelli che più o meno la pensano come noi, non si buttasse via troppo frettolosamente Sinistra Italiana, un pezzetto piccolo ma prezioso in questo incerto scenario.
Talvolta gli shock sono salutari. Io porto ancora la ferita di quello del 18 aprile 1948. Ma ho anche un ricordo bellissimo di cosa, spontaneamente, senza nemmeno dircelo, facemmo tutti il 19 mattina, dopo l’inattesa batosta del Fronte popolare: uscimmo con al petto il distintivo comunista. Per dire: ci siamo ancora. E ricominciammo davvero da capo, con un po’ di più seria attenzione alla realtà della società italiana.
Erano altri tempi, ovviamente, e questo mio ricordo suona retorico. Ma certo mi piacerebbe che fosse così anche per lo shock che ci ha fatto vivere la sberla del 4 di marzo.

Il Fatto 9.3.18
2018, meno donne in Parlamento: è anche colpa nostra
di Silvia Truzzi


Ieri era la festa della donna, quell’8 marzo amato e contemporaneamente odiato dalle donne stesse. Molte la ritengono una celebrazione inutile, svilita a fini commerciali, utile soprattutto ai floricoltori. Al di là della considerazione che in tante fanno (più che le mimose sarebbe gradito un giorno di vacanza), ne approfittiamo per fare il punto sulle questioni di rappresentanza. Com’è noto l’articolo 3 della nostra Carta riconosce il principio della parità di genere e nel 2003 è stato rafforzato grazie a una modifica dell’articolo 51: “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.” In quest’ottica il Parlamento ha approvato alcune norme, tra cui l’ultima legge elettorale con cui domenica abbiamo votato. Ieri l’Ufficio valutazione impatto del Senato ha diffuso un dossier con numeri che fanno parecchio riflettere. Partiamo dall’alba della Repubblica: in Assemblea costituente le donne erano 21 (ma a loro dobbiamo moltissimo, perché hanno avuto un peso determinante nel dibattito sui diritti sociali). Nella prima legislatura – 1948, esattamente settant’anni fa – su 982 parlamentari le donne erano 49: il 5 per cento. Le deputate erano 45 su 613 (7 per cento), le senatrici 4 su 369 (1 per cento). Ci sono voluti trent’anni e 7 legislature per avere più di 50 donne al Parlamento: è accaduto nel 1976. Quota 100 è stata superata nel 1987 e quota 150 nel 2006. Fin qui la rappresentanza. E il potere? “Il cammino verso la parità in questi settant’anni è stato lungo” si legge nel dossier. “Su oltre 1500 incarichi di ministro le donne finora ne hanno ricoperti 78. Non ci sono state donne alla presidenza del Consiglio, mentre le presidenze femminili nelle commissioni parlamentari sono state solo 23”. Abbiamo avuto solo tre presidenti della Camera (Nilde Iotti, Irene Pivetti, Laura Boldrini), una presidente del Senato, che è la seconda carica dello Stato, mai. E oggi? Nella XVII legislatura (quella appena terminata) per la prima volta la compagine femminile a Montecitorio e a Palazzo Madama ha raggiunto il 30,1 per cento. Il Rosatellum con cui abbiamo votato domenica, è stato presentato (soprattutto dal Pd) come un grande progresso per quanto riguarda l’alternanza di genere. La legge in effetti prevede che i candidati nei collegi uninominali vengano posizionati in modo che nessuno dei due sessi sia rappresentato in misura superiore al 60 per cento. Stesso dicasi per i capolista dei collegi plurinominali (nella quota proporzionale ci si può presentare in cinque collegi). Anche all’interno degli stessi listini la legge dispone che i nomi compaiano alternati in base al genere. Ma cosa è capitato? Per aggirare la regola è stato sufficiente candidare una donna che correva in un collegio sicuro all’uninominale capolista in cinque diversi collegi plurinominali, perché lasciasse il suo posto al secondo del listino proporzionale (maschio). Risultato? Non lo sappiamo con certezza perché quel marchingegno infernale di legge ci consegnerà i dati certi chissà tra quanto. Però sappiamo già che siamo su per giù allo stesso punto, quindi il 30 per cento di rappresentanza femminile, addirittura con una leggera flessione a Montecitorio. Qualche settimana prima del voto, in questa rubrica avevamo scritto: “Il prossimo Parlamento avrà una rappresentanza femminile più alta: è un buon risultato. Ma non può bastare”. Non è nemmeno così. E di questo dobbiamo ringraziare chi ha preparato le liste facendo il gioco delle tre carte e purtroppo anche le donne candidate che si sono prestate. Al prossimo giro, diamoci una svegliata.

Repubblica 9.3.18
Quote rosa aggirate con l’aiuto delle donne
di Lavinia Rivara


Alla fine nel nuovo Parlamento entrerà forse qualche donna in più rispetto alla precedente legislatura, quando si toccò il record storico del 30 per cento. Lo dice uno studio del Senato diffuso in occasione dell’8 marzo, anche se i numeri sugli eletti, ancora ballerini, non sono così rassicuranti.
Eppure del risultato finale non si può andare fieri. La legge elettorale infatti prevedeva per la prima volta alle politiche (unica eccezione il Mattarellum) l’alternanza di genere nelle liste del proporzionale e una percentuale minima del 40 per cento nelle candidature dell’uninominale. Non è stata una gentile concessione, ma il frutto di settant’anni di battaglie, compresa la modifica dell’articolo 51 della Costituzione con l’aggiunta di un preciso dettato: “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Oggi però a portare più donne in Parlamento sembra siano i 5Stelle, che il Rosatellum non lo hanno neanche votato, mentre chi lo ha proposto e approvato spesso ha utilizzato le quote rosa solo per aggirarle. Già nelle candidature non si è andati oltre la soglia minima indispensabile prevista dal Rosatellum. Un esempio per tutti: nei 232 collegi uninominali della Camera la quota femminile doveva essere compresa tra 93 e 139: sia il centrodestra che il centrosinistra si sono fermati a 93, i 5Stelle sono arrivati a 100 Ma l’espediente più odioso è quello delle pluricandidature. Il Rosatellum ammette la candidatura in un collegio uninominale e anche in cinque listini proporzionali. È accaduto così che diversi partiti avessero donne con sei candidature, una nell’uninominale e le altre cinque spesso in posizione di capolista, e questo non solo per “blindarle” ma anche, e soprattutto, per favorire l’elezione di più numerosi uomini.
Il caso più noto è quello di Maria Elena Boschi che è stata eletta nel collegio di Bolzano, mentre dove era capolista ha lasciato il seggio ai colleghi maschi che venivano dopo di lei (tranne forse in un caso). Laura Boldrini e Giulia Bongiorno di candidature ne avevano cinque e nelle liste di Fratelli d’Italia ben sette donne contavano sei candidature. Tutto questo naturalmente è avvenuto anche con la complicità delle stesse candidate, che hanno accettato il gioco. E allora non ci resta che sottoscrivere l’appello lanciato ieri, 8 marzo, dalla stessa Boschi, sottosegretaria con delega alle Pari Opportunità: per i diritti delle donne «c’è ancora molto da fare», sapendo «che ciascuna di noi può contribuire».

Il Fatto 9.3.18
Risultati elezioni 2018, il 59% di chi ha votato il Pd favorevole all’alleanza col M5S
L’Istituto Noto - I numeri smentiscono la campagna contro l’accordo nata su Twitter: “Gli elettori hanno altre idee rispetto ai dirigenti”
di Tommaso Rodano


Quasi 6 elettori del Pd su 10 sono favorevoli a un accordo di governo con i Cinque Stelle. È il risultato di un sondaggio dell’Istituto Noto realizzato nei giorni successivi al voto. Numeri che smentiscono la campagna Twitter #senzadime, con cui i dem stanno riempiendo i social network di messaggi per esprimere la propria contrarietà all’ “inciucio” post elettorale. Fuori da Twitter – commenta Antonio Noto – le cose stanno in modo un po’ diverso: “Il 59% degli intervistati, tra coloro che hanno votato per il Partito democratico, si è dichiarato favorevole a un accordo con il Movimento, in un’alleanza che comprenderebbe anche i pochi parlamentari di Leu. Stiamo parlando di elettori semplici; ovvero di coloro che compongono il bacino elettorale del Pd, non degli iscritti né tanto meno degli eletti. Questo significa che c’è una certa differenza di vedute tra i dirigenti del Partito democratico e i loro elettori. Una divergenza che si è manifestata ampiamente nei risultati usciti dalle urne”.
Insomma i numeri smentiscono una percezione abbastanza diffusa in questi giorni: secondo il sondaggio di Noto solo il 25% – un elettore del Pd su 4 – sarebbe contrario all’accordo con i grillini, mentre il restante 16% non avrebbe un’opinione dell’argomento. “Noi abbiamo calcolato che circa un terzo degli elettori persi dai dem rispetto alle famose europee del 2014, il 4 marzo hanno votato M5S. Ma anche la maggior parte di quelli rimasti fedeli al Pd non hanno pregiudizi nei confronti dei grillini. Certo, resta uno zoccolo duro (il 25%) che è convintamente anti M5S”.
E gli elettori dei 5Stelle? Anche in questo caso i numeri raccontano una realtà diversa da come viene generalmente descritta: sulla possibile alleanza con Pd e LeU i grillini sono divisi praticamente a metà: il 49% degli intervistati è favorevole, il 40% contrario, l’11% non risponde. “In questo caso – ragiona Noto – abbiamo una divisione abbastanza logica, che rispecchia in modo piuttosto fedele la composizione dell’elettorato dei 5Stelle. Nel voto del 4 marzo la quota di elettori grillini ‘di sinistra’ è cresciuta dal 33 al 50%. Il nostro sondaggio conferma che in M5S un votante su due sarebbe favorevole a costruire un governo allargandolo al centrosinistra. C’è però tutta la parte ‘di destra’ del mondo 5Stelle che è fortemente contraria. Le due fazioni hanno quasi la stessa consistenza”.
I numeri elaborati da Noto, insomma, ribaltano il racconto politico di questi giorni: non sono tanto gli elettori del Pd ad avere dubbi sull’alleanza con il Movimento, quanto quelli del Movimento ad avere dubbi sull’alleanza col Pd.
Poi c’è Liberi e Uguali. In questo caso i risultati del sondaggio descrivono un quadro più prevedibile. Una larga maggioranza degli elettori della lista di Pietro Grasso vedrebbe di buon occhio un governo di coalizione con Pd e M5S: “Il 75% di chi ha votato LeU è favorevole, il 22% è contrario, il 3% non sa come rispondere – elenca Noto – Le ragioni sono piuttosto chiare: da una parte gli elettori di sinistra sono convinti che ci siano posizioni non distanti con i 5Stelle su diversi punti dei rispettivi programmi. Poi c’è una considerazione più concreta: LeU ha preso pochi voti ed eletto pochissimi parlamentari. L’alleanza con i grillini e con il Pd nascerebbe anche dalla necessità di riuscire a farli contare”.

