il manifesto 10.3.18
Ricorrenze
Anschluss, quando l’Austria diventò nazista
Novecento. L’annessione del paese al regime di Hitler compie ottant’anni. Un progetto video di 24 ore a Vienna ricorda quei tragici giorni
di Angela Mayr
Vienna Heldenplatz, piazza degli Eroi. È qui che si celebrò l’annessione, l’Anschluss dell’Austria alla Germania nazista esattamente ottant’anni fa, tra folle esultanti che accolsero Hitler il 15 marzo 1938, tappa fondamentale per l’invasione di mezza Europa. Una ricorrenza che cade mentre la Mitteleuropa vira a destra dimenticando le tragedie del suo passato, con un partito nato come recinto di raccolta degli ex nazisti, la Fpoe, al governo in Austria.
IN UN GIORNO SOLO, la repubblica nata nel 1918 – altro grande anniversario – quale tronco residuale dell’impero multietnico austroungarico fu cancellata come stato autonomo. Non c’era stata alcuna resistenza contro le truppe tedesche che varcarono il confine austriaco nella notte tra l’11 e il 12 marzo.
La cronologia e dinamica della presa di potere nazista in Austria verrà raccontata da un «orologio del tempo», un video live ticker prodotto da un equipe dei massimi studiosi sul tema coordinati dal Haus der Geschichte (Casa della storia), nuova istituzione nata dopo anni di discussione. Il progetto video, che è l’iniziativa di commemorazione più significativa dura 24 ore, mostrando documenti d’epoca, analisi e testimonianze. Verrà proiettato su grande schermo sulla facciata del Ballhausplatz sede del governo che dà su Piazza degli Eroi, il luogo simbolo degli avvenimenti. Il live ticker inizierà la sera dell’11 marzo e terminerà il 12, visibile anche in diretta streaming sul sito dell’orf, la tv di stato. La prima scena del progetto video riguarda la vicenda del referendum sull’annessione disdetto dall’allora cancelliere Kurt Schuschnigg dietro pressione di Hitler che temeva che la popolazione austriaca avesse votato contro l’Anschluss, come effettivamente era previsto.
IL REGIME AUSTROFASCISTA sostenuto da Mussolini – che in seguito lo mollò – instauratosi nel 1934, avendo schiacciato nel sangue la «Vienna Rossa» sciolto il parlamento e messo fuori legge i socialisti, spianò la strada all’annessione. Avvenne, com’è ormai ampio consenso degli storici austriaci sia per motivi interni che esterni, dall’alto ma anche dal basso.
Basti pensare al clima di terrore e di pogrom permanente che subito si propagò a Vienna contro la comunità ebraica messa al bando e privata da ogni diritto, anche quello di entrare in un bar, ristorante o parco. «Ogni giorno gli ebrei, donne e uomini vengono prelevati dagli uffici o dalle case e costretti, in mezzo a una folla ridente e beffarda ’di cuori d’oro viennesi’ per ore e ore a strofinare i marciapiedi nel tentativo invano di eliminare le tracce della propaganda di Schuschnigg». Con una soluzione caustica che bruciava e spazzolini da denti, strisciando a carponi, come fu descritto nel primo libro sul terrore a Vienna Fallen bastions – che uscì nel 1939 in Inghilterra e America – di G.E.R. Gedey corrispondente a Vienna e Praga di alcuni giornali inglesi e americani. Difficili furono le vie di fuga; per la maggior parte, c’erano muri e porte sbarrate. Bisognerebbe leggere e diffondere le tante tragiche testimonianze dirette per capire come la storia di allora, pur in forme diverse, oggi rischia di ripetersi.
DEDICATO AL TEMA della fuga, il 13 marzo verrà proiettato a Vienna Exile-excellence the class of 1938, commissionato dall’Accademia delle Scienze. Racconta il destino di 16 bambini e adolescenti fuggiti da Vienna, diventati poi all’estero scienziati famosi. Fuggirono da soli, ai genitori non fu permesso uscire, nel 1938, con il noto «Kindertransport», il varco di salvezza che l’Inghilterra aprì ai minori. Tuttavia di 1,6 milioni di bambini ebrei che vissero nella Mitteleuropa sono sopravvissuti soltanto centomila.
Il risorto stato austriaco postbellico si era legittimato presentando l’Anschluss, il suo inglobamento nel terzo Reich unicamente come aggressione tedesca esterna, costruendo così il mito dell’Austria «prima vittima del nazismo» e richiamandosi alla dichiarazione interalleata di Mosca del 1943. Cancellando, con questa mitologia, la parte della dichiarazione sulla propria corresponsabilità ivi contenuta «per la partecipazione in guerra accanto alla Germania hitleriana».
LA DECENNALE RIMOZIONE e non elaborazione del proprio passato nazista entrò in crisi con il caso Waldheim di trent’anni fa che fece tramontare le tesi innocentiste. Seguì la dichiarazione ufficiale dell’allora cancelliere socialdemocratico Franz Vranitzky che nel 1991 riconobbe le corresponsabilità storiche austriache. Nel programma comune del governo in carica da Natale, la coalizione del partito popolare (Oevp) del cancelliere Sebastian Kurz con l’estrema destra del vicecancelliere H.C. Strache della Fpoe, viene riconosciuta «la corresponsabilità e colpa per una delle maggiori tragedie della storia mondiale», senza tuttavia nominare esplicitamente i crimini nazisti.
NELLE BURSCHENSCHAFTEN, le corporazioni studentesche combattenti semisegrete legate alla Fpoe se ne parla invece, ma per inneggiarle con tanto di canzonieri che via via si scoprono, con canzoni che incitano a «far fuori il settimo milione». Casi singoli, si giustifica la Fpoe (la cui lista si allunga ogni giorno), ormai oggetto di indagini anche della magistratura. La stessa Fpoe ha annunciato di voler studiare se stessa incaricando una commissione di storici. Intanto, il partito di Strache continua a nominare esponenti delle Burschenschaften più discusse nelle istituzioni dello stato, dalla Corte Costituzionale alle università.
«Al centro del pensiero di Benjamin vi è la categoria della ripetizione»
il manifesto 10.3.18
Walter Benjamin, il gioco che rovescia il passato
«Il principio ripetizione» di Marina Montanelli, edito da Mimesis. L’analisi scrupolosa di un complesso lascito intellettuale
di Marco Mazzeo
Non è raro che ai pensatori più innovativi del XX secolo sia riservato un trattamento pessimo. È il caso di Walter Benjamin. A seconda delle circostanze diventa mass-mediologo, mistico esoterico, ben che vada generico teorico della tecnica. A tal proposito, il recente libro di Marina Montanelli (Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, Mimesis, pp. 163, euro 16) aiuta a fare non solo chiarezza, ma giustizia. Attraverso l’analisi scrupolosa di un complesso lascito intellettuale, Montanelli rilegge il pensiero del filosofo attraverso una categoria spiazzante, almeno per chi è abituato a letture di maniera.
AL CENTRO DEL PENSIERO di Benjamin vi è la categoria della ripetizione. Questa è una nozione chiave perché, invece che di mass-media, durante l’intera esistenza il filosofo tedesco lavora all’elaborazione di qualcosa che somiglia molto a una antropologia. Benjamin distingue tra due nozioni di ripetizione, simili all’apparenza e invece diverse come le due sponde di un fiume. La prima è la ripetizione di religione e destino: l’eterno ritorno dell’identico, un cerchio che si morde la coda ribadendo senza sosta le proprie leggi. La seconda è una «ripetizione differenziale» che ripetendo trasforma e modifica.
QUESTA RIPETIZIONE, non più mitica ma storica, la si ritrova là non dove meno lo s’immagina. Non solo nei conflitti rivoluzionari o in una tecnica prodigiosa come quella cinematografica, quanto nella stanza del più innocuo degli infanti. È al gioco, infatti, che è dedicata una delle parti decisive del libro. Il mondo ludico, nella semplicità di chi costruisce giocattoli montando parti o li distrugge per separarne le componenti, è la chiave antropologica di un’attività che, proprio perché ripetitiva, si rivela innovativa.
Contro il mito del genio creativo (di moda tanto nelle religioni confessionali che nel marketing pubblicitario), il nuovo nasce secondo Benjamin per mezzo di una ripetizione del passato. A differenza del rito, che ripete un evento al fine di confermarne la validità (la ciclicità del Natale), il gioco non si limita a fare manutenzione. L’attività ludica manomette ciò che è stato (tradizioni, lingue, modalità espressive) nel senso letterale dell’espressione. Montanelli insiste sulla dimensione tattile di una ripetizione che produce futuro.
IL GIOCO, PER BENJAMIN, è il paradigma di attività sofisticate come il montaggio filmico perché non si limita a restaurare una immagine, ma la modifica per senso e struttura. A forza di cavalcarla, la scopa diventa cavallo. Il rapporto tra queste due forme di ripetizione è tutt’altro che pacifico: l’eterno ritorno mitico-religioso è portato a fagocitare l’innovazione che sorge dal gioco; l’attività ludica a propria volta non è irenica. Il giocattolo, ad esempio, è una forma innovativa che nasce da atti distruttivi. Fa a pezzi altri giochi, frantuma materiali, più in generale tende a prendere le distanze dalla tradizione. Il ludico, insiste il linguista Émile Benveniste, proviene dal sacro. Benjamin, chiosa Montanelli, aggiunge un dettaglio tutt’altro che irrilevante: proprio perché hanno un comune luogo d’origine, il gioco non condivide ma contende al sacro il suo campo d’azione. Tra altare e monopattino vige un rapporto d’antagonismo. Se netta è la contrapposizione tra sacro e gioco, massima è l’ostilità tra sacro, gioco e capitalismo.
A PARTIRE DALLA FINE dell’Ottocento, infatti, tra i due litiganti è stato il capitale ad aver preso la scena. Dalla liturgia rituale il regno della merce assume la postura dell’eterno ritorno, un presente dal quale pare impossibile fuggire. L’attuale sistema produttivo ha fatto suo, infatti, pure lo spazio antropologico della festa (la domenica, il carnevale) che, seppur in modo limitato, lasciava un qualche margine di manovra a movimenti innovativi e a gerarchie capovolte.
D’altro canto, il capitalismo ruba anche dal gioco giacché mette al lavoro l’instancabilità del bambino quando dalla bicicletta proprio non vuole scendere anche se ormai, rimprovera l’adulto, si è fatto buio. Quella della merce è un’epoca di lavoro incessante e febbrile: ripete come il sacro ma senza i suoi interstizi; si affanna con stile infantile privo però di possibilità di trasformazione. Nonostante la cupezza della diagnosi, sottolinea il libro, Benjamin non cede alla nostalgia.
PROPRIO A CAUSA della sua aggressività, il capitalismo ha finito con lo spazzar via molte delle abitudini e delle forme reiterative tradizionali. Di fronte a un’antropologia politica sovversiva si staglia una prateria brulla ma immensa. Oggi più che mai la struttura logica del gioco si rivela centrale e liberatoria perché invita a farcela con poco, incoraggia chi costruisce a partire da frammenti, è paradigma del ripetere cambiando.
il manifesto 10.3.18
Manovre Usa-Israele “Juniper Cobra” per la guerra che verrà
Migliaia di soldati americani e israeliani si stanno addestrando in questi giorni alla difesa anti-missile. In Libano Hezbollah lancia l'allerta e teme atti di sabotaggio
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Andranno avanti fino al 15 marzo le esercitazione “Juniper Cobra” con le quali migliaia di militari americani e di soldati israeliani si stanno preparando insieme ad affrontare il lancio simultaneo di migliaia di missili contro Israele da Libano, Siria, Iran e anche Gaza. Uno scenario più che probabile, anche se con un coinvolgimento meno ampio di Paesi e territori, se Israele darà inizio alla sua offensiva “preventiva” contro il Libano ed il movimento sciita Hezbollah di cui si parla ormai tutti i giorni. In questo contesto non è insignificante l’allarme generale che, secondo alcuni media arabi, avrebbe proclamato Hezbollah in risposta a una presunta “luce verde” che l’Amministrazione Trump avrebbe dato al governo Netanyahu per un attacco in Libano. Trovare una conferma “ufficiale” non è facile. Certo è che testimoni riferiscono che a Dahiyeh e in altre parti della periferia meridionale di Beirut, la roccaforte di Hezbollah nella capitale libanese, è aumentato il numero dei posti di blocco e si percepisce una tensione crescente. Altre fonti parlano di misure di sicurezza adottate nel sud del Libano a ridosso del linea di confine con Israele. A frenare i piani israeliani, secondo queste voci, sarebbe il rischio che lo Stato ebraico si ritrovi poi sotto una pioggia di razzi lanciati dal Libano.
Al manifesto una fonte giornalista libanese ha invece spiegato che l’allerta di Hezbollah «non è legato al timore di un imminente attacco a sorpresa quanto al rischio che spie di Israele siano riuscite ad infiltrarsi nell’area (controllata dal movimento sciita) per compiervi atti di sabotaggio». La fonte sostiene che «Israele è la parte che meno di tutte le altre vuole la guerra perchè sa che la risposta di Hezbollah sarebbe devastante e che dovrebbe combattere lungo un fronte di centinaia di chilometri che comprende anche la Siria, senza dimenticare il coinvolgimento di unità scelte iraniane presenti nei pressi di Quneitra (a ridosso del Golan, ndr)».
Sarà così ma nel frattempo i comandi israeliani e americani coordinano i sistemi difesa anti-missile Iron Dome, Patriot, Fionda di Davide e Arrow. «Stiamo imparando molto in vista di future minacce. Ai soldati è richiesto di operare il sistema di armi in un contesto complesso, con missili nemici che distruggono i quartieri dove vivono», ha detto al sito Ynet il tenente colonnello Kobi Regev, responsabile di una batteria del Fionda di Davide. Il Comando europeo dell’esercito statunitense (Eucom) da parte sua fa sapere che, in caso di bisogno, i soldati americani potranno arrivare in Israele in due o tre giorni. Per le esercitazioni congiunte gli Usa schierano anche la portaelicotteri d’assalto USS Iwo Jima e la nave da guerra USS Mount Whitney, il sistema di difesa anti-missile balistico Aegis, 25 aerei. Alle manovre in corso si aggiungono le dichiarazioni fatte a inizio settimana da Benyamin Netanyahu in visita a Washington dove ha incontrato Donald Trump. Il premier israeliano ha insistito sull’appoggio pieno della Casa Bianca a Israele, in particolare su una politica del pugno di ferro contro Iran e Hezbollah.
il manifesto 10.3.18
La sinistra se n’è andata da sé
«L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina
«L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio»
di Marco Revelli
L’Italia del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile, quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale (un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi dall’inferno.
L’una attirata dal flauto magico della flat tax, l’altra da quello del reddito di cittadinanza.
In mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Bisognerà ben dircelo una buona volta fuori dai denti, se non altro per mantenere il rispetto intellettuale di noi stessi: in questa nuova Italia bicolore la sinistra non c’è più. Non ha più spazio come presenza popolare, come corpo sociale culturalmente connotato, neppure come linguaggio e modo di sentire comune e collettivo. Persino come parola. La sua identità politica, un tempo tendenzialmente egemonica, non ha più corso legale. L’acqua in cui eravamo abituati a nuotare da sempre è defluita lontano – molto lontano – e noi ce ne stiamo qui, abbandonati sulla sabbia come ossi di seppia. Disseccati e spogli.
NON È UNA «SCONFITTA storica», come quella del ’48 quando il Fronte popolare fu messo sotto dalla Dc atlantista e degasperiana, ma non uscì di scena. È piuttosto un «esodo». Allora il giorno dopo, come dice Luciana Castellina, si poté ritornare al lavoro e alla lotta, perché quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo, messo in minoranza ma consistente, e nelle fabbriche gli operai comunisti ritornavano a tessere la propria tela come pesci nell’acqua, appunto.
Oggi no: la sinistra del 2018 (se ha ancora un senso chiamarla così) non è stata messa sotto da nessuno. Non è stata selezionata come avversario da battere da nessuno degli altri contendenti. Se n’è andata da sé. O quantomeno si è messa di lato. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che i blu e i gialli hanno potuto occupare tutto lo spazio perché dall’altra parte non c’era più nulla. Da questo punto di vista questo esito elettorale almeno un merito ce l’ha: ci mette di fronte a un dato di verità. E a un paio di constatazioni scomode: che l’«onda nera» non era affatto illusoria, è stata veicolata al nord da Salvini, ed è stata neutralizzata al sud dai 5Stelle (come fece a suo tempo la Dc).
D’ALTRA PARTE un tratto di verità ci viene consegnato anche dalla catastrofica esperienza del quadriennio renziano. L’opera devastante di «Mister Catastrofe», come felicemente lo chiama Asor Rosa, costituisce un ottimo experimentum crucis. Utilissimo – a volerlo utilizzare per quello che è: una sorta di vivisezione senza anestesia – per indagare che cosa sia diventato il Pd a dieci anni dalla sua nascita, ma anche cosa rimanga delle sue identità pregresse, delle culture politiche che plasmarono il suo background novecentesco, dell’antropologia dei suoi quadri e dei suoi membri, del suo radicamento sociale, del grado di tenuta o viceversa di evaporazione dei riferimenti nel set di tradizioni che definiscono ogni comunità. Matteo Renzi, nella sua breve ma tumultuosa (quasi isterica) esperienza da leader nazionale ha stressato il proprio partito in ogni sua fibra, ne ha rovesciato (e irriso) tutti i valori, ha umiliato persone e idee che di quella tradizione avessero anche una minima traccia, ha rovesciato di 180 gradi l’asse dei riferimenti sociali (gli operai di Mirafiori sostituiti da Marchionne), ha provocato a colpi di fiducia l’approvazione di leggi impopolari e antipopolari, ha rieducato alla retorica e alla menzogna una comunità che aveva fatto del rigore intellettuale un mito se non una pratica effettiva, ha cancellato ogni traccia di «diversità berlingueriana» dando voce al desiderio smodato di «essere come tutti», di coltivare affari e cerchi magici, erigendo a modelli antropologici i De Luca delle fritture di pesce e i padri etruschi dei crediti facili agli amici… Ora, con tutto questo, ci si sarebbe potuto aspettare che, se di quella tradizione fosse rimasto qualcosa, se un qualche corpo collettivo di «sinistra storica» fosse rimasto dentro quelle mura, si sarebbe fatto sentire (“se non ora, quando”, appunto). Tanto più dopo il compimento del gran passo – del rito sacrificale – della scissione. Un esodo di massa, al seguito del quadro dirigente che avevano seguito fino al 2013.