Il Fatto 9.3.18
Consigli non richiesti
di Marco Travaglio


Siccome saper vincere è ancor più difficile che saper perdere, azzardiamo qualche consiglio non richiesto a Luigi Di Maio e ai 5Stelle. Che di solito leggono pochino, ma hai visto mai.
1. Decidete una volta per tutte cosa volete fare nella vita. Se – come sembra – volete governare per davvero, levatevi subito quella faccia da padroni del vapore che qualcuno di voi ha messo su dopo la vittoria alle elezioni. E fatevi, in questo e solo in questo, un po’ più democristiani di quanto già non vi siete fatti: più umili, duttili, elastici e generosi. Che avete stravinto lo sanno tutti, che senza di voi è quasi impossibile fare un governo lo dicono i numeri, dunque è inutile continuare a ricordarlo con le espressioni del volto e le smargiassate tipo “Sono gli altri che devono venire a parlare con noi”. Anche perchè, se poi non ci viene nessuno, toccherà a voi andare a parlare con qualcuno.
2. Non abbiate fretta. Al Quirinale c’è un signore che ha i tempi biblici della Dc e di Santa Madre Chiesa e sa benissimo quel che presto imparerete anche voi: il tempo lenisce ogni ferita e smussa ogni angolo, quindi oggi la migliore cura è il rinvio.
3. Ottima la scelta di non rispondere al telefono ai leghisti che vi cercano: un’alleanza con Salvini (data per certa dai giornaloni, dunque falsa) era già contro natura prima, ma lo è ancor di più dopo il voto. Salvini aspira a fare il capo del centrodestra e non ha interesse a uscire da quel perimetro. E voi, svuotando il Pd, avete incamerato altre centinaia di migliaia di elettori di centro e di sinistra. Quindi il vostro, di perimetro, non può che essere quello un tempo presidiato dal centrosinistra.
4. Lasciate perdere le riforme costituzionali, anche parziali, che vi alienano le simpatie di tutto il mondo del No al referendum di Renzi e comunque non otterrebbero mai il 51% né tantomeno i due terzi in un Parlamento così balcanizzato. Il vincolo di mandato e anche il lodo Zagrebelsky (dimissioni dal Parlamento per chi passa dall’opposizione alla maggioranza o,più raramente, viceversa) hanno un senso nei sistemi maggioritari, dov’è chiaro il confine fra maggioranza e opposizione. Non nel proporzionalismo incasinato del Rosatellum, dove voi stessi, per governare, dovete chiedere aiuto alla concorrenza.
5. Parlate poco di formule e molto di contenuti. Dopo la Direzione Pd di lunedì, quando si capirà – forse – chi comanda in quel manicomio, presentate ai Dem, ai loro satelliti e a LeU una proposta che non possano rifiutare. Cioè 10 cose concrete e praticabili da fare insieme.
Cioè: reddito di cittadinanza (magari in forma graduale) al posto degl’inutili 80 euro, delle altre mance renziane, dei soldi a pioggia alle grandi imprese e dell’abolizione dell’Imu sulle prime case dei benestanti e dei ricconi; ripristino dell’articolo 18 là dove c’era prima di Renzi; norme draconiane contro la corruzione e l’evasione (valgono due o tre manovre finanziarie); legge blocca-prescrizione dei reati; legge elettorale per restituire il diritto dei cittadini di scegliersi i parlamentari, con modico premio di maggioranza; chiusura del Tav Torino-Lione, inutile per lo stesso Osservatorio del governo; nuove norme sull’immigrazione, per una gestione ordinata e rigorosa dei flussi, un’accoglienza alla tedesca e un accesso più facile a chi viene per lavorare (magari, perchè no, confermando Minniti al Viminale). Se poi il Pd rifiuterà, dovrà spiegare il perchè agli elettori superstiti.
6. Anticipare gli aspiranti ministri è stata una mossa elettorale vincente, ma alcuni di essi possono accontentarsi di fare i sottosegretari. Ora che la possibilità di un governo è concreta, allargate la squadra a personalità prestigiose che difficilmente potevano dirsi disponibili prima del voto. Vi aiuterebbero a raggiungere meglio i mondi e le culture che arricchiscono sempre, a prescindere dai tornaconti del momento.
7. Aiutare il riconfermato governatore del Lazio Zingaretti a completare la sua maggioranza (che per ora non c’è) su un programma condiviso faciliterebbe il dialogo col Pd derenzizzato e darebbe una mano alla sindaca Raggi su tutti i problemi di Roma che investono la Regione, come già avviene in Piemonte con la collaborazione fra Chiamparino e la Appendino.
8. Ignorate le sirene dei poteri forti voltagabbana che vi blandiscono per mangiarvi vivi, ma anche le scomuniche dei residuati bellici dei giornaloni, che hanno digerito senza neppure un ruttino due governi Pd-Berlusconi e altrettanti Pd-Verdini e ora fanno gli schizzinosi su Di Maio. La loro credibilità agli occhi degli elettori, vedi il referendum costituzionale e le elezioni di domenica, è zero.
9. Non esagerate col doppiopetto e la moderazione: giusto cambiare linguaggio ed evitare gli insulti del passato, ma senza annacquare alcuni punti fermi del programma: gli elettori vi hanno votati per quelli, oltrechè per affossare questo sistema marcio. Anche da Palazzo Chigi, se mai ci arriverete, si può essere di vaffa e di governo.
10. Avendo mandato tutti a fare in culo (peraltro ricambiati con gli interessi) e non avendo mai inciuciato con nessuno, voi 5Stelle siete gli ultimi con cui tutti gli altri vorrebbero fare un governo. Ma fra qualche settimana gli altri, belli comodi sui loro Aventini a vedere l’effetto che fa il loro Rosatellum studiato apposta per l’ingovernabilità, capiranno che il cerino acceso è nelle loro mani e che l’alternativa è votare subito. Cioè rimettere in gioco la poltrona faticosamente arraffata e rischiare l’estinzione definitiva. E allora saranno pronti a tutto: non solo a scordarsi i vaffa, ma anche mandarsi a fare in culo da soli.

Il Fatto 9.3.18
Il Sud non ha votato per le clientele
di Mario Barcellona


Sta passando un’interpretazione del voto che vede la spaccatura dell’Italia tra un Nord a trazione leghista e in un Sud pentastellato centrata sulla contrapposizione tra efficienza ed assistenza. L’affermazione della Lega, che ha risollevato una destra altrimenti coinvolta nel declino di Berlusconi, darebbe voce all’aspirazione del Centro-Nord alla liberazione dai vincoli di uno Stato che, da un lato, continua a soffocare le iniziative individuali e a disperdere le risorse ad esse sottratte e che, dall’altro, non riesce a garantire sicurezza ai cittadini. Mentre il successo del M5S nel Sud evocherebbe un ritorno del Regno borbonico all’insegna del rifiuto dell’innovazione e della richiesta di assistenza.
Dunque, un Nord proteso verso l’apertura alle sfide del mercato e della globalizzazione, di cui Salvini sarebbe il “moderno principe”, e un Sud ridestato dal suo lungo sonno solo per rivendicare il sostegno pubblico alla sua atavica indolenza. Questa interpretazione del voto è falsa.
Questo voto, sul versante economico-sociale, è stato raccolto, principalmente, su due temi: quello dell’abrogazione della Legge Fornero e quello del rancore verso la costruzione europea e i suoi vincoli finanziari. Anzi, se una lettura va fatta del voto settentrionale, questa suggerisce che il sorpasso della Lega su Berlusconi ha le sue radici nelle difficoltà di chi subisce condizioni precarie di esistenza e della miriade di micro-imprese che da tempo avvertono i morsi della globalizzazione.
Ed è falsa, ancor più, nell’interpretazione del voto al M5S, perché trascura il rancore che le popolazioni meridionali hanno inteso manifestare verso un ceto politico nazionale che, da circa quarant’anni, ha espunto la “questione meridionale” dall’agenda e, ancor di più, verso i ceti politici locali, pure in tal caso di destra e di sinistra, che hanno barattato la loro personale promozione al proscenio nazionale con una subalternità verso gli interessi consolidati e hanno condiviso quella politica delle mance, attraverso la quale i loro elettori sono stati sospinti verso la pratica degradante delle clientele.
Ma questa interpretazione del voto non è ingenua, illustra piuttosto una duplice intenzione dell’establishment di fronte ad un risultato elettorale che sembrerebbe metterne in discussione la supremazia. La prima intenzione guarda al Pd ed appare rivolta ad orientarne l’indispensabile appoggio verso la destra: essa sembra volerlo avvertire che il suo concorso ad una Grande coalizione che includa lo stesso Salvini è più coerente con la vocazione “progressiva”, produttiva e cosmopolita, di una Moderna Sinistra di quanto lo sia un appoggio al “regressivo” assistenzialismo del M5S. La seconda intenzione, invece, costituisce una sorta di second best ed è rivolta allo stesso M5S: vuole informarlo che la sua aspirazione al governo nazionale può essere tollerata solo al prezzo di una presa di distanza dal sentore di assistenzialismo meridionale di cui il plebiscito del Sud lo avrebbe circondato.
Lega e M5S attingono dallo stesso bacino, il malessere materiale e spirituale che attraversa la società italiana (ma non solo), ma lo indirizzano verso orizzonti diversi: flax tax e reddito di cittadinanza sono, rispettivamente, i simboli di questi opposti orizzonti.
La flax tax, imposizione fiscale ridotta al minimo ed eguale per tutti, veicola il messaggio sociale “ti lascio un po’ più di soldi in tasca e così potrai sbrigartela da solo”. Il reddito di cittadinanza, invece, rievoca ancora la solidarietà, l’idea che “la salvezza è necessariamente un affare di tutti”. Ora, per quanto discutibili possano essere queste soluzioni, non c’è dubbio che i messaggi, che esse racchiudono, alludono a concezioni opposte della società che, a loro volta, colorano diversamente l’oggettivo modo d’essere di queste formazioni politiche e l’egemonia che esse sembrano volersi contendere: danno alla Lega il color della destra, che essa rivendica, ed al M5S un color di sinistra, che esso vorrebbe, forse, scongiurare.
Questo, allora, dà conto del “voto” dell’establishment: il rischio che quel che si è provvisoriamente addensato nel voto al M5S, magari prendendo la mano ai suoi stessi dirigenti, cominci a solidificarsi in una formazione politica che, quand’anche non si dichiari di sinistra, tuttavia dia voce a quel mondo dal quale la vecchia sinistra sembra aver fatto secessione.
E questo è anche ciò che si agita nelle odierne convulsioni del Pd: se – come da sempre vorrebbe Renzi – distaccarsi definitivamente da questo mondo e lanciare un’Opa, concorrente con quella di Salvini, sull’elettorato di Berlusconi oppure scommettere sull’apertura di un nuovo orizzonte della solidarietà.

La Stampa 9.3.18
Varoufakis: “I grillini sono centristi, non di sinistra. Pronti ad abbracciare il sistema”
L’ex ministro greco: «Il mio partito correrà anche in Italia»
intervista di Giuseppe Salvaggiulo

qui

Il Fatto 9.3.18
La Boccassini torna: sarà capo del pool contro la corruzione
Milano, la toga di Mani pulite era stata costretta a lasciare l’antimafia per la norma che impone la rotazione
di Gianni Barbacetto


Ilda Boccassini torna a guidare un dipartimento della Procura di Milano: quello sulla corruzione, che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione, erede del pool di Mani pulite. Era stata costretta a lasciare la guida della Direzione distrettuale antimafia dalla norma (spesso criticata perché disperde esperienze) che impone la rotazione dopo otto anni. Ed era decaduta anche dalla carica di procuratore aggiunto. Ma ora, da “sostituto procuratore anziano”, coordinerà il dipartimento forse più cruciale della Procura milanese.
È l’effetto più visibile della riorganizzazione degli uffici varata dal procuratore della Repubblica Francesco Greco. Boccassini prende il posto della collega Giulia Perrotti, costretta ad allontanarsi dal lavoro per motivi personali, ed è finalmente soddisfatta, dopo l’ipotesi di essere “confinata”, con la sua esperienza investigativa, alla sezione Misure di prevenzione. Coordinerà un gruppo composto, tra gli altri, da Paolo Filippini e Giovanni Polizzi, dai pm dei casi Telecom e Mps, Stefano Civardi e Giordano Baggio, da Piero Basilone, con una lunga esperienza in reati di terrorismo, da Maurizio Ascione, autore di numerose indagini sui morti per amianto, da Luca Poniz, esperto di reati contro la pubblica amministrazione. Non entreranno nel dipartimento Luca Gaglio, il pm del caso Ruby, “bocciato” perché troppo giovane di servizio, e Gianluca Prisco, perché a giudizio del procuratore “non ha attitudini specifiche per le materie trattate”.
A sostituire Ilda Boccassini al dipartimento antimafia è già andata Alessandra Dolci, che ora ha nella sua squadra Silvia Bonardi e il pm rugbista (in serie B) Stefano Ammendola. “Bocciata” la pm Paola Pirotta, che si è occupata di indagini sull’ambiente e sul terrorismo internazionale.

Il Fatto 5.3.18
“Decesso assurdo, ma la diagnosi preventiva resta l’unica arma”
ll medico - “Italia all’avanguardia, impossibile eliminare il rischio”
di Leda Galiuto


Come può un atleta di 30 anni morire improvvisamente? Davide aveva 31 anni, da calciatore professionista si era sottoposto a visite annuali medico-sportive approfondite e non aveva denunciato alcun sintomo, tanto che il giorno dopo sarebbe sceso in campo. Questo è quello che sappiamo al momento. Da qui solo diagnosi presuntive: arresto cardiaco.
La presunzione è d’obbligo, non abbiamo dati di autopsia, ma sappiamo che le patologie cardiovascolari sono le cause più frequenti di morte improvvisa (più dell’80%). Sappiamo anche che la morte improvvisa coinvolge gli atleti 2,5 volte più che i non atleti (2,3 volte per 100.000 atleti l’anno nel mondo) ed è 10 volte più frequente negli uomini rispetto alle donne. La morte improvvisa di un giovane atleta può quindi accadere, ma di sicuro resta un evento drammatico per la famiglia e per tutto il mondo dello sport che ne percepisce il dolore e la “assurdità”. E si prosegue poi con le domande: Davide non era stato sottoposto a controlli medici? Sì, controlli che lo hanno reso “idoneo” alla sua professione di calciatore. Davide giocava in Italia, e noi italiani possiamo essere orgogliosi che l’eccellenza nella ricerca nel settore della medicina sportiva abbia portato a una legislazione tutelativa della salute degli atleti (ai sensi della Legge del 23 marzo 1981, n. 91, e successive integrazioni, in particolare il DM 13.03.95), capace di ridurre la morte improvvisa sui campi di gara a 1/1-1.500.000 in Italia contro 1/100.000 media mondiale e di rilevare quelle piccole patologie non causali la non idoneità, ma che con una diagnosi tempestiva e una cura efficace, consentono di assicurare un guadagno in salute e un risparmio per la Sanità. La legislazione italiana ha ridotto la morte improvvisa degli atleti del 90%, e così l’incidenza resta uguale a quella dei giovani non atleti. I medici dello sport italiani fanno quotidianamente un lavoro eccelso per mantenere in salute la macchina perfetta che è il corpo di un atleta, ma quando accadono queste vicende bisogna trovare la giusta sinergia per “giocare d’anticipo” e spendersi tutti insieme per la prevenzione, come da sempre noi italiani siamo abituati a fare.

il manifesto 9.3.18
Austria, vittoria socialista, sconfitti i razzisti Fpoe ora al governo del Paese
In Carinzia trionfo senza precedenti del partito socialdemocratico (Spoe) del governatore uscente Peter Kaiser
di Angela Mayr


Il consenso degli elettori può ribaltarsi anche a pochi mesi di distanza. È successo in Carinzia, tradizionale fucina dell’estrema destra non solo austriaca governata a lungo dal defunto Joerg Haider.
Le regionali di domenica scorsa hanno segnato un trionfo senza precedenti del partito socialdemocratico (Spoe) del governatore uscente Peter Kaiser schizzato a un vertiginoso 48%, un 11% in più rispetto alle già ottime regionali del 2013 che segnarono la fine dell’era Haider. La posta in gioco domenica era il possibile ritorno di quell’era come del resto da scenario attuale col ritorno della Fpoe al governo dell’Austria. Così il voto è stato in controtendenza rispetto alle elezioni politiche dell’ottobre scorso perse dai socialdemocratici: l’incremento in Carinzia è del 19%.
La Fpoe, l’estrema destra del vice-cancelliere H.C. Strache alle politiche era tornato primo partito in Carinzia, raggiungendovi anzi il suo migliore risultato nazionale col 31,8. Insieme al partito popolare (Oevp) del neocancelliere Sebastian Kurz l’attuale coalizione del governo nella regione totalizzava il 58% dei voti. Alle regionali di domenica Oevp e Fpoe sommati hanno raggiunto solo il 37%. Il temuto ritorno del predominio Fpoe nel vecchio bastione Carinzia che i risultati delle politiche facevano presagire non ha avuto luogo, malgrado la forte presenza di H.C. Strache sul posto.
E neppure un esploit dei popolari inseguito da Kurz che batteva anche lui la zona tra Klagenfurt e Villach. La vittoria di Peter Kaiser politico agli antipodi del duo Kurz Strache segna la prima spina nel fianco del governo in carico da soli due mesi. 51 anni, antipopulista ed intellettuale, modi umili e riservati, ha portato la Carinzia fuori dalla bancarotta e dalla palude bruna lasciata in eredità da Joerg Haider. Una palude che in passato non lasciava indenne neppure i socialdemoratici che Kaiser ha saputo rigenerare su nuove basi.
È stato il primo nella plurietnica Carinzia a tenere il suo discorso di insediamento anche in lingua slovena, lingua il cui uso pubblico la destra ha sempre avversata e denigrata. Esponente della sinistra interna, suo modello la politica sociale di Bruno Kreisky, grazie alla quale, scrive Kaiser sul suo sito lui, cresciuto in condizioni di povertà estrema ha potuto sentirsi uguale agli altri e studiare. Una campagna elettorale sul territorio, vecchio stile, porta a porta dove la Spoe ha raggiunto un due terzi della popolazione. Temi concreti, lo stato sociale in primo luogo che il governo Kurz Strache si accinge a smontare, tagliando intanto le sovvenzioni e politiche attive di creazione di posti di lavoro. La Carinzia ha premiato l’opposizione a questo modello. Col 48% dei voti col sistema proporzionale, a Kaiser manca un seggio per la maggioranza assoluta. Dovrà cercarsi un alleato. I Verdi divisi e scissi sono venuti a mancare e, come già successo il 15 ottobre, sono rimasti sotto il quorum.

Repubblica 9.3.18
Polonia, la purga del ‘68
L’antisemitismo e la storia che si ripete
di Adam Michnik


Cinquant’anni fa nessuno si aspettava che qui in Polonia un’intera generazione dicesse no al partito comunista. Ma quel potere reagí violando le sue stesse leggi e distrusse la cultura nazionale con la purga antisemita. Sentimmo sulla nostra pelle che non potevi nemmeno manifestare contro violazioni della legge da parte delle autorità. Io organizzai dimostrazioni e finii in prigione per un anno e mezzo. La campagna antisemita mi colpí cosí. Mi sbatterono in prigione quindi non fui espulso dalla Polonia. Sono uno storico e studiai quanto era successo con quella purga. Lessi i giornali di quel marzo ‘68 e la stampa cecoslovacca dello stesso periodo, i mesi della Primavera. Fu illuminante scoprire linguaggi cosí diversi in due paesi vicini. I cecoslovacchi stavano assaggiando la libertà, noi con la purga piombammo nel buio del fango e dell’abominazione.
Eppure non lasciai la Polonia: sarebbe stato un tradimento ingrato. Mi dissi che dovevo restare fino a vedere la fine del regime comunista. E ci riuscimmo.
Oggi non sento parlare nessuno di quelli che allora ci insultavano come cattivi polacchi o falsi polacchi. Sono scomparsi. Mezzo secolo dopo spero che finirà cosí anche con chi oggi usa linguaggi antisemiti. Allora era un linguaggio disgustoso, ma allora nessuno parlava dei campi né usava il termine “feccia” come invece si fa oggi.
Stereotipi stabili si sono radicati. La situazione ora è completamente differente, eppure viviamo la mutazione della purga del marzo ‘68.
Certo, in un’altra situazione politica.
Non c’è la dittatura di un partito unico, ma alcuni stereotipi mentali sono divenuti molto forti. L’ultimo scandalo sulla legge sulla Shoah mostra che noi allora lottavamo per il meglio e invece ancora oggi come allora l’abitudine si ripete. Non era intenzione del partito di governo attuale, del presidente o del leader della maggioranza Jaroslaw Kaczynski, far esplodere un simile conflitto con comunità ebraiche, Usa, Israele. Eppure è successo. Ora, comunque, hanno scatenato lo scandalo antisemita 50 anni dopo, e non possono fermarlo altrimenti il loro partito si spaccherebbe. Sono diventati ostaggi del loro elettorato radicalmente antisemita e Kaczynski non sa ammettere di potersi sbagliare.
Oggi, quando il premier Morawiecki dice che i polacchi non vanno biasimati per la purga del ‘68 ma solo i comunisti, egli mente. È un modo di pensare sovietico, come dire che il bolscevismo non era russo ma solo ebreo.
Recentemente sono stato a Budapest, mi hanno chiesto chi sia peggio, se Orbán o Kaczynski. Ho risposto che non lo so, ma che penso che tra i due il piú stupido non sia Orbán. Non sarebbe mai capace di gettare il paese in una simile crisi come quella aperta dalla legge sulla Shoah 50 anni dopo la purga antisemita dei comunisti.
Il presidente Duda e il premier Morawiecki hanno espresso simpatia per me e per le altre vittime della purga e della repressione del marzo ‘68. Alla tv polacca mi hanno chiesto cosa ne penso. Ho risposto: non basta lodare qualcuno che ha avuto un ruolo ieri, bisogna augurarsi che presidente e premier abbiano il coraggio di opporsi a Kaczynski come 50 anni fa noi repressi, perseguitati, alcuni di noi espulsi, avemmo il coraggio di opporci al regime di Gomulka.