INVECE NIENTE: fuori da quelle mura è uscito un fiume di disgustati, ma è filtrato appena un esile rivolo, una minuscola «base» al seguito di un pletorico gruppo dirigente. Il 3 e rotti percento di Liberi ed Eguali misura le dimensioni di uno spazio residuale. Non annuncia – e lo dico con rammarico e rispetto per chi ci ha creduto – nessun nuovo inizio, ma piuttosto un’estenuazione e tendenzialmente una fine. Dice che non c’è resilienza, in quello che fu nel passato il veicolo delle speranze popolari. Né l’esperienza pur generosa (per lo meno nella sua componente giovanile) di Potere al popolo – purtroppo sfregiata dal pessimo spettacolo in diretta la sera dei risultati con i festeggiamenti mentre si compiva una tragedia politica nazionale -, può tracciare un possibile percorso alternativo: il suo risultato frazionale, sotto la soglia minima di visibilità, ci dice che neppure l’uso di un linguaggio mimetico con quello «populista» aiuta a superare l’abissale deficit di credibilità di tutto ciò che appare riesumare miti, riti, bandiere travolte, a torto o a ragione, dal maelstrom che ci trascina.
SI DISCUTERÀ A LUNGO degli errori compiuti, che pure ci sono stati: delle candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della compromissioni di molti con un ciclo politico segnato da scelte impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vedo la tendenziale e apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di “centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo.
PER QUESTO NON BASTA fare. Occorre pensare e ripensare. Guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Misurare i nostri fallimenti. Costruire strumenti di analisi più adeguati. Perché questo mondo che non riconosciamo, non ci riconosce più… Come il Montale del 1925 (millenovecentoventicinque!) mi sentirei di dire: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un polveroso prato», per concludere, appunto, con il poeta, che questo solo sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Il Fatto 10.3.18
“Il Pd per salvarsi deve far fuori Renzi, poi allearsi con i 5Stelle”
Messaggio al Nazareno: “I dem devono sostenere un governo grillino ma senza partecipare con i ministri. Ora tocca a loro”
Filosofo e politico, Massimo Cacciari è stato sindaco di Venezia per 13 anni (non consecutivi)
intervista di Lorenzo Giarelli
Ogni accordo di governo tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico, al momento, è lontano. Oltre all’intesa politica sembra esserci di mezzo un rancore di fondo, quello che il giorno dopo le elezioni ha fatto dire a Matteo Renzi di non voler mai sostenere chi ha definito i dem “corrotti, mafiosi e collusi”.
Massimo Cacciari, anche questa componente potrebbe avere un peso?
Mi pare che queste spiegazioni psicologiche c’entrino poco e non siano decisive per determinare le scelte. Il Partito democratico ha talmente tanti guai interni che non ha neanche il tempo di pensare ai rancori.
Quindi non è quello il motivo che tiene lontani Pd e 5 Stelle?
Il nodo centrale adesso è la disfida interna al Pd. Renzi si è mangiato il partito e ha finito per mangiare pure se stesso. Questi problemi si risolverebbero con una direzione seria, con qualcuno in grado di prendere decisioni che vadano oltre Renzi.
La strada, quindi, sarebbe superare il segretario e guardare ai 5 stelle?
Mi sembra l’unica posizione possibile. Da questa disfatta il Pd potrebbe uscirne bene soltanto se ammettesse la sconfitta, riconoscesse la vittoria del Movimento 5 Stelle e si rendesse disponibile a sostenere un governo monocolore dei grillini.
Perché monocolore? A quel punto non potrebbe avanzare qualche pretesa?
Non gli converrebbe, avrebbe tutto da perdere. Condividere responsabilità di governo in questo momento sarebbe un suicidio, anche perché gli elettori hanno parlato chiaro, sfiduciando il partito.
Quindi?
Quindi è giusto che il Movimento costruisca un governo da solo, con i suoi ministri, e che il Partito democratico valuti volta per volta le proposte da votare.
Ma così non sarebbe una maggioranza troppo fragile?
Se il Pd presentasse una proposta del genere ai 5 stelle, il cerino passerebbe in mano ai grillini. Per quanto debole possa essere questo tipo di sostegno, non credo che il Movimento potrebbe dire “no grazie” ai dem e rifiutarsi di fare un governo.
La base del Pd come la prenderebbe?
Mi sembra che la base abbia già dato brutti segnali con il voto se è per questo. Ma se andiamo a vedere i flussi elettorali si vede chiaramente che tre quarti dei voti fuoriusciti dal Pd rispetto alle elezioni del 2013 li ha intercettati il Movimento 5 stelle. C’è molta più omogeneità tra le loro basi di quanta ce ne sia tra centrosinistra e centrodestra.
Ci sono alternative a un’intesa tra Pd e 5 Stelle?
Mettere d’accordo la Lega e i grillini su un governo è impossibile. Il popolo dei 5 stelle, al contrario di quanto sostiene qualcuno, non è certo di destra e sopporterebbe molto male ogni tipo di accordo con Salvini. Ma anche il leader leghista non ce lo vedo proprio a spaccare il centrodestra per andare a fare il secondo a Di Maio. Altre soluzioni non ce ne sono, visto che Berlusconi e quel che resta del Pd, anche volendo, non hanno i numeri.
Quello di un accordo tra 5 stelle e Pd è più una speranza o una previsione?
Allo stato attuale non è fattibile, purtroppo. Bisognerebbe superare Renzi e in questo momento nel Pd non c’è nessuno in grado di farlo .
Se il Pd e i 5 Stelle faticano a dialogare, i cosiddetti poteri forti – dai grandi giornali a Confindustria – ci hanno messo poco a riposizionarsi nei confronti del Movimento. La stupisce?
Per niente. È l’Italia eterna, la miserabile Italia eterna che sta sempre con chi vince. Come si dice: “Primum vivere”.
il manifesto 10.3.18
Sinistra, il fallimento delle élites
di Filippo Barbera
Ricominciamo. Non dalla canzone di Adriano Pappalardo, anche se la voglia di gridare è tanta. Ma da qualche parte, anche più di una, bisogna ricominciare. Per una volta, ricominciamo dall’alto, dal potere e dalla sua gestione. Non dai programmi, non dalle politiche industriali e del lavoro, non dai fenomeni e dai fatti, non dai riferimenti ideologici e dai padri e madri nobili. Ma dai processi di selezione della classe dirigente, dalle élite della sinistra, da chi decide e da chi chiede il voto degli elettori. Ricominciamo dalle persone.
La crisi della forma partito, con i suoi limiti, ha consegnato il processo di selezione delle classi dirigenti a pura riproduzione dei gruppi di potere dentro i partiti e a scapito del paese. Il potere e la sua gestione sono tratti costitutivi della politica, intendiamoci subito. Non c’è politica senza potere. Ma neppure c’è politica senza attenzione per il governo della polis. E se la selezione della classe dirigente è mediata solo dai rapporti di forza e dalla fedeltà di corrente, solo dal controllo delle risorse e dall’obbedienza cieca, l’esito è uno solo. Mediocrità e cecità. Magari nascoste da abilità retorica, arroganza e capacità comunicativa. Ma non a lungo.
Una domanda semplice: che rapporto c’è tra la classe dirigente dei partiti di sinistra (centro-sinistra) e l’intelligenza e passione diffusi nel Paese? Perché così è: le risorse nel mondo dell’impresa, dell’associazionismo, dell’innovazione sociale, del volontariato e delle mille pratiche ed esperienze che da Nord a Sud abitano il Paese ci sono eccome. Come c’è la passione politica. Non si tratta di sostenere che la società civile è buona e la politica è cattiva. Ma di ammettere che i meccanismi di selezione e cooptazione della classe politica non sono più capaci di attingere da quello che di buono c’è nelle pratiche ed esperienze fuori dai partiti. Anche nella società politica marginale e periferica, nei mille sindaci e amministratori che fanno il loro lavoro con passione e competenza, ma con sempre minori risorse. E quando di cooptazione esterna si tratta, si riproducono comunque i meccanismi di ricerca del potere e il presidio degli equilibri interni: l’obiettivo è il consenso tra élite. Il risultato è che oggi le élite sono come apparecchi radio permanentemente sintonizzati sulla modalità «trasmetti» e mai su quella «ricevi». Parlano, ma non ascoltano. Far parte della classe dirigente di un partito dovrebbe costituire un onore: uno status pubblico riconosciuto e riconoscibile, mentre ora è materiale per barzellette e sarcasmo. Si è rotto qualcosa.
Piero Ignazi e Fabrizio Barca hanno parlato di «triangolo rotto» tra partiti, stato e società civile, non per buttare via i partiti ma per immaginare nuove forme di raccordo capaci di servire il governo della cosa pubblica. A riguardo, la ricostruzione dei meccanismi di selezione delle classi dirigenti non può trascurare chi élite non è. Il movimento 5 stelle questo lo ha capito. La sinistra di partito no. Chiede di turarsi il naso al momento del voto, ma non si mischia al popolo puzzone. Quale interclassismo – oltre a quello ritualistico delle salamelle rimaste ai simulacri delle Feste dell’Unità – caratterizza la vita quotidiana delle élite? Quali luoghi e persone frequentano? Di quale riconoscimento sociale sono alla ricerca? Salotti? Studi televisivi? Più o meno raffinati intellettuali? Dove vanno in vacanza? Con chi parlano? Chi ascoltano? Scelgono un hotel a tre, quattro o cinque stelle? In che classe viaggiano? Hanno gatti e cani che si chiamano Cachemire?
Di Maio sbaglia i congiuntivi: diamogli addosso, giusta strategia in un paese con un tasso elevatissimo di analfabetismo funzionale. Le élite della sinistra sono snob. Come gran parte della classe dirigente italiana, del resto. Ma chi ambisce a rappresentare le istanze popolari, dei ceti e delle classi sociali più svantaggiate, non può permettersi di essere snob. Non può solo fare presenza. Non può stare seduto in disparte, per tornare a Pappalardo. Presidiare il territorio, riconnettere il partito alla società vuol dire anche questo. Mischiarsi e rimescolare, non separando e mettendo barriere. Vuol dire uscire dai palazzi e dai circoli nautici. Possibilmente togliendosi la molletta dal naso.
Il Fatto 10.3.18
Governo Pd-5stelle per la Costituzione
di Salvatore Settis
È tempo di ipotesi di governo, e dunque è tempo di appelli. Per esempio: “Cari amici del Movimento 5 Stelle, una grande occasione si apre, con la vostra vittoria alle elezioni, di cambiare dalle fondamenta il sistema politico in Italia e anche in Europa. Ma si apre ora, qui e subito. E si apre in questa democrazia, dove è sperabile che nessuna formazione raggiunga, da sola, il 100 per cento dei voti. Nessuno può avere la certezza che l’occasione si ripresenti nel futuro. Non potete aspettare di divenire ancora più forti di quel che già siete, perché gli italiani che vi hanno votato vi hanno anche chiamato: esigono alcuni risultati molto concreti, nell’immediato, che concernano lo Stato di diritto, l’economia e l’Europa. (…) Avete detto: ‘Lo Stato siamo noi’. Avete svegliato in Italia una cittadinanza che vuole essere attiva e contare, non più delegando ai partiti tradizionali le proprie aspirazioni. Vale per voi, per noi tutti, la parola con cui questa cittadinanza attiva si è alzata e ha cominciato a camminare: ‘Se non ora, quando?’.
Sembra scritto ieri, questo appello; e invece fu lanciato il 9 marzo 2013, a firma di Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Tomaso Montanari, Antonio Padoa-Schioppa, Salvatore Settis, Barbara Spinelli. E il giorno dopo Michele Serra lanciava un appello assai simile, firmato da alcune delle stesse persone (fra gli altri, anche don Gallo, don Ciotti, Carlin Petrini, Saviano).
In questo Paese distratto e smemorato, richiamare quegli appelli non è vano esercizio archivistico. È, anzi, consapevole scelta politica, e per almeno due ragioni. Prima di tutto: se le stesse identiche parole ci appaiono ancora attualissime, tant’è vero che vengono ripetute oggi in coro da molti, vuol dire che abbiamo perso cinque anni di vita. Un’intera legislatura gettata al macero inseguendo una riforma costituzionale scritta non coi piedi ma con le zampe, una fallimentare retorica delle riforme, due leggi elettorali sgangherate, l’egolatria di un bulletto di periferia, l’ostinata occupazione di posizioni di potere. Ma la seconda ragione è ancor più importante: se i nostri appelli fossero stati accolti allora (marzo 2013), si sarebbe creata un’alleanza tra Cinque Stelle e Pd, magari solo sperimentale e di scopo, e forse con una scia di malumori e abbandoni. Ma un governo di tale assetto, cinque anni fa, poteva significare generosità e coraggio politico-istituzionale, lungimiranza, cura e passione per la fabbrica sociale, visione del futuro, volontà di indicare ai cittadini un traguardo. Poteva voler dire fiducia nella Costituzione e nelle istituzioni, ma anche in se stessi: nella propria capacità di tenere saldi alcuni punti programmatici pur dovendone negoziare i dettagli con altre forze politiche.
Quell’occasione è persa per sempre. Ma visto che identici appelli risuonano, cinque anni dopo, con le stesse parole e rivolte agli stessi interlocutori (coi Cinque Stelle in ancor più chiara posizione di forza e il Pd in fase di suicidio assistito), possiamo ritrovare domani, in quanto comunità di cittadini, lo stesso slancio e lo stesso ottimismo che nel 2013 furono spenti da paure, miopie, sospetti, insicurezze? Chi ancora lo crede possibile non deve illudersi che sia facile. Il rischio che oggi corriamo non è che si ripetano i falsi movimenti del 2013 (raccontarli sarebbe deprimente). Il rischio è che il tunnel dorato delle manovre istituzionali e del galateo parlamentare contagi chi vi entra adesso dopo tanto lunga esitazione. Che i negoziati per la formazione del nuovo governo prendano la strada di una burocrazia cerimoniale, buona per tranquillizzare l’esercito dei benpensanti ma non per offrire all’Italia un progetto per il futuro.
Cinque anni dopo, è ancor più necessario far balenare un prossimo orizzonte in cui si assicuri ai giovani un lavoro, al nostro suolo martoriato un riscatto, alla sanità e alla spesa sociale un’inversione di marcia, alla scuola e alla cultura la priorità che meritano nell’interesse delle nuove generazioni, alle città storiche la tutela del loro dna, ai cittadini investimenti pubblici che inneschino creatività.
Questi e altri possibili punti programmatici hanno un nome già pronto, se non vogliamo accecarci per non vederlo: si chiamano, né più né meno, attuazione della Costituzione. Se davvero il referendum del 4 dicembre 2016 è stata la camera di incubazione delle elezioni del 4 marzo, a questa strada non ci sono alternative. Ma nulla garantisce che verrà seguita, se non ci ricordemo che il nostro compito non si esaurisce nella cabina elettorale, ma ci impegna a tenere il fiato sul collo a chi abbiamo eletto.
Corriere 10.3.18
L’intervista di Aldo Cazzullo
D’Alema: «Populisti? No, li vota la sinistra. E il Pd si confronti con M5S»
L’ex premier tra i leader di Liberi e uguali: il centrosinistra veda se è possibile un programma comune. Se Togliatti dialogò con Giannini dell’Uomo qualunque, si può dialogare con Di Maio. Candidarmi è stato un errore
di Aldo Cazzullo
D’Alema, lei disse al Corriere: piuttosto che restare nel Pd, meglio prendere il 3%. È stato accontentato.
«Non sono contento del risultato, ma le ragioni per cui ce ne siamo andati sono le stesse per cui in cinque anni se ne sono andati 2 milioni e mezzo di elettori. Non erano critiche di un gruppetto di rancorosi; era un esame pertinente della situazione. Avevamo ragione».
Non era meglio rimanere nel Pd? Ora ve la giochereste.
«Abbiamo di fronte lo stesso problema: costruire un nuovo centrosinistra. Liberi e uguali può dare un contributo fondamentale».
Perché siete andati così male?
«Pur avendo compreso i motivi del fallimento della politica del Pd, non abbiamo saputo mettere in campo una proposta che ci distinguesse. Siamo apparsi una parte di quel centrosinistra che gli elettori hanno condannato; infatti andiamo bene dove va bene anche il Pd, e andiamo male dove anche il Pd va male. Ci siamo mossi tardi».
Dovevate fare la scissione prima?
«Sì. Ce ne siamo andati poco prima delle elezioni, abbiamo cambiato due simboli — Articolo 1, Mdp, Leu — in pochi mesi. Se lanci un prodotto sul mercato in questo modo, non hai nessuna possibilità di successo. E dovevamo marcare una più netta discontinuità di programma, dare un profilo più chiaro di novità, anche con le candidature».
Compresa la sua.
«Lo riconosco: accettare la candidatura è stato un errore politico. Ma sul piano personale ho fatto quel che mi sentivo: combattere per le cose in cui credo. Ognuno deve seguire il suo demone. Io sono fatto così».
Ora tornerete nel Pd?
«Abbiamo avuto un milione e 100 mila voti: pochi per dire “la sinistra siamo noi”; troppi per dire che abbiamo sbagliato tutto. È un voto militante, appassionato, che non va disperso. Liberi e uguali deve essere la forza propulsiva del nuovo centrosinistra. Ora dobbiamo organizzarci in quel campo, che può tornare a essere competitivo; come dimostra la vittoria di Zingaretti».
Voi il centrosinistra l’avete diviso.
«Il Pd non perde perché c’è Leu; perde perché si è separato dal suo popolo. E la campagna sul voto utile per fermare la destra ha spinto molti verso i 5 Stelle».
Cosa accadrà nel Pd?
«Sono fiducioso che in quel partito maturi la consapevolezza che non si tratta solo di cambiare leader, ma linea politica. La propaganda sulla crescita non ha commosso nessuno: perché l’Italia cresce meno degli altri; e perché la crescita può convivere con l’aumento delle disuguaglianze e della povertà, se non c’è un’azione politica sulla qualità sociale dello sviluppo».
Così hanno vinto i populisti.
«Diffido dell’uso troppo facile di questo termine. Qualcuno ha detto: la sinistra chiama populismo tutto quello che non riesce a capire. Gran parte dell’elettorato dei 5 Stelle viene dalla sinistra. Di fronte alla condizione del Mezzogiorno, tema in questi anni del tutto dimenticato, i 5 Stelle hanno detto: noi diamo un reddito ai poveri e combattiamo i privilegi. Sono le due bandiere della sinistra».
Il reddito di cittadinanza è irrealizzabile.
«Ma se i riformisti rinunciano a dare risposte praticabili a questi temi, qualcuno prende il loro posto. E non puoi dire ai tuoi elettori: siete fascisti, ho una pregiudiziale nei vostri confronti, con voi non parlo. È sbagliato politicamente e culturalmente».
Sta dicendo che la sinistra dovrebbe fare il governo con i grillini?
«Non so se ci siano le condizioni per fare un governo. So che il centrosinistra non può sottrarsi al confronto; ha il dovere di andare a vedere. Nel momento in cui i 5 Stelle passano dalla propaganda elettorale alla responsabilità di governo, dovranno fare una selezione delle priorità dei passi possibili. È una sfida cui io li chiamerei. Se invece tutti si alleano per impedire loro di governare, la prossima volta prendono il 50%».
Renzi esclude alleanze.
«Che senso di responsabilità nazionale è dire “sto all’opposizione”, quando è evidente che non c’è modo di formare un governo? All’opposizione di che? Capisco che Renzi viva una fase di smarrimento; ma la sua posizione non ha senso compiuto. Vogliamo tornare al voto con il Rosatellum? Pensano di essere così furbi da indurre i 5 stelle a fare il governo con la Lega? Mi ricordano Tecoppa: “Fermati, che ti infilzo!”».
L’alternativa sarebbe l’astensione per far nascere un governo di centrodestra.
«Sarebbe un suicidio». Pregiudiziale anti Salvini? «Su Salvini non ho un pregiudizio ma un giudizio: non possiamo avere nulla a che fare con un lepenista. Vorrebbe dire prendere quel che resta della sinistra italiana e consegnarla a Di Maio».
Lei è stato il primo a parlare di governo del presidente. Tutti dentro?
«Semmai tutti fuori. È una soluzione estrema: se non si trova nessuna via, il presidente della Repubblica dà l’incarico a una personalità esterna e chiede a tutti i partiti un atto di responsabilità. Può durare alcuni mesi, il tempo di fare la legge elettorale. Certo se la fanno la Lega e i 5 Stelle le elezioni successive diventano un ballottaggio Salvini-Di Maio; noi possiamo anche non presentare le liste».
Ma alla Lega conviene il turno unico, ai 5 Stelle il doppio turno. Lei quale sistema preferisce?
«Il doppio turno di collegio. In ogni caso, ci troviamo in questa situazione per una legge pessima imposta dal Pd. A maggior ragione il Pd non può disinteressarsi del governo del Paese».
Cosa dovrebbero fare i dirigenti?
«Prendersi un po’ di tempo per riflettere. Ho fiducia che lo faranno: li conosco, li ho visti crescere, è gente di qualità. La crisi non sarà né breve né semplice. Certo non è facile ragionare dopo una mazzata; posso farlo io, che sono persona esperta anche nel prendere botte».
D’Alema rottamato definitivamente?
«Io non sono stato rottamato. Ho scelto di non ricandidarmi quando era segretario Bersani. Stavolta ho sbagliato a cedere. Ma non ci si dimette dalle passioni».
E ora propone il confronto con i 5 Stelle.
«Lì c’è un pezzo del nostro mondo. Il confronto è necessario a verificare la possibilità di avere un programma comune, non demagogico ma in discontinuità con questi anni. Se non le soluzioni, la direzione di marcia dei 5 Stelle è condivisibile: ridurre le disuguaglianze, occuparsi del Mezzogiorno, colpire i privilegi: tutti, non solo quelli dei politici; ce ne sono di assai maggiori. Si tratta anche di capire se i 5 Stelle vogliono davvero governare».
Dialogo, quindi.
«Se Togliatti dialogò con Guglielmo Giannini, il fondatore dell’Uomo Qualunque, il centrosinistra può dialogare con Luigi Di Maio».
Il Fatto 10.3.18
Assalto al Fatto, ma gli elettori Pd vogliono governare coi 5S
Sondaggio contestato - Critiche sui dati dell’Istituto Noto: la base Dem spera in un accordo con Di Maio. Stesse cifre su Youtrend
di Luciano Cerasa
Un sondaggio pubblicato ieri dal nostro giornale ha riscosso molto interesse su Twitter, al punto da far rimanere l’hastag #isondaggidelfatto per diverse ore nella classifica dei primi dieci top trend italiani. Pare che a suscitare tanto successo social sia stato essenzialmente il risultato del sondaggio rivolto a un campione degli elettori del Pd, che alla domanda “con chi fareste un accordo per formare un nuovo governo?” ha risposto (quasi sei su dieci interpellati) “con i Cinque stelle”.
Numeri che hanno il principale difetto, agli occhi della sparuta ma agguerrita tifoseria rimasta dei vertici democratici, di smentire la campagna Twitter #senzadime con cui i dem stanno riempiendo i social network per esprimere contrarietà all’inciucio post-elettorale. Un’analoga rilevazione pubblicata nello stesso giorno dal quotidiano La Stampa, basata su una misteriosa “consultazione segreta” effettuata nel Movimento di Di Maio e che indicava invece una preferenza della base pentastellata per la Lega – evidentemente più funzionale ai desiderata del fortino del Nazareno – non ha suscitato altrettante reazioni indignate, né sul metodo, né sui contenuti.
Di buon mattino si è partiti quindi con l’assalto mediatico al giornale, con commenti all’inizio solo un po’ lividi e grossier . “Il 59% dei sondaggisti del Fatto, è alla ricerca di un nuovo spacciatore” Scrive Stefano. “Secondo #isondaggidelfatto il 59% degli italiani crede che i giornalisti del Fatto siano leggermente faziosi, il restante 41% ne è fermamente convinto!” Afferma Laura. “Il 59% degli italiani ritiene che il FQ dovrebbe ammorbidire la carta onde facilitarne l’uso” scrive Starrynight. “Tranquilli: il 59% dei lettori del Fatto Quotidiano non sa leggere e si lamentano che ci sono poche figure” commenta Ginio. Altre considerazioni incentrate sulle attitudini intellettuali e la qualità materiale dei direttori Marco Travaglio e Peter Gomez e su cosa si “fumerebbero” abitualmente i giornalisti non sono riferibili.
Il vero successo mediatico è stato però decretato dall’arrivo delle prime battute “di genere”. “Il 99% degli intervistati crede si possa usare la trielina come shampoo secco”, “il 59% delle acciughe non vuole finire nelle puntarelle”, “Un sondaggio del Fatto Quotidiano rivela che per il 59% degli italiani gli spaghetti devono bollire almeno per 20 minuti”, “Il 59% degli abitanti del piano di sotto vorrebbe l’abolizione degli zoccoli di legno” e via celiando, seguendo la falsa riga delle metafore di Pierluigi Bersani o della para-saggezza di Osho.
Lasciamo per un momento il web al gioioso fluire del battutismo e ricordiamo, per chi non li avessi letti, i riferimenti scientifici su cui si basa il sondaggio pubblicato ieri dal giornale. La rilevazione è stata realizzata il 7 marzo su un campione di mille persone rappresentativo genericamente della popolazione maggiorenne, dall’Istituto Noto, la società che insieme con l’istituto Piepoli e l’Emg, partecipa al consorzio che ha vinto la gara per realizzare i monitoraggi elettorali della Rai. I risultati del nostro sondaggio verranno pubblicati, come prevede la legge, nel sito ufficiale del governo italiano dedicato ai sondaggi politico-elettorali.
L’orientamento dell’elettorato del Pd, delineato dall’Istituto Noto, viene confermato in queste ore da un’altra rilevazione condotta da Quorum/Youtrend per Avaaz e realizzata ancora tra il 7 e l’8 marzo su un totale di 1013 interviste. Agli interpellati è stato chiesto: “Crede che il Partito democratico dovrebbe appoggiare la creazione di un governo del Movimento 5 stelle per impedire un’alleanza tra M5s e Lega?” Hanno risposto “assolutamente sì” il 24,3% e “probabilmente sì” il 34,8%, pari al 59,1%. “Probabilmente no” il 9,2% e “assolutamente no il 31,7%”. Il Margine di errore statistico è + o – 2,9%.
Alla stessa domanda rivolta agli elettori M5s hanno risposto “assolutamente sì” il 26,3%, “probabilmente sì” il 35,8%, “probabilmente no” il 12,3% e “assolutamente no” il 25,5%. Tra gli elettori LeU si sono trovati assolutamente d’accordo ad appoggiare un governo con i Cinque stelle il 65,7% degli elettori e “probabilmente sì” il 27%.