Repubblica 9.3.18
Stati Uniti e Russia allo scontro per l’Africa. Ma la Cina è avanti
di Raffaella Scuderi


“Noi siamo meglio di loro”: così sussurrano fra loro i tre mangioni che in questi giorni si accomodano alla tavola di Mama Africa. I Paesi più potenti del mondo si sono dati appuntamento nel continente: Stati Uniti e Russia hanno messo in scena una vera e propria guerra fredda allo Sheraton di Addis Abeba, alimentata da siparietti social. Il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, e il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, si sono incrociati per un giorno nella capitale etiope durante i loro tour africani. La Cina era il convitato di pietra. I due responsabili degli Esteri erano nello stesso hotel, ma non hanno preso nemmeno un cappuccino insieme: a pochi metri l’uno dall’altro, sono riusciti a dare vita solo a un battibecco, su Facebook. Mentre Mosca dichiarava di aver chiesto un incontro con gli americani senza aver ricevuto risposta, Washington rispondeva: « Non abbiamo ricevuto alcun invito».
Già prima dell’inizio del viaggio di Tillerson, la Cina ha dominato lo scenario: il segretario di Stato, al suo primo viaggio in Africa, ha tenuto un discorso di presentazione alla George Mason University in Virginia. «La sicurezza del nostro Paese e la sua prosperità economica sono legate all’Africa come mai prima», ha dichiarato. Ed in effetti il filo comune che lega i Paesi scelti da Tillerson (a lui molto familiari da ex amministratore delegato della Exxon, società petrolifera americana: Etiopia, Gibuti, Nigeria, Ciad e Kenya), sostengono New York Times e Washington Post, è la lotta al terrorismo.
Questa non è una missione umanitaria. E le parole del diplomatico lo hanno reso chiaro: dopo i tanti panegirici sull’importanza dell’Africa per il commercio, la libertà civica e la buona governance, Tillerson ha tirato la stoccata a Pechino. «Puntiamo alla buona governance dei Paesi africani per garantire sicurezza e sviluppo, a differenza dell’approccio della Cina, che incoraggia la dipendenza di questi Stati concendendo prestiti che minacciano la loro stessa sovranità, senza creare posti di lavoro».
Cina e Russia hanno risposto all’unisono alla provocazione americana. ll portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, ha rimarcato che « piuttosto che rilasciare dichiarazioni irresponsabili, i Paesi partner dovrebbero sostenere la pace e lo sviluppo africani». Mosca, tramite Lavrov dallo Zimbabwe, è corsa in sostegno di Pechino: « Non ci siamo mai immischiati negli affari interni di alcun Paese».
La Cina in Africa costruisce: ponti, infrastrutture, porti, autostrade e biblioteche. L’America presta soldi, protegge i suoi confini attraverso l’addestramento delle forze militari africane e importa modelli di buona condotta civica e politica. La Russia sta facendo affari tra contratti di armamenti e sfruttamento minerario. Sarebbe auspicabile che governi democratici in Africa crescessero e fossero in grado di valutare da soli ciò che è bene per il loro popolo. Per non sentire più cantare “Noi siamo cinesi” come hanno fatto nei giorni scorsi centinaia di sierraleonesi durante lo spoglio delle schede al termine del voto per le elezioni presidenziali.

il manifesto 9.3.18
Le lacrime musulmane in Sri Lanka
Coprifuoco nel distretto di Kandy, dopo giorni di violenze contro la comunità musulmana. La caccia all’uomo è capeggiata dai nazionalisti buddisti e tollerata dalla polizia locale
Protesta in Sri Lanka a favore di un ritorno alla calma dopo le violenze dei buddisti contro i musulmani
di Emanuele Giordana


Il governo dello Sri Lanka ha ordinato nuovamente ieri dalle sei di sera il coprifuoco nell’intero distretto di Kandy, nello Sri Lanka centrale. La misura, già presa dopo un week end di violenze ai danni della comunità musulmana, era stata rinforzata con lo stato di emergenza e l’invio di soldati, ma un’ennesima ondata di violenza ha preso di mira mercoledi alcuni villaggi nei sobborghi di Kandy – la capitale di distretto – mettendo a ferro e fuoco alcune zone della periferia di Akurana, ampio sobborgo che dista da Kandy una decina di chilometri.
L’INTERO DISTRETTO e la stessa città di Kandy – che conserva un dente del Budda e che è meta di turisti e commercianti di tè la cui produzione l’ha resa famosa nel mondo – sono nell’occhio del ciclone. Il bilancio dell’ennesima giornata di violenze ha portato a oltre ottanta arresti mentre non è ancora chiaro il bilancio di vittime e feriti. Sono stati incendiati negozi e bruciate case di musulmani mentre sono stati colpiti, seppur sommariamente, alcuni templi buddisti.
TUTTO COMINCIA a fine febbraio quando, dopo un incidente stradale, un autista singalese viene bastonato da un gruppo di musulmani. Sabato 3 marzo muore. I responsabili vengono arrestati e così alcuni singalesi che cominciano a vendicarsi.
Ma il loro arresto viene contestato e da lì sarebbero scattate le violenze del week end scorso. L’episodio ricorda da vicino quanto accadde nelle isole Molucche dell’Indonesia nel 1999: una banale incidente dette la stura a un conflitto settario tra musulmani e cristiani che durò dal 1999 al 2002. Ma quel fatto banale nascondeva una strategia del caos che mise in crisi la neonata democrazia indonesiana che si era appena liberata della dittatura di Suharto. Dietro agli scontri, più che l’odio tra comunità delle Molucche, c’era la pianificazione di una crisi che doveva colpire Giacarta.
IN SRI LANKA potremmo essere davanti a qualcosa di molto simile: prima di tutto la polizia e i militari inviati a presidiare l’aera avrebbero avuto un atteggiamento troppo tollerante: sia nel week end sia mercoledi, quando si scatenava la caccia al musulmano con cortei di centinaia di persone, capeggiate da nazionalisti buddisti, con bastoni e bottiglie incendiarie.
Secondo Alan Keenan, un ricercatore dell’International Crisis Group, gli attacchi sono organizzati e ben pianificati. E ci sono buone ragioni – sostiene – per credere che siano in parte progettati per provocare una risposta musulmana, che giustificherebbe poi una controreazione contro i musulmani. Un effetto a catena insomma che potrebbe preludere a un’escalation.
IL GOVERNO È IN DIFFICOLTÀ: ha mandato soldati che hanno lasciato fare e solo in queste ore sembra reagire con fermezza, bloccando siti radicali e arrestando sospetti con un filtro a maglia larga.
Potrebbe non bastare. Quanto sia grave la situazione lo dice l’arrivo a Colombo del sottosegretario Onu per gli Affari politici, Jeffry Feltman. Visiterà l’area di Kandy ma tanta solerzia da parte del segretariato lascia capire quanto a New York si tema un’escalation che potrebbe portare a disordini diffusi come già avvenuto nel 2014 quando al potere c’era ancora Mahinda Rajapaksa, già premier dal 2004 al 2005 e in seguito presidente sino al 2015, quando il voto popolare lo scalza e un suo tentativo di golpe durante le elezioni viene fermato dagli stessi uomini del suo governo e dagli apparati di sicurezza che gli voltano le spalle. Ritornare a quel periodo può forse aiutare a ricostruire il quadro degli incidenti di questi giorni. Rajapaksa è un uomo forte: è a lui che si deve la fine della guerra civile con la minoranza tamil del Nord, iniziata negli anni ’80 e terminata con una strage nel 2009, quando Rajapaksa dà carta bianca all’esercito che circonda una «safe area» e trucida guerriglieri e civili. Autore di un piccolo miracolo economico che si appoggia sull’espansionismo cinese nella «lacrima dell’Oceano indiano», sostiene un’ideologia nazionalista e identitaria singalese, la maggioranza buddista dell’isola.
AIUTA E SOSTIENE movimenti ultranazionalisti capeggiati da monaci radicali, come il Bodu Bala Sena (da cui ufficialmente prenderà le distanze), che sarebbe dietro alle recenti violenze.
Quando Maithripala Sirisena diventa presidente al suo posto con un programma di riconciliazione nazionale e l’appoggio di Usae India, Rajapaksa non digerisce. Da questo a imputargli una primogenitura negli incidenti ce ne corre. Ma se la vicenda indonesiana insegna qualcosa, la responsabilità del vecchio regime – diretta o indiretta – potrebbe non essere da escludere. Non molto diversi dai loro confratelli radicali birmani, gli attivisti del Bodu Bala Sena e di altri gruppi identitari hanno goduto dell’appoggio del governo sino all’arrivo di Sirisena.
NEL 2017 però rialzano la testa con episodi violenti. Organizzano campagne anti musulmane sui social che godono dell’appoggio di qualche imprenditore che vede di buon occhio l’incendio di negozi targati islam. Il vecchio nemico, identificato coi colonialisti prima e coi tamil poi, ha adesso un profilo musulmano.
La parabola dell’odio attecchisce sempre quando si cerca un capro espiatorio ai propri guai. E il governo finisce a tollerare, non per simpatie radicali, ma per non perdere il consenso dei due terzi della popolazione srilankese contro solo il 10% di «mori».

Il Fatto 9.3.18
Mi ritorni in mente. “Odissea” e Dalì sul monitor del pc
di Federico Pontiggia


C’è un solo rischio, che venga sottovalutato, che si fraintenda l’intenzionale sottrazione e l’agio ermeneutico concesso allo spettatore per manchevolezza poetica, irresolutezza ideologica, perfino piccineria cinematografica. Nulla di più sbagliato, Annihilation, da noi Annientamento, conferma la bontà delle pagine di Jeff VanderMeer, ovvero la Trilogia dell’Area X da cui è tratto, e vieppiù la bontà del cinema di Alex Garland, già apprezzato in Ex machina e 28 giorni dopo per la mistura sapiente ma non saccente di scienza e filosofia, cui qui si aggiunge l’organico e, ehm, il cardiaco.
Eppure, Annientamento io non l’ho visto al cinema e voi non lo vedrete lì, giacché sarà disponibile sulla piattaforma streaming Netflix dal 12 marzo: o tempora o mores? Sì, ma non solo, anzi: dobbiamo farci il callo, ossia l’occhio, perché la strada è già battuta e al prossimo crocicchio non ci sarà Garland ma Scorsese, di cui Netflix finanzia l’atteso The Irishman. Arriverà nel 2019, e chissà se Martin riuscirà a ottenere una finestra in sala oppure dovrà pure lui risolversi allo streaming duro e puro?
Appuntatevi l’incombenza, nel secondo caso sarà una data da segnare in rosso nella storia del cinema. Nel caso di Annihilation, intanto, bisogna spazzare via l’idea che le dimensioni del supporto, pc, tablet o tv, siano direttamente proporzionali alla qualità del contenuto: macché, questo dà del tu ad Arrival per l’eterno femminino e l’irriducibile umanesimo, e tra un appiglio scientifico e una condivisibile te(le)ologia frulla Rimbaud (Io è un altro) e Dalì, textures e morphing, ibridazione e contaminazione, trovando riparo nelle Corrispondenze baudelairiane. Già, la migliore analisi di quel, e come, che accade l’ha già scritta l’inarrivabile Charles: “La natura è un tempio in cui viventi colonne lasciano talvolta sfuggire confuse parole; l’uomo vi passa, attraverso foreste di simboli, che lo guardano con sguardi familiari”. Più che l’uomo, la donna: Lena (Portman, wow), biologa ed ex soldato, si unisce a una missione nell’Area X, una zona costiera degli Usa interessata da una sorta di aurora boreale extraterrestre, come fosse una gigantesca bolla di sapone trapassata dal sole.
Vi si avventura con un manipolo di studiose, tra cui la dottoressa Ventress (Jennifer Jason Leigh), e capiamo subito non ci sarà via d’uscita: molte le spedizioni già fallite, l’unico ad aver fatto ritorno, con organi danneggiati ed emorragie interne, è il marito di Lena, Kane (Oscar Isaac). Vi verranno in mente tante cose, dalla lisergia di 2001: Odissea nello spazio al sospetto che, complice la Portman, fosse questo il film che volesse a più riprese fare il Terrence Malick ultimo scorso, e vi batterà forte il cuore, perché il motore e l’esito della storia è l’amore, e una delle sue declinazioni più filosofeggianti, l’altruismo. Tanta roba per uno schermo piccolo, vero? Val bene ricordare che su Netflix il primo mese è gratuito…

Corriere 9.3.18
Gli ultimi romani
La fedeltà alla «res publica» in quell’impero nato ai confini
Aquileia rende omaggio alla Serbia, terra dove si intrapresero campagne cruciali e dove si giocarono i destini di grandi imperatori
Il crepuscolo di un mondo che volle appartenere alla potenza «caput mundi». Con orgoglio vivo
di Giovanni Brizzi

ordinario di Storia romana presso l’Università di Bologna

La merita, la Serbia, una mostra come quella («Tesori e imperatori. Lo splendore della Serbia romana») che si apre a Palazzo Meizlik, in Aquileia. La merita perché, al di là della bellezza e dell’importanza dei pezzi esposti, ben sessantadue, provenienti dai Musei del paese, ci parla del rilievo strategico di una terra il cui spazio si divise in antico fra tre diverse province di Roma, due delle quali, Pannonia Inferior e Moesia Superior, veri cardini difensivi del limes imperiale; e di un grande fiume, il Danubio, che era allora, ad un tempo, tramite e frontiera. Ma la merita, soprattutto, in nome degli uomini che, in quel tempo, la nobilitarono con il loro valore. Soprattutto a loro, e soprattutto agli esponenti del momento che portò all’effimero miracolo della Tetrarchia - a Claudio II, Aureliano, Diocleziano; ai minori…— vorrei rendere qui un breve omaggio.
Irrimediabilmente scavalcata dal principato nonostante ogni sforzo, la grande aristocrazia repubblicana continuò testardamente a tener vivo, per i primi tre secoli dell’impero, blasone e idea generatrice. In nome di entrambi, continuò a cullare le proprie ambizioni di potere, pur contentandosi sempre più di identificarsi col principio che voleva, se non un impossibile ritorno alla forma repubblicana di governo, almeno l’ optimus sul trono.
Con questa idealità furono costretti a confrontarsi per secoli gli imperatori; e non solo loro. Anche la stessa, chiusa nobilitas degli ottimati dovette fare i conti, infine, con la sempre più accentuata, cosciente ed orgogliosa concorrenza del ceto equestre; che, da ultimo, ne raccolse l’eredità, etica prima ancora che di potere. Trasformati già ad opera di Augusto da mercanti, finanzieri, imprenditori in servitori dello Stato (e cioè in ceto di servizio), dalla graduale consapevolezza del nuovo ruolo loro affidato, i cavalieri maturarono infatti via via una vocazione politica prima sconosciuta, divenendo i più gelosi e fedeli custodi dell’antica concezione serviana del munus , del dovere da rendersi alla res publica , alla «cosa di tutti», anche con la vita; e in particolare si fecero carico dell’essenziale funzione bellica. La progressiva rinuncia dell’ antiqua nobilitas , di una nobiltà di sangue sempre più «impigrita e dimentica delle guerre», come dice Tacito, finì per lasciar loro quasi l’esclusiva della difesa dell’impero, portando all’emergere di una categoria di uomini che, in nome di una sorta di «specializzazione funzionale», si sogliono definire viri militares : uomini che, usciti sovente dai ranghi dell’esercito, giunsero grazie al loro valore fino alle tres militiae , ai comandi minori dell’ordine equestre, e furono poi issati per cooptazione ai vertici della struttura militare, il comando delle legioni e il governo delle grandi province armate imperiali, come, appunto, Pannonia e Mesia.
Emersa del tutto con Marco Aurelio, questa componente prese a custodire, ormai sempre più sola, l’idea che alla base del potere imperiale dovesse esserci la virtus, in particolare la capacità bellica di chi prendeva l’impero sulle proprie spalle; sicché ritenendosi depositaria del compito di difenderlo, fu spinta, da ultimo, a rivendicare il diritto di governarlo, portando alla porpora molti uomini emersi dalle sue file.
Quella che è stata definita «anarchia militare» del III secolo, ma che si può forse meglio chiamare «seconda rivoluzione romana», ebbe come fine la ricerca, spesso incongrua e violenta ma in fondo sincera, dell’ optimus da mettere sul trono; e non solo in nome delle esigenze di lotta a barbari sempre più minacciosi, ma come ossequio sentito a un astratto e forse frainteso, eppure tuttora necessario, principio morale.
Per questi uomini la moderna storiografia ha accolto il termine di Illyriciani, dalla terra che almeno militarmente li generò, e ha coniato quello di «Soldatenkaiser», di imperatori-soldati, a definire i sovrani guerrieri che si succedettero tra la fine di Severo Alessandro e il regno di Diocleziano. Che non nacquero tutti in Serbia, naturalmente; ma che nel servizio in Illirico (anche se forse soprattutto in Serbia: va segnalata la presenza qui del grande centro nevralgico di Sirmium, Sremska Mitrovica) ebbero la loro genesi etica.
Se, nel corso dei secoli, l’esser Romano significò soprattutto riconoscersi nell’impegno di responsabilità verso una res publica questi uomini furono forse gli ultimi veri Romani, esponenti di un mondo in cui pienamente si riconoscevano e che tenacemente difesero, ben meritandosi l’appellativo di restitutores .

Corriere 9.3.18
Cultura vivace e nazionalismo Il doppio volto del futuro serbo
di Francesco Battistini


Fuori gli scheletri. Una sera Herta Müller, Nobel tedesco per la letteratura, era a Belgrado e ha riaperto gli armadi. Andandoci giù dura: «La Serbia s’è inflitta del male da sola — ha detto —. E ora i suoi cittadini devono convivere con questo male». Non ha risparmiato uno solo dei fantasmi che i serbi detestano agitare: che bombardare Belgrado nel ’99 fu legittimo, che ci volle la Nato per cacciare Milosevic, che i conti col passato delle pulizie etniche vanno ancora fatti… Non sorprende che la scrittrice abbia detto queste cose (le pensano molti): sorprende che gliele abbiano lasciate dire senza fiatare.
Nessuna interruzione in sala, nemmeno un insulto. Solo dopo, sui social, noti intellettuali e anonimi cittadini le hanno risposto che le bombe piovvero con l’uranio impoverito, che Slobo fu deposto dai belgradesi, che il processo dell’Aja è stato una lunga psicoanalisi collettiva... Tutto sommato, obiezioni scontate: anni fa, la serata della Müller sarebbe andata deserta. O finita a sediate.
«Basta col balcanismo!», dicono a Belgrado. E con gli stereotipi che paralizzano questa parte d’Europa: l’odio tribale, che pure c’è, non può essere la sola narrazione d’una nazione che partorì Ivo Andric e scoprì i raggi X prima di Röngten. I serbi ci tengono. Han cambiato quattro nomi in 25 anni — Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, Repubblica Federale di Jugoslavia, Unione Statale di Serbia e Montenegro, Repubblica di Serbia — e fra sanzioni internazionali, misteriosi delitti politici, caccia ai criminali di guerra, sentono d’aver già dato. L’Ue li ha messi in coda, dovranno aspettare almeno il 2025 prima d’avere il sangue blu di membro del club, ed è dura sentirsi meno europei dei croati o degli sloveni, per non dire degli albanesi che avranno la precedenza o perfino dei turchi, che un tempo pareva entrassero.
«Better Yu Than Eu», scrive qualche rabbioso: meglio la cara vecchia Jugoslavia che l’Unione europea? Ana Brnabic, lesbica dichiarata, seconda attivista Lgbt al mondo a sedere su una poltrona da premier, è un’economista europeista convinta. Ha studiato in Inghilterra e lavorato con gli americani, è osteggiata dalla chiesa ortodossa, è aperta ai 26 gruppi etnici del Paese e ha spiazzato i pregiudizi, accogliendo senza facili populismi i profughi siriani respinti dall’Ungheria di Orbán.
Ana non è certo una rivoluzionaria, fa parte del blocco nazionalista, ma almeno parla a una Belgrado europeizzata che soffre l’isolamento e l’austerity, a una gioventù che non ne può più di mafie&poteri corrotti e ben cementati. Il suo specchio è il presidente Aleksandar Vucic che si sforza di far dimenticare un passato da portavoce di Milosevic, ma deve rispondere a una Serbia profonda e xenofoba, dove i criminali di guerra rimangono vittime della Storia e l’Ue, avvertono i nazionalisti, «per noi ha smesso da un pezzo d’essere la più bella ragazza da sposare».
Le sirene extraeuropee per uscire dalla crisi economica non mancano: la Russia non ha mai cessato d’aiutare i fratelli slavi; la Cina, di finanziare strade e costruzioni; gli arabi del Golfo, di speculare sul Danubio.
Le due Serbie, le vedi anche nella cultura. Di qua i migliori festival del cinema, i musei di notte, le fiere del libro, il design, l’hi-tech, i concerti classici e i locali trap sulla Sava… Di là, l’ombra del nazionalismo e della memoria che tutto rabbuia.
L’eterna questione Kosovo, irrinunciabile feticcio dell’identità: «I nostri giornali sono ancora pieni di miti che ci ossessionano — ci disse una volta Lazar Stojanovic, regista contro —: la vittoria, il Kosovo, la Jugoslavia… Se vogliamo darci un futuro, dovremo liberarci del peso di qualsiasi passato. E d’ogni stereotipo».
Dopo quella serata, l’hanno scritto a Herta Müller: lo sapevi che Scanderbeg, il grande eroe albanese, era figlio d’una serba?