“Sono risultati che si spiegano facilmente con l’analisi dei flussi elettorali – osserva il sondaggista Antonio Noto – un terzo di coloro che hanno votato Pd nel 2013 si è orientato questa volta ai Cinque stelle, è plausibile pensare che vi sia un’affinità tra i due elettorati, sicuramente molto più spiccata che con Forza Italia e la Lega”.
il manifesto 10.3.18
Caro Renzi, lei e il Pd avete perso credibilità
di Luisella Costamagna
Caro Matteo Renzi, ora che chi la adulava la sbeffeggia, chi le diceva sempre sì le rimprovera perfino i calzini sbagliati, io – che l’ho criticata quando era molto potente, e conosciamo la sua buona disposizione verso le critiche – voglio prenderla sul serio. Per questo le racconto una storia.
Qualche giorno fa, prima del voto, ero al supermercato (glielo consiglio, sa? un bel Supermarket Day la settimana, giusto per vedere i comuni mortali). Arrivo alla cassa e la cassiera, una bella signora sui cinquanta, mi chiede la cortesia di mettere subito tutto sul tapis roulant, aggiungendo: “Scusi, eh, ma sa com’è, dobbiamo fare la cassa veloce”.
Mi affretto, e intanto le domando che diavolo sia la “cassa veloce”. “Dobbiamo battere tutto più in fretta che possiamo”, spiega, “sennò son dolori”. E io: “Ma chi stabilisce la velocità?” “La macchina. Comunica al direttore quanto ci mettiamo”. “Scusi”, domando spiazzata, “ma possono farlo?” “Signora”, mi risponde facendo guizzare fulminea quattro scatole di cibo per i cani sullo scanner, “questi possono fare quello che vogliono. Legale o no, lo fanno”. E qui, caro ex premier, aggiunge il carico da undici: “Dobbiamo dire grazie al nostro amico Renzi e al suo bel Jobs Act!”. Le chiedo se questa cosa faccia parte del controllo a distanza. Risposta esemplare: “Ma che ne so. Io so solo che il mio direttore, il giorno che hanno approvato il Jobs Act, è arrivato qui raggiante e ha detto: ‘Vediamo se alzate ancora la cresta. Mo’ si fa come dico io, perché posso cacciarvi in qualunque momento. Anche senza motivo.’ Capisce perché sto zitta e vado a razzo?” conclude. “Si chiama ricatto”. E aggiunge: “Ah ma adesso almeno so chi votare. Guardi, io sempre a sinistra, ma adesso vado dritta per dritta: Cinque Stelle”.
Ecco perché lei e il suo partito avete perso: perché avete reso possibili cose come questa. Persone – giovani, ma non solo – che vivono sotto ricatto. E considerano il ricatto già qualcosa, perché vuol dire che almeno hanno un lavoro. Persone che all’inizio, nel 2014, quando non la conoscevano e l’hanno vista arrivare a Palazzo Chigi, hanno sperato in quel giovane energico, pieno di entusiasmo, che prometteva miracoli (e dava subito 80 euro). Poi, in breve, hanno capito da che parte stava: Marchionne; babbo Boschi e le banche; Consip; le colazioni con De Benedetti… Le slide della presunta ripresa e delle centinaia di migliaia di posti di lavoro, loro, le hanno vissute sulla pelle.
Con lei, il Pd (pure la sinistra che ha votato troppo) ha perso credibilità: avete scialacquato una cultura, la cui essenza era difendere la signora della cassa, e avete perso credibilità. Che è poi tutto ciò che conta nel rapporto con gli elettori, ben più della stabilità, della governabilità, dell’opinione dei mercati e compagnia bella.
È su quel patto di fiducia con i cittadini che si fonda tutto: lei lo ha infranto più in fretta di chiunque altro. Non è più credibile. Quindi non si dibatta, non cerchi di avvelenare i pozzi per scongiurare un accordo coi 5S, lasci perdere gli hashtag #senzadime (dov’erano in occasione delle alleanze con Berlusconi e Verdini?). Non aggiunga errori a errori, l’unica cosa che ormai le riesce bene.
Un cordiale saluto e, a lei che può permettersela, buona sciata.
Repubblica 10.3.18
Intervista a Gugelmo Epifani
“La sinistra sconfitta? Tutto inizia con la Fornero e con il caos degli esodati”
di Roberto Mania
ROMA «Il divorzio tra la sinistra e quella che un tempo si chiamava la classe operaia si è consumato sulla legge Fornero, sull’aumento dell’età, sugli esodati, sulle condizioni di vita reale dei lavoratori».
Guglielmo Epifani, 68 anni, è stato leader della Cgil, poi segretario del Pd da cui si è staccato per partecipare alla fondazione di Liberi e Uguali.
È stato rieletto in Parlamento grazie alla spartizione dei troppi voti presi dal M5S in Sicilia, uno degli effetti perversi del Rosatellum.
Lei è nei fatti un deputato dei Cinque Stelle?
«No, ovviamente. Ma è vero che sono stato eletto sulla base di una legge fortemente discutibile».
In questo paradosso c’è anche la frattura tra sinistra e ceti popolari che votano per la Lega e - come detto da Susanna Camusso a Repubblica - per il Movimento di Grillo. Non più i partiti della tradizione social-comunista. Come spiega questa frattura?
«Ci sono più fattori da considerare: le trasformazioni tecnologiche, la scomposizione della “mitica” classe operaia, il processo di individualizzazione della società, l’allentamento delle reti sociali. Tutto questo ha reso più fragile intaccandolo profondamente il vecchio rapporto tra la classe lavoratrice in tutte le sue forme e i partiti della sinistra storica. Le ultime elezioni rappresentano lo spaccato più fedele di questa realtà con la sconfitta più netta che la sinistra abbia mai subito».
Ha perso il Pd ma anche per Leu è stato un clamoroso flop.
«Quel che colpisce è la simmetria tra il voto al Pd e quello a Leu: dove va meglio il Pd, va meglio anche Leu; dove il Pd precipita, anche Leu precipita. La sinistra prende i voti nei centri, la Lega e in Cinque Stelle nelle periferie.
Vuol dire che raccogliamo il voto ideale ma non una condizione sociale».
Non crede che sarebbe il caso che la classe dirigente della sinistra, lei compreso, facesse un po’ di autocritica di fronte a questa metamorfosi anziché limitarsi a osservare il fenomeno?
«Un po’ di autocritica sarebbe insufficiente: siamo di fronte alla conclusione di un processo nel quale il senso di responsabilità ha portato la sinistra a prendere decisioni che via via hanno segnato il rapporto con i ceti popolari. Lo spartiacque, a mio avviso, è rappresentato dall’approvazione della legge Fornero, prima ancora che il Jobs Act. È lì che si consuma il divorzio. E non è un caso che sulla legge Fornero, Salvini vi abbia costruito la sua campagna elettorale mentre la questione del lavoro è rimasta ai margini delle disputa. È stato, quello della legge Fornero, un grave errore perché si è rotto lo schema che teneva insieme il senso di responsabilità, l’appartenenza ideologica e la condizione sociale proprio mentre si affievoliva il rapporto tra i ceti popolari e le reti sociali».
All’epoca lei aveva appena lasciato la segreteria della Cgil che si oppose in maniera flebile alla riforma pensionistica, ma un errore che anche lei pensa di aver commesso?
«Mi rimprovero il fatto che, come Cgil, non siamo riusciti a far passare il principio, che pure avevamo proposto a Cisl e Uil, perché si applicasse fin dall’inizio a tutti con la formula pro rata il metodo contributivo per il calcolo della pensione. Si sarebbe evitata l’accusa, fondata, di privilegiare le generazioni più anziane rispetto ai più giovani».
La formazione di Leu non è servita ad attrarre il voto dei lavoratori, si è rivelato una debole aggregazione elettorale, come andrete avanti?
«Adesso comincia il nostro nuovo percorso. Abbiamo preso un milione di voti, non è irrilevante. Daremo il nostro contributo alla rigenerazione di una sinistra ampia che recuperi i suoi valori, la sua identità, il senso dell’appartenenza».
In concreto?
«Mettere in campo un progetto per la riduzione delle disuguaglianze passando dal lavoro e soprattutto dall’occupazione dei giovani. È su questo che si giocherà il processo di rigenerazione della sinistra».
Intanto Claudio Fava, esponente di Leu in Sicilia, le ha chiesto di lasciare il seggio, che ha conquistato grazie al recupero dei voti, alla messinese Maria Flavia Timbro. Lo farà visto che negli altri collegi in cui era capolista non è stato eletto?
«Tutti quelli che con cui ho fatto questa durissima campagna elettorale e che si sono battuti per prendere più voti possibili mi chiedono di restare a rappresentare i problemi del territorio».
Repubblica 10.3.18
L’analisi
La rifondazione della politica
di Guido Crainz
Purtroppo è difficile stupirsi dello scenario che il 4 marzo ha illuminato di luce cruda e che impone riflessioni di lungo periodo, svincolate da tattiche contingenti (e poco realistiche) che rischierebbero di appannarle.
Vi sono infatti alle spalle rovinosi crolli nel rapporto fra i cittadini e il sistema politico con cui non abbiamo fatto realmente i conti: in primo luogo il drammatico affondare della “prima Repubblica” nei primi anni Novanta e – vent’anni dopo – l’inglorioso tracollo di una stagione berlusconiana che a una larga parte del Paese era sembrata una risposta convincente a quel trauma. Certo, essa impastava fraudolentemente corde vecchie e nuove: dall’antistatalismo alle mai morte culture dell’antipolitica; dall’illusionismo dei “miracoli” agli umori fermentati nella “ mutazione antropologica” degli anni Ottanta e nella crisi dei partiti novecenteschi.