La Stampa 9.3.18
Un sito di sepoltura ancestrale dei nativi americani risalente a 7 mila anni fa
Ritrovato nel Golfo del Messico un cimitero ancestrale “senza precedenti”
di Noemi Penna

qui

Corriere 9.3.18
«Psychodrame», quando Rossellini filmava l’inconscio degli attori
di Paolo Mereghetti


Era rimasto sepolto per sessant’anni negli archivi della Fondazione dedicata allo psicoterapeuta Jacob Moreno e oggi per la prima volta viene mostrato all’interno della rassegna «Toute la mémoire du monde» organizzata dalla Cinémathèque Française a Parigi: è Psychodrame , un documentario di 51 minuti — ma sarebbe più giusto chiamarlo uno «special televisivo» — che Roberto Rossellini girò nel 1956 per il Centro studi della Radio-televisione francese e che documenta come la tecnica dello psicodramma, messa a punto da Moreno, possa aiutare anche gli attori (e non solo i pazienti) a lavorare su una serie di percorsi che liberano la spontaneità, facendo appello alle loro risorse più profonde. Identificato da Sergio Toffetti e restaurato dall’Archivio nazionale del Cinema d’impresa-Csc, il documentario mostra tre esempi di come la tecnica dello psicodramma, sotto la guida dello stesso Moreno e della sua assistente Anne Ancelin Schützenberger, possa favorire spontaneità e verità negli attori, qui alle prese con il tema della necessità dell’impegno politico (erano gli anni della lotta di liberazione dell’Algeria). E che Rossellini filma, con l’aiuto di Claude Lelouch, avendo già in mente quello che la televisione potrà offrire al cinema, lungo un percorso didattico che porterà negli anni successivi il regista italiano a misurarsi con una enciclopedia storica a puntate.

Corriere 9.3.18
Corrado Guzzanti va da «Zoro»
di Maria Volpe

Corrado Guzzanti è l’ospite di «Zoro»: si esibirà in uno dei suoi commenti alle elezioni di Padre Pizarro. Diego Bianchi è andato a Pomigliano d’Arco dove ha seguito la festa di Di Maio.

Repubblica 9.3.18
Le magnifiche ossessioni di Joan Miró
di Chiara Gatti


Da domani Padova dedica una grande retrospettiva all’artista catalano, a Palazzo Zabarella. Ci sono i dipinti, ma anche i collage, le sculture e gli arazzi di un maestro che creò un universo unico fatto di colore
Aveva solo sette anni Joan Miró (1893-1983) quando, in una piccola scuola elementare di Barcellona, a due passi dall’antico e centralissimo Barrio Gotico, scoprì la passione per le lezioni di disegno. «Queste lezioni erano per me come una cerimonia religiosa – ricorderà più tardi, nei suoi diari – mi lavavo le mani con cura prima di toccare la carta e le matite; gli strumenti da disegno diventavano oggetti sacri e lavoravo come se eseguissi un rito liturgico».
Già da bambino era preciso e devoto come un miniatore.
Riponeva con attenzione ogni colore nel cassetto del suo banco di legno, accanto a ritagli di carta, pezzetti di stoffa e ninnoli raccolti per la strada. Forse già immaginava di costruire, un giorno, assemblaggi di materie diverse, sculture o teatrini popolati di figure visionarie. I denti di un rastrello erano la corona di un re di latta. Matasse di corda rubate sulla banchina del porto sarebbero cresciute come chiome di personaggi circensi.
Feltri cuciti su sacchi di iuta preannunciavano stemmi araldici dai toni accesi. La sua natura di artista in grado di esprimersi con qualsiasi mezzo non tardò a manifestarsi. Sebbene il padre Miquel, orafo e orologiaio, lo volesse contabile in una drogheria della città, la vocazione per l’arte fu più forte di ogni imposizione.
Sullo sfondo di una Barcellona modernista e cosmopolita di inizio Novecento, dovette iscriversi a un corso di commercio, ma frequentò contemporaneamente l’Accademia – dove, qualche anno prima, era passato anche Picasso – e quei materiali misti di umori quotidiani uscirono presto dai cassetti.
Si intitola, non a caso, Joan Miró.
Materialità e metamorfosi (fino al 22 luglio) la mostra che inaugura oggi al Palazzo Zabarella di Padova e indaga proprio l’attrazione del grande artista catalano verso un universo politecnico e il valore espressivo, inedito e sperimentale, di pergamene e cartoni, vetri, sugheri e catrami, pelli di pecora e fili di lana, carte vetrate o fibre di tessuto, trasformati in elementi plastici di un nuovo lessico imprevisto, ironico, eterogeneo.
Promossa dalla Fondazione Bano insieme al Comune di Padova, l’esposizione è curata da Robert Lubar Messeri e allinea oltre 85 opere, fra quadri, disegni, sculture, collage e arazzi, usciti da una raccolta di proprietà dello Stato portoghese che l’ha concessa in prestito per quest’unica tappa italiana in attesa della collocazione permanente al Museu de Arte Contemporânea di Porto. «Da tempo Palazzo Zabarella punta su mostre di autori internazionali – spiega Federico Bano, presidente della Fondazione – proposti secondo chiavi di lettura meno consuete. Per esplorare e raccontare aspetti poco conosciuti del loro lavoro».
Ecco allora l’altro Miró. Il collezionista di resti. L’anti-pittore dei suoi “anti-dipinti”. Che preferiva residui di scarto alla pittura canonica. La magnifica ossessione del ricordo nascosto in un brandello di panno macero o nei sassolini raccolti sui sentieri di Tarragona, durante le vacanze estive nell’amata casa di Mont-roig. È un Miró curioso e assorto, un po’ distante dal famoso surrealista stimato da Breton, dal flâneur romantico passato dalle ramblas ai caffè concerto di Montmartre. Il primo viaggio nella Ville Lumière del 1920 nutrì però la sua ansia di sperimentazione.
L’incontro con Tristan Tzara, il padre del dadaismo, fu come un lampo. La libertà di comporre, assemblare, costruire senza regole, seguendo l’istinto, il potere magnetico di ogni oggetto trovato, di ogni materia alternativa. Era inebriante.
«Il confronto con lo strumento e con la materia produce uno shock che è cosa viva!» ripeteva davanti ai suoi telai distorti, le tele traforate, i supporti di rame, alluminio o cellotex, il materiale industriale che, nella seconda metà del secolo, sarebbe diventato uno degli strumenti preferiti di Alberto Burri.
La pelle ruvida di questo agglomerato di fibre chimiche spicca in un capolavoro come Il canto degli uccelli all’autunno,
dove la fisicità della materia è stemperata dalla leggerezza di una pittura limpida. La carta spalmata di catrame e sabbia nelle opere degli anni Trenta precede la scoperta della caseina usata per illuminare gli sfondi opachi della masonite. Il suo biografo Jacques Dupin la descrisse come una superficie «a metà strada tra terracotta e paglia pressata, appiattita e leggermente carbonizzata». Nelle mani di qualsiasi altro artista sarebbe stato un supporto sordo. Miró lo accese di segni in guerriglia, bagliori nella notte che, realizzati all’alba della guerra civile spagnola, alludevano ai drammi dello scontro, alle ombre cupe dei regimi totalitari.
Dividendosi fra la ceramica, le xilografie a colori e le sculture polimateriche, si avvicinò infine anche all’arte tessile; con l’aiuto di Josep Royo imbastì i celebri Sobreteixims, bizzarri arazzi tridimensionali, un ibrido di scultura, collage e pittura, con cascami di matasse e i grandi occhi delle sue creature notturne cuciti con bottoni lucidi di osso.
Il tema delle metamorfosi che lo ha accompagnato per tutta l’esistenza nei ritratti immaginari, nei personaggi onirici, nelle carrucole navali trasformate in totem primitivi, aleggia anche sullo sfondo di un omaggio ai classici italiani. La Fornarina di Raffaello ondeggia, nelle sue fantasie cosmiche, simile a un corpo molle nella sera, con un’iride gigantesca, luminosa come una stella polare.
Prévert, amico per sempre, dedicò a lui un’immagine siderale: «La lavandaia vedova, che chiamano notte, sorge senza rumore e, nel blu del suo bucato, l’astro di Miró, la stella tardiva, splende».

Repubblica 9.3.18
L’alfabeto di un genio
Il contadino che coltivava i “miroglifici”
di Tiziana Migliore


Quando abbiamo cominciato a simbolizzarci, a marcare le relazioni con il mondo? Dalla scrittura alfabetica, con cui inizia la Storia; quel che viene prima è preistoria. Miró, per tutta la vita, ha dimostrato il contrario. Il potere ipnotico, forse impareggiabile, che questo artista esercita non è più un mistero: con Miró risaliamo indietro di millenni fino all’invenzione dei segni, agli esperimenti fatti per saldare in forme motivate precetti e concetti, al modo delle origini: fiutando, testando, cimentandosi con materie, mezzi, strumenti. È noto il risultato di quegli sforzi, l’alfabeto fonetico, appunto, spogliato di tratti visivi e reso arbitrario; ma i passi per giungervi, specchio dell’evoluzione cognitiva, dalla figurazione all’astrazione, sono una parte di noi ibernata, dimenticata. Miró ci riavvicina all’“infanzia del mondo” (Michel Leiris). Non se n’è accorto André Breton, che l’ha scambiata per un’arte “infantile”, non gradendo la ritrosia di Miró e la sua ricerca di un “al di qua” della cultura anziché di un “al di là” surrealista. Miró disfa le associazioni ordinarie fra espressioni e contenuti, i rinvii automatici di somiglianza con la realtà e, in piena avanguardia, dopo la fine della mimesi, ripensa il dar senso attraverso segni. Nascono i miroglifici, come li ha chiamati Queneau, segni di un linguaggio universale per figure, visibile e dicibile. Per Jacques Dupin “l’atto di Miró è di così vasta portata da valere come una nuova creazione, un’avventura a cui non siamo ancora preparati”.
Nel 1975, a Barcellona, l’artista consegna alla Fondazione istituita 15.000 disegni: un patrimonio unico di schizzi, bozzetti, prove colore, prove di dettaglio, remake. Il disegno è il programma d’uso di ogni opera e il programma di base per creare i miroglifici, che non seguono la biografia dell’artista, ma un ciclo biologico: nascita, crescita, assestamento, destino. “Lavoro come un giardiniere. Il mio vocabolario di forme non l’ho scoperto tutto in una volta; si è formato quasi a mia insaputa.
Le cose seguono il loro corso naturale. Crescono, maturano.
Bisogna innestare. Bisogna irrigare”.
La casa di famiglia di Mont-roig ispira tre versioni, La fattoria (1921-22), Terra arata (1923-24) e Paesaggio catalano ( Il cacciatore) (1923-24), in cui gradualmente le figure si geometrizzano. Dal 1940, nei disegni, Miró ne evidenzia alcune, che diventano stabili, e ne scarta altre. Emergono una grammatica – regole generali – una sintassi – usi locali – e una scrittura, tipografica e calligrafica, che insonorizza il lettering: volume, timbro, ritmo. La serie delle Costellazioni (1939-’41) è un firmamento di miroglifici, da Varengeville, in Normandia, dove l’artista si era rifugiato per l’avanzata dei tedeschi.
Il bozzetto dello spettacolo L’ OEil- Oiseau (1968) fornisce lo schema di queste configurazioni tese fra la terra e il cielo. Sono 13, di cui 7 organiche – l’occhio, il cuore, il piede, la mano, il seno, i genitali maschili, i genitali femminili – e 4 cosmiche – il sole, la luna, l’uccello e la stella. Termine “neutro”, né organico né cosmico, è la scala dell’evasione, che collega i due poli; termine “complesso”, organico e cosmico, è la spirale. Negli anni Settanta il segno diventa gesto e la pittura simula la coltivazione della terra. Miró interviene su supporti di vario materiale, enormi e collocati a pavimento. Li calpesta, spruzzandovi o colandovi colore, li fora o brucia. Al pennello sostituisce piedi, mani, dita con cui traccia ancora le stesse figure, nere e ridotte al minimo.

Repubblica 9.3.18
16 marzo 1978
I 55 giorni più lunghi della nostra storia
Cronache di un sequestro
di Ezio Mauro


Vento freddo di marzo quel giovedì mattina, il 16, cinque minuti prima delle nove, in via del Forte Trionfale a Roma. Sette gradi, umidità 72 per cento. Le due auto erano già in formazione, l’una dietro l’altra coi motori spenti nel piccolo ingresso del numero 79. Oggi il cancello rinchiude la normalità a mattonelle rosse di un condominio borghese, anche se allora - quarant’anni fa - nel cassetto del tavolino dentro la guardiola c’era sempre un moschetto “ Beretta” in sicura, ma col caricatore inserito, pronto. Gli uomini delle due scorte parlavano tra di loro, uno posò un thermos grigio pieno di caffè sul pianale dell’”Alfetta”: la giornata prometteva di essere lunga. Dalla portiera aperta della “130” si vedeva l’interno di pelle chiara, il pacco di giornali in ordine sul sedile posteriore, il dorso rigido delle tesi di laurea rilegate, due spazzole per lucidare le scarpe che spuntavano dalla tasca sullo schienale. Quando Aldo Moro scese, dopo essere uscito per l’ultima volta di casa, le Brigate Rosse lo stavano già aspettando, ognuno al suo posto sul luogo dell’agguato.
Era vestito come sempre, anche se quello era un giorno importante per lui: il solito doppiopetto scuro, un po’ lungo, la camicia a righe sottili col monogramma stampatello (“am”) sotto il panciotto, una cravatta blu con disegni democristiani, due gemelli d’oro ai polsini. Avrebbe voluto passare da “ Hausmann”, in centro, per far riparare il cinturino dell’orologio, ma alle 8 si accorse che il mattino era troppo pieno e cambiò programma. Doveva andare alla Sapienza, dove lo attendevano dieci tesi di laurea da discutere in giornata con i suoi allievi di procedura penale. Ma prima, doveva fermarsi alla Camera dove prendeva forma proprio quel mattino alle 10 il suo capolavoro politico, prima tappa concreta del disegno strategico moroteo per una democrazia finalmente compiuta, capace di realizzare anche in Italia un’alternanza tra centro e sinistra.
È il quarto ministero Andreotti, all’apparenza un monocolore democristiano qualsiasi, in realtà il primo governo dal 1947 con l’appoggio del Partito comunista. Oggi giura, ma è stato sul punto di naufragare prima di nascere. La destra Dc rumoreggiava e l’ultimo giorno di febbraio, quando si sono riuniti in conclave i 400 parlamentari del partito, è andata direttamente all’attacco di Moro, accusandolo di fare il gioco dei comunisti. Lui alla fine li ha convinti, con la voce un po’ roca per l’influenza e con un lungo discorso che si è preso i voti, ma ha lasciato sospesi nell’aria i dubbi della Dc: « Un arabesco moroteo, un cesello – scuoteva la testa ascoltandolo uno dei parlamentari di destra più critici, Massimo De Carolis -, pura arte bizantina».
Infine il governo ha giurato al Quirinale, in un quarto d’ora, nonostante lo “ sgomento” dei comunisti chiamati a votare una lista di ministri deludente, con Bonifacio alla Giustizia, Stammati ai Lavori Pubblici, Forlani agli Esteri e Cossiga agli Interni. Forse per un ringraziamento, o meglio per una benedizione, adesso mentre sale in auto Moro dice all’appuntato Domenico Ricci che guida, e al maresciallo Oreste Leonardi che vigila su di lui da 15 anni, di portarlo alla chiesa di Santa Chiara, in piazza dei Giochi Delfici, in tempo per la messa, appena iniziata.
Si è congedato dalla sua casa al quarto piano coi gesti di sempre, prima di chiudere la porta con la chiave dopo aver salutato il nipotino Luca, di quattro anni, che aveva dormito dal nonno e quel mattino la madre Maria Fida era venuta a riprendere: l’ultima foto di Moro è scattata proprio dalla figlia per finire il rullino, mentre è seduto con Luca a colazione. L’altra figlia Agnese è già in ufficio alla Cisl, la moglie Eleonora ha raggiunto a piedi la parrocchia di San Francesco dove insegna catechismo, il figlio Giovanni è appena uscito per il lavoro, lo ha salutato attraverso lo specchio del bagno mentre lui si faceva la barba: l’ultimo ciao di famiglia, col volto insaponato. Avevano chiacchierato sui divani del salotto la sera prima, come capitava spesso, quando Moro era tornato a casa come al solito molto tardi e dopo la cena ( quasi sempre formaggio, verdura, un bicchiere di vino) prima di andare a dormire si era seduto sotto la grande lampada per finire di leggere le carte stipate nelle cinque borse che lo seguivano sempre in auto, tra casa, l’ufficio e il partito.
Nel suo studio in via Savoia aveva avuto una riunione fino alle 10 di sera con i collaboratori di sempre, e per scrupolo aveva incaricato Tullio Ancora di tranquillizzare attraverso Luciano Barca il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, sui ministri troppo chiacchierati e la mancanza di novità nel governo: si trattava di una prima tappa, l’importante era partire e tenere la guida nel percorso e soprattutto in questa fase bisognava avere una flessibilità costruttiva, formula morotea al cento per cento. Poi era rimasto fino alle 11 sul marciapiede con la cartella in mano a parlare a bassa voce col fidatissimo segretario Nicola Rana, solo loro due. Problemi di sicurezza, qualche allarme confuso che aveva portato nel pomeriggio il capo della polizia Giuseppe Parlato in via Savoia per un breve colloquio, con la proposta di estendere la scorta anche qui, davanti all’ufficio privato, dove un mese prima era stato fermato un certo Moreno, di nome Franco, che guardava con insistenza sospetta le finestre dello studio.
Qualche timore, dunque, l’ipotesi di chiedere un’auto blindata. Oggi Rana nega che quella sera Moro avesse paura. Ma il figlio del presidente Dc, Giovanni, rivela un’inquietudine che nasceva da lontano: «Mentre la Guerra fredda stava finendo mio padre cercava una strada nuova per far uscire l’Italia dallo schema che la condannava a essere un microcosmo del mondo di Jalta diviso in due. Questo progetto di una democrazia dell’alternanza aveva una quantità di nemici, interni ed esterni, che lo vedevano come un pericolo. Ma in realtà lui era a rischio da molto tempo, sull’orlo della scomunica per l’apertura ai socialisti, avversario del governo Tambroni, bersaglio dei tentativi di colpo di Stato del generale De Lorenzo e di Edgardo Sogno. Questi nemici erano anche a sinistra, ma soprattutto a destra. Penso che lui ne fosse pienamente consapevole».
I brigatisti non sanno tutto questo, mentre vanno a dormire tardi, l’ultima notte. Da cinque mesi preparavano il sequestro, da un anno studiavano Moro pedinandolo ad ogni passo, da tre cercavano il cuore dello Stato per colpirlo. Nella loro predicazione ideologica, da quando le Br erano nate all’inizio del decennio alla Pirelli e alla Siemens di Milano, la Dc e lo Stato imperialista coincidevano in un progetto antiproletario al servizio della reazione. E la Dc era per i terroristi una specie di mostro a tre teste, quelle di Andreotti, Fanfani e Moro, quasi intercambiabili: non avevano studiato a fondo il partito, non coglievano differenze all’interno, non distinguevano tra la destra democristiana e la sinistra cattolica. Ma pensavano che il rapimento di un leader democristiano avrebbe consentito di inscenare un “controprocesso”, da opporre al processo ai capi storici delle Br, Curcio e altri quattordici, che stava per ricominciare a Torino, totem simbolico di tutta l’area rivoluzionaria.
La prima “ inchiesta”, come il gergo terroristico chiamava gli appostamenti e i pedinamenti, fu su Andreotti. I milanesi ( Mario Moretti, Franco Bonisoli) erano scesi nella capitale per mettere in piedi la colonna romana, avevano affittato il “covo” di via Gradoli, avevano comprato la casa di via Montalcini che diventerà la prigione di Moro. Valerio Morucci e Adriana Faranda “accompagnavano” ogni giorno Andreotti nei suoi spostamenti tra casa e ufficio, spesso pranzavano al buffet della trattoria “da Renato” in via Paola, dove mangiava anche la scorta del leader Dc: tutto troppo affollato, troppo centrale, troppo rischioso. Stesso giudizio per Fanfani: troppo difficile. Hanno da tre anni un ritaglio di giornale, che parla di Santa Chiara come la chiesa di Moro. Passano dal sagrato tre volte in un mese, osservano e aspettano ma non vedono niente, pensano a una falsa pista, stanno per cambiare obiettivo.
Poi un mattino Bonisoli dal finestrino dell’autobus che lo porta in centro da via Gradoli, vede un’auto blu parcheggiata in piazza dei Giochi Delfici con la scorta in attesa, scende ed ecco che tra il suono delle campane Aldo Moro esce dal portone di Santa Chiara, col suo modo di camminare un po’ curvo, mentre con la mano sinistra tiene chiuso il bavero del cappotto. Lo controllano, registrano che i suoi passaggi da quella chiesa per la messa stanno diventando più frequenti, quasi costanti. Morucci e Faranda si incaricano di verificare tutto da vicino, la scena e l’attore inconsapevole. Entrano dopo di lui, lo vedono inginocchiato nel primo banco, con solo due agenti alle spalle, gli altri fuori. Lo osservano mentre fa la comunione, pensano che rapirlo in quelle circostanze e fuggire dall’uscita lassù in fondo all’androne consentirebbe di “neutralizzare” i due uomini di scorta, senza uno scontro a fuoco. Ma ci sono i vigili fuori, madri che portano i figli a scuola, tre agenti che lo aspettano, la via di fuga può diventare complicata e pericolosa.