A suo modo però proponeva “un sogno”, invadendo un campo tradizionalmente occupato dalla sinistra: un nefasto inganno, ma solo la crisi economica internazionale ne mostrò la vera miseria e il vero volto. E lo travolse nel 2011, lasciando inaspriti e sperduti milioni di italiani che nell’illusionismo berlusconiano avevano pur creduto: trovò meno anticorpi allora quella “società del rancore” che si era già delineata vent’anni prima.
Nell’ulteriore precipitare della credibilità dei partiti tenne il campo per un attimo la speranza nel “ governo dei tecnici” di Mario Monti: inizialmente popolare, va ricordato, ma travolto poi anche dai suoi errori. Potè irrompere definitivamente allora in Sicilia il ciclone a Cinque stelle, che si affermò a livello nazionale anche grazie alla afasia del Pd di Bersani. E che fu frenato solo per breve tempo dall’illusione – questo si è rivelata – del Pd di Renzi e dal suo trionfo alle Europee del 2014. Un trionfo travolto presto nei suoi due cardini: il disatteso impegno a rinnovare radicalmente la politica e una visione del futuro che rimuoveva l’asprezza della crisi. Fu traumatico il primo versante, con un partito abbandonato a se stesso e non di rado, soprattutto nel Mezzogiorno, a potentati locali ben poco virtuosi: per questa via il Pd ha perso molte elezioni amministrative ancor prima del loro svolgersi, incapace di proporre una classe dirigente degna di questo nome. Ed è stato al tempo stesso letale il contrasto fra l’otti-mismo volontarista della narrazione renziana e la realtà di un paese duramente piagato.
Alle spalle del 4 marzo vi sono dunque crolli rovinosi che vengono da lontano. E non c’è da chiedersi solo quali disastri provocheranno i due vincitori di oggi ma anche quali saranno gli effetti di quei disastri sul modo di essere del Paese. Sulle sue disillusioni e sui suoi rancori. Senza dimenticare altre inquietudini che il voto ci lascia: gli elettori hanno considerato del tutto irrilevante, ad esempio, la capacità del centrosinistra di accompagnarci, sia pur faticosamente, fuori da un buio tunnel. E lo straordinario successo grillino nel Mezzogiorno andrà analizzato davvero in profondità, risalendo anche qui molto all’indietro.
Sullo sfondo, ineludibili, le domande centrali: che Paese siamo diventati, all’uscita da una crisi che ha reso dolente ogni nervo del nostro corpo sociale? Quale idea di futuro porre al centro del nostro agire collettivo? E come rimodellare un soggetto politico riformatore capace di misurarsi con questi nodi? Nessuna strategia sarà mai credibile infatti se non vi sarà una rifondazione radicale della politica, trasparente e convincente nei suoi contenuti e nei suoi attori: questa è la prima rivoluzione culturale cui la sinistra è chiamata. Se ne è ancora capace e se basterà.
Repubblica 10.3.18
Il cantiere della sinistra
Decidere se e con quale diavolo scendere a patti non è la priorità
Bisogna prima rispondere alla domanda: cosa deve essere la sinistra
di Massimo Giannini
Forse c’è ancora un po’ di luce, nell’ora più buia della sinistra italiana. Se dopo Di Maio anche Salvini chiede una sponda al Pd, allora non tutto è perduto. C’è ancora spazio per la politica, ammesso che lo si voglia occupare.
Cinque giorni dopo lo tsunami elettorale, i “due vincitori” (come Aldo Moro definì Dc e Pci dopo il voto del ’76 che anticipò il governo della “non sfiducia”) si rendono conto di non bastare a se stessi. E a meno che non si uniscano nell’improbabile “coalizione dei populisti” suggerita da Steve Bannon, principe delle tenebre di Trump, M5S e Lega per governare hanno bisogno dello sconfitto. La cui “utilità marginale”, per paradosso, cresce oltremisura.
In fondo al pozzo nero della peggior disfatta della Storia, questa consapevolezza dovrebbe convincere i democratici che la risalita è possibile. Purché sappiano definire priorità e responsabilità. E purché sappiano guardare a un orizzonte più vasto e più lontano. Decidere subito se e con quale diavolo scendere a patti non è “la” priorità.
È stata un’abile arma di distrazione di massa, usata da Renzi per non guardare nell’abisso della sconfitta e far sfogare su altro la delusione delle truppe.
E invece è proprio da qui che bisogna ripartire. Perché il Pd è scomparso dall’Italia gialloblù raccontata da Ilvo Diamanti? Perché ha bruciato 5 milioni di voti dalle europee 2014, cedendone 1,8 milioni a M5S e 900 mila al centrodestra? Cos’ha saputo opporre alla flat tax e all’istanza securitaria che ha fatto volare Salvini al Nord e al reddito di cittadinanza e all’emergenza legalitaria che ha fatto esplodere Di Maio al Sud? Puoi proporre i pochi spiccioli del Reddito di inclusione a 6,5 milioni di poveri? Puoi smerciare le finte garanzie del Jobs Act a 3,5 milioni di giovani precari?
La lista delle domande è infinita. Fino ad arrivare a quelle cruciali: cosa deve essere “ sinistra” in questa Europa smarrita, come può predicare la faccia buona della globalizzazione senza abdicare alla protezione, lottare contro le disuguaglianze senza rinunciare al merito, combattere i populismi senza erigersi a oligarchia. Se questa è la priorità, un minuto dopo arriva la responsabilità, che si declina in due modi.
In primo luogo c’è la leadership. È chiaro che quella di Renzi è ormai esaurita. Ma è altrettanto chiaro che scaricare le coscienze e le colpe sull’apposito segretario è pura vigliaccheria. Domenica scorsa non è caduto solo Renzi, che ha trasformato una grande speranza in una gigantesca delusione. Con lui ha fallito un intera classe dirigente. La maggioranza, che ha assecondato bullismi e tollerato Gigli Magici. La minoranza, che ha borbottato senza mai offrire uno straccio di alternativa. Gli scissionisti, che invece di cacciare la mucca dal corridoio sono scappati di casa. Ora è giusto che la scelta del nuovo segretario passi dal popolo delle primarie: le urne hanno confermato quanto sia drammatico lo strappo tra gli apparatciki in grisaglia che vivono nei talk show e gli italiani in carne ed ossa che campano nei disagi.
In secondo luogo c’è la governabilità. Mattarella chiede a tutti di guardare « all’interesse generale del Paese e dei suoi cittadini » . Cosa deve rispondere il Pd? Dopo Berlusconi, Alfano e Verdini, qui ed ora non c’è nessun altro rospo da baciare, per trasformare in premier il giovane Forlani pentastellato o il tribuno in felpa verde. Come hanno scritto prima Ezio Mauro e poi Mario Calabresi, c’è invece un’irriducibile incompatibilità politico-culturale che assegna alla sinistra il posto dove stare, l’opposizione “ con la propria gente e con le proprie idee”. Nonostante i suoi sforzi per “costituzionalizzarsi”, i suggestivi paradossi di Eugenio Scalfari e Domenico De Masi ( che lo descrive come «una forza ormai socialdemocratica») quello di Grillo e Casaleggio resta un movimento pre- politico e anti- politico, il cui obiettivo è superare la democrazia rappresentativa con una piattaforma ibrida e post- ideologica.
Dunque, non ci sono né ci saranno inciuci da fare o poltrone da spartire. Ma il percorso verso la governabilità sarà lungo. E se nel frattempo saprà avviare la sua ricostruzione, il Pd dovrà affrontarlo a viso aperto. Nel febbraio ‘ 78 Moro scriveva: « Con la Dc convinta e solida, anche il contatto, che si sta rivelando necessario nella situazione attuale, con il partito comunista, non dovrebbe fare tanta paura » . La stessa cosa dovrebbe valere oggi per la sinistra rifondata, che non dovrebbe temere comunque di mettersi in gioco (a partire dall’elezione dei presidenti di Camera e Senato). Senza inseguire i “ casti connubi” tra Dc e Psi degli anni 60, ma neanche ridursi al ruolo del Ghino di Tacco craxiano degli anni Ottanta.
Potrà venire il momento in cui Di Maio, dismessa l’armatura del trionfatore e la postura del ricattatore, sarà costretto ad offrire un patto. Per ridurre il “danno maggiore” (governo Di Maio-Salvini) o il “danno minore” ( nuovo ritorno alle urne) la sinistra potrà anche sedersi a un tavolo, magari in streaming, e non col cappello in mano ma sfidando i grillini. Provando a rendere meno scellerato quel patto. Ponendo le sue condizioni. Fedeltà totale alla Ue, rispetto dei Trattati e impegno assoluto a non eluderli in modo unilaterale, correzione del reddito di cittadinanza, ius soli, riforma elettorale maggioritaria. Pochi punti irrinunciabili, appoggio esterno e a tempo, poi di nuovo al voto e nemici come prima. Se Di Maio non ci stesse, si assumerebbe la responsabilità della rottura. Ma almeno il Pd avrebbe fatto fino in fondo la sua parte, e riscoperto le ragioni politiche per esistere e per resistere.
Il Fatto 10.3.18
Reddito di cittadinanza. Costi e sfide del piano M5S
L’assalto ai Caf dopo il voto era una bufala
di Stefano Feltri
La notizia dell’assalto ai Centri di assistenza fiscale (Caf) per chiedere i moduli per il reddito di cittadinanza all’indomani delle elezioni era falsa. Come ha ricostruito il sito Valigia Blu, l’articolo della Gazzetta del Mezzogiorno era infondato: l’assalto dei questuanti a Giovinazzo erano in realtà “4-5 persone”, ha chiarito il sindaco del Comune vicino Bari. Ma a livello nazionale c’è solo un aumento di richieste ai Caf di calcolo dell’Isee, l’indicatore reddituale e patrimoniale che è uno dei parametri previsti dal disegno di legge del Movimento Cinque Stelle che giace al Senato dal 2013, la proposta di introdurre un reddito di cittadinanza (in realtà riguarda chi è sotto la soglia di povertà relativa e non l’intera cittadinanza). L’interesse sul tema è alto, come dimostrano le ricerche su Google e il picco di ascolti dei talk show che ne discutono. Vediamo allora se e quanto è realizzabile.
L’INTERVENTO. Il progetto M5S prevede di integrare il reddito di ogni italiano sotto i 780 euro fino a quella soglia. Chi è senza reddito riceve 780 euro, chi ne prende già 700, per esempio, soltanto 80. In media il trasferimento dovrebbe essere 480 euro a famiglia (dice Istat). Due genitori a zero reddito e con due figli a carico ricevono 1663 euro. Secondo i Cinque Stelle, coprire l’intera platea di beneficiari potenziali (5 milioni di famiglie, 10 milioni di persone) costa 15 miliardi, secondo Inps e LaVoce.info 29: i 15 miliardi derivano da simulazioni Istat che attribuiscono alle famiglie proprietarie di casa un reddito fittizio equivalente all’affitto che potrebbero incassare dall’immobile, così da equiparare proprietari e inquilini. Ma i proprietari di casa senza reddito nello schema del M5S avrebbero comunque diritto al sussidio. Introdurre subito il reddito per tutti è impossibile, si può invece procedere per gradi, allargando la platea di beneficiari progressivamente come sta facendo il governo Gentiloni con il Reddito di inclusione (Rei) che nel 2018 arriverà a coprire 700mila famiglie in povertà assoluta per un costo di 2 miliardi e un sussidio medio di 240 euro.
LE COPERTURE. In campagna elettorale i Cinque Stelle hanno indicato le seguenti fonti di risorse: taglio 5 miliardi di agevolazioni fiscali e 2,5 miliardi di non meglio precisati “tagli agli sprechi”, in totale 7,5 miliardi. Il resto sarebbe finanziato in deficit, con il permesso della Commissione europea grazie a un trucco contabile: i beneficiari del reddito di cittadinanza risulterebbero tutti disoccupati, mentre molti oggi sono classificati come inattivi. Un tasso di disoccupazione più alto, secondo i parametri Ue, consente di fare più deficit. Ma questo approccio non è mai stato validato da Bruxelles e il suo corollario – il deficit poi si riduce progressivamente grazie all’aumento del Pil innescato dal sussidio – è tutto da dimostrare. Nel disegno di legge 2013 erano indicate altre coperture, poi aggiornate, non molto dettagliate (esempio: 2,5 miliardi “centralizzando gli acquisti della pubblica amministrazione”) o quasi impossibili da ottenere dal governo (taglio degli stipendi dei Parlamentari, di competenza delle Camere, risparmio su organi costituzionali). In un approccio graduale, però, le coperture non sono il punto decisivo: si assegna il reddito a una platea compatibile con le risorse disponibili.
ASSISTENZIALISMO? Il reddito di cittadinanza è legato alla ricerca attiva di un lavoro, non è un sussidio di mera assistenza. Il piano si regge sui centri per l’impiego che devono aiutare i disoccupati a trovare lavoro. Oggi hanno un organico di 6.000 persone contro le 80.000 della Germania, Paese di riferimento per le “politiche attive” del lavoro. I Cinque Stelle vogliono investire 2 miliardi di euro per potenziarli, da aggiungere al costo complessivo del reddito. Ma questo ridurrebbe di poco il divario con la Germania: nel 2015 l’Italia investiva in politiche attive 752 milioni l’anno, la Germania 11 miliardi (dati Adapt). Chi beneficia del reddito non può rifiutare più di tre offerte di lavoro, ma se i centri per l’impiego sono poco efficienti (fino a 24 mesi solo per valutare un profilo) o non hanno offerte di lavoro adeguate da sottoporre, il disoccupato riceverà il sussidio per anni prima di ricevere una proposta di impiego. E molti dei potenziali beneficiari oggi sono completamente fuori dal mercato del lavoro: casalinghe, giovani senza qualifiche, disoccupati di lunga data. Vanno riattivati grazie a progetti di “agenzie formative accreditate” pagate dallo Stato ma autonome che dovrebbero rendere i lavoratori adatti alle richieste delle aziende. Un tentativo dai risultati incerti, soprattutto nei territori più depressi dove ci sono poche opportunità. Il flop dell’assegno di ricollocazione – solo 3.000 su 30.000 aventi diritto hanno usufruito del sussidio e del programma personalizzato per riqualificarsi – dimostra che non basta lanciare una misura per assicurarsi che funzioni.
RIFORME. Come si vede con il Reddito di inclusione (Rei), una delle sfide è poi il coordinamento tra le varie amministrazioni coinvolte: erogare un sussidio condizionato significa coordinare l’Inps che gestisce i soldi, le Poste che erogano le carte di pagamento o i contanti, i Comuni che gestiscono assistenti sociali e verificano i requisiti, l’agenzia per le politiche attive (Anpal), l’Inapp che monitora i risultati, i centri per l’impiego, le agenzie di formazione. Uno sforzo titanico che dovrebbe combinarsi alla riforma degli altri sussidi e ammortizzatori sociali per evitare duplicati e ridondanze. Ma Luigi Di Maio, al Mattino, ha dichiarato che “in una prima fase il reddito di cittadinanza procederà su un binario separato, l’obiettivo finale, che sarà raggiunto per gradi, è però il superamento degli attuali ammortizzatori sociali”. E questo aumenta la necessità di risorse finanziarie.
La Stampa 10.3.18
Latouche: “Sono solo facili illusioni”
Il teorico della decrescita: “Proposta incompatibile col nostro tipo di società”
di Emanuela Minucci
«Ancora con questa storia della decrescita felice? In Italia vi innamorate delle definizioni orecchiabili, io ho sempre detto serena, sostenibile», premette Serge Latouche, filosofo ed economista francese, teorico della società della decrescita, tra gli stand della fiera “Tempo di libri” di Milano dove è arrivato per parlare dell’ultima collana di saggi editi da Jaca Book. Poi, passando dai grandi precursori del suo pensiero, da Tolstoj a Roegen, arriva al dibattito post elettorale italiano.
Professore, che cosa pensa di quel reddito di cittadinanza che è fra le principali ragioni del successo elettorale del Movimento 5 Stelle?
«La trovo semplicemente provocatoria. Non c’è nulla di male in questo: è stata una proposta politica che ha ottenuto successo, ma sarebbe sbagliato non chiarire che parte da presupposti provocatori».
Quali?
«Il reddito di cittadinanza è semplicemente incompatibile con questa società, che predica la crescita, l’imprenditorialità, il lavoro che fa business, il sistema del più lavori più produci più guadagni più realizzi. Se invece ipotizzi un reddito di cittadinanza nella decrescita, questo diventa ancora più surreale, perché non ce ne sarebbe bisogno».
Detto ciò in Italia, questa promessa ha - ed è fuori di dubbio - procurato un consenso mai visto al movimento ideato da Beppe Grillo. Secondo lei che cosa significa, al di là del fatto che povertà e disoccupazione sono una realtà con cui bisogna fare i conti?
«L’ipotesi del reddito garantito, del reddito facile è un sogno che crea facili illusioni. Prima di tutto perché si tratterà di un argent de poche, perché con l’attuale situazione economica non si potrà certo garantire un lauto stipendio a milioni di persone. Insomma, è stata una proposta seducente, ma dal potere effimero e non risolutivo in termini occupazionali e di benessere di lunga durata”.
Ma questi, professore, non sarebbero temi di cui si sarebbe dovuta occupare la sinistra?
«Quale sinistra? Lei vede una sinistra vera in Italia? Il Partito democratico, per esempio, si è sciolto come neve al sole».
Sì, ma è nato un nuovo partito, “Liberi e Uguali” che a suo modo aveva proposto come i 5 stelle un reddito di dignità. Come mai la sinistra scissionista non è stata premiata dalle urne, pur usando argomenti simili a quelli usati dai grillini?
«Come le ho detto, so che può sembrare un concetto forte, ma in Italia la sinistra non esiste più».
Vie di uscita?
«Lo dico da molti anni, affrancarsi dal dominio dell’economia attraverso una rifondazione culturale profonda, fondata sulla limitazione dei bisogni. Questa, anche se può sembrare un processo faticoso, è la premessa della vera svolta».
La Stampa 10.3.18
Il Pd rinuncia alle primarie. Leader scelto dalle correnti
Segretario