Riguardano tutto il tracciato del percorso abituale di Moro, da casa al partito, dall’ufficio a casa. «Ogni giorno ritorniamo più indietro - racconta oggi Adriana Faranda - analizziamo metro per metro il percorso, le case di fianco, il traffico, le fermate degli autobus, i balconi » . Misurano i tempi, controllano la velocità delle auto, prefigurano la meccanica dell’assalto per scegliere il luogo più adatto, scampare i pericoli, evitare le trappole. Ecco qui. C’è un tratto di strada in leggera discesa, senza negozi e senza scuole, con un bar a sinistra chiuso dopo il fallimento, una siepe davanti, uno stop all’incrocio e una via laterale di fuga, dove una curva nasconde subito tutto. La targa bianca sull’angolo ha un nome sconosciuto agli italiani: via Fani.
Sarà la sigla eterna degli anni di fuoco, capace da sola di riassumere un decennio terribile per l’Italia, che si apre e si chiude con due stragi ancora senza una verità conclusiva, piazza Fontana coi 17 morti e gli 88 feriti del 12 dicembre 1969, e la stazione di Bologna con gli 85 morti e i 200 feriti del 2 agosto 1980. Una selva insanguinata di duecento sigle armate che scendono in strada, un clima di violenza che nel decennio ha fatto più di 600 morti e tremila feriti: nei cinque anni a cavallo del caso Moro (1976-1980) ci saranno 9.673 azioni violente, con una media di cinque episodi al giorno, qualcosa di inconcepibile per un Paese democratico.
Quel giovedì mattina Moro è il punto d’arrivo di questa macchina infinita di sangue, il culmine di questa teoria impazzita nella metà campo della sinistra. I brigatisti in quel momento sono più di 200, tra i clandestini - i cosiddetti “ regolari” - e quelli che si mimetizzano in una vita normale, organizzati in quattro colonne a Milano, Torino, Genova e adesso Roma. Hanno i soldi perché si sono appena autofinanziati sequestrando l’armatore Pietro Costa, rilasciato dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo e 300 milioni. Prima di spenderle hanno anche dovuto lavare le banconote una ad una, appenderle alle corde stese per tutta la casa e poi stirarle, perché erano impregnate di una sostanza luminescente che le rendeva riconoscibili. Quando hanno scelto via Fani come il teatro della loro azione più clamorosa, gli uomini delle Br si sono accorti che proprio nel punto chiave, all’incrocio con via Stresa, apre i battenti ogni mattina il furgone- bancarella del fioraio Antonio Spiriticchio. È un ostacolo da eliminare. Così la notte prima i brigatisti Bruno Seghetti e Raffaele Fiore vanno in centro dove abita il fioraio in via Brunetti, trovano il furgone, nel buio bucano e lacerano con un punteruolo tutte e quattro le gomme e lo rendono inservibile: domattina non potrà partire come al solito per via Fani, l’incrocio è libero. L’azione è incominciata. Poi la notte stessa dentro i covi i terroristi romani fanno conoscenza con quelli venuti da fuori, si dividono i compiti, rispondono alle ultime domande, controllano le armi, ripassano insieme il piano maniacale dell’agguato, che punta sulla sorpresa, sulla velocità, sull’annientamento, sul vantaggio decisivo della prima raffica. Il passaggio dalla chiesa di Santa Chiara a via Fani ha infatti cambiato la natura tecnica dell’operazione, quello era un prelevamento, questa è un’operazione militare dove prevale chi annienta l’avversario, decidono le armi. Il massacro è nel conto.
Tutto era stato deciso a Velletri, un mese prima del sequestro, nel febbraio. Lì, riunito in una base della colonna romana, il vertice delle Br vara la risoluzione strategica che dà il via all’“Operazione Fritz”, come viene battezzato il rapimento Moro, per la frezza bianca tra i capelli del presidente Dc. Gli obiettivi della lotta armata indicati dal documento sono due: la lotta alla Dc come avversario capitale del movimento operaio, architrave del sistema repressivo da abbattere, e la liberazione dei brigatisti arrestati nelle carceri di massima sicurezza.
È la calamita politica del processo ai brigatisti di Torino, una delle capitali della violenza. I capi storici sono dietro le sbarre, con Renato Curcio, il processo è ricominciato giovedì 9 dentro la caserma Lamarmora trasformata in aula bunker, con i 15 imputati divisi in due gabbioni che ascoltano i capi d’accusa rispondendo con un comunicato di minaccia ai giurati. Formare la giuria è stato un calvario. All’inizio del mese solo cinque tra i 110 cittadini estratti avevano accettato l’incarico, ma sono subito diventati quattro perché le Br hanno individuato un operaio Fiat che aveva detto di sì e lo hanno minacciato, telefonandogli a casa, mostrando di conoscere il suo indirizzo, costringendolo a rinunciare. Una parte della città si mobilita, il comitato antifascista torinese invita gli estratti ad accettare dando prova di coscienza civile, c’è polemica sul gran rifiuto della città operaia. Alla fine si trovano i nomi per partire, tra gli insulti e le minacce dalle gabbie. Tra i giurati c’è Adelaide Aglietta, segretario del partito radicale: «Anche se ho paura, ho deciso di accettare».
Ma venerdì 10, il giorno dopo l’apertura del processo, a Torino due giovani scendono da una 128 guidata da una donna in zona Vanchiglia, il “ borg del fum”, della nebbia: si avvicinano alla fermata del tram e freddano con un colpo alla nuca il maresciallo dell’antiterrorismo Rosario Berardi che era appena uscito di casa. Nella gabbia del processo ci sono due terroristi che lui aveva arrestato in un covo in via Pianezza, Tonino Paroli e Arialdo Lintrami. Quei colpi risuonano nell’intera città, e da Torino attraversano il Paese.
È un Paese stordito e sgomento quello in cui si immerge l’auto di Moro nei primi metri del suo ultimo viaggio, verso una finta normalità che convive con l’emergenza quotidiana, dov’è in agguato la tragedia. Gli aeroporti funzionano a singhiozzo per l’agitazione dei piloti, il debito del Comune di Roma è arrivato a cinquemila miliardi, il ministero degli Interni ha appena presentato l’agente Morfax, un robot antiguerriglia che può salire e scendere le scale, accendere la luce, usare i raggi X. Intanto in Svizzera qualcuno ha trafugato la salma di Charlie Chaplin, lasciando vuota la tomba al cimitero di Corsier- sur- Vevey, in Vaticano il cardinal Poletti denuncia come « blasfema e sacrilega esaltazione erotica » il dramma lirico
messo in scena all’Opera di Roma, i medici ospedalieri minacciano di fermarsi per Pasqua. Il procuratore Bartolomei sequestra per la terza volta il film di Liliana Cavani
Al di là del bene e del male, esce nelle sale Ecce Bombo
mentre a Milano un ladro ruba dal furgone di un corriere le bozze corrette dell’ultimo romanzo di Paolo Volponi,
Il pianeta irritabile.
Non accendono il lampeggiante, gli uomini della scorta di Moro, non azionano la sirena partendo per il loro ultimo viaggio. C’è tempo. Quando hanno avviato il motore appena il presidente Dc è salito a bordo, e si sono affacciati sulla strada, gli agenti non sapevano che Mario Moretti, il capo delle Br, era appena passato lì davanti, in via del Forte Trionfale 79, per controllare che non ci fossero sorprese, contrattempi, allarmi. Cercava le due auto: quando le ha viste in attesa, una dietro l’altra, ha fatto il giro completo delle varie postazioni terroristiche, per l’ultima verifica, e ha dato l’ok definitivo a ciascuno. È il giorno giusto, nessun imprevisto, nessun dubbio, l’agguato preparato da mesi può scattare.
Per le Brigate Rosse questa è una giornata capitale nel loro calendario ideologico di guerra. Moro si muove nel calendario civile di una democrazia occidentale, per lui è un giorno importante per la vicenda politica che ha costruito e oggi lo aspetta alla Camera. Il tempo dell’ideologia e il tempo della democrazia stanno per scontrarsi in una strada di Roma, tra i passanti del mattino, all’ora del primo caffè. L’uomo chiave del nuovo equilibrio politico è anche l’uomo simbolo del potere da abbattere, e adesso è soltanto un uomo silenzioso che sta sfogliando i giornali, come se fosse un giovedì normale. I due autisti frenano entrando in via Fani, scalano la marcia e ripartono, non sanno che questa è la loro ultima curva. Ma ecco il profilo della “ 130” che spunta laggiù in fondo, poco dopo appare l’”Alfetta” che la segue. Ed ecco Rita Algranati che ha già visto le auto, alza e abbassa il mazzo di fiori che ha in mano. È il segnale che spalanca l’abisso italiano. Tutto è incominciato così, coi fiori che danno la parola alle pistole.
“Cronache di un sequestro” di Ezio Mauro - dieci puntate su queste pagine, da oggi al 9 maggio - è anche una webserie su Repubblica. it, prodotta da Gedi Digital in collaborazione con Stand By Me (a cura di Repubblica Tv, Visual Desk e Visual Lab). Oggi la prima puntata sullo spaccato dell’Italia alla vigilia di via Fani. Dopo il 9 maggio l’inchiesta verrà pubblicata, con ulteriori contenuti, in un libro in edicola con Repubblica. Il 16 marzo alle 21,15 su Raitre, invece, anteprima del film documentario di Ezio Mauro Il condannato - Cronaca di un sequestro, diretto da Simona Ercolani e Cristian di Mattia, prodotto da Stand By Me e Rai Cinema in collaborazione con Repubblica, con immagini e reperti inediti. Il film sarà in vendita nelle prossime settimane con Repubblica in due dvd Rivivere i 55 giorni che sconvolsero e cambiarono per sempre l’Italia, quelli del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, consultando in digitale gli archivi del nostro giornale. Dal 16 marzo, esattamente quarant’anni dopo la strage di via Fani, gli abbonati alle nostre due piattaforme, R+ e Rep:, potranno sfogliare e leggere ogni giorno i numeri di Repubblica di quegli stessi giorni del 1978. Un modo unico per immergersi nel contesto politico, economico, culturale e sociale dell’Italia di allora. Ci si potrà inoltre registrare a un’apposita newsletter per seguire tutti gli “aggiornamenti” sul caso, come se li vivessimo in presa diretta. Su Rep: ci sarà anche, online, una selezione quotidiana di due articoli dell’epoca. Da non perdere
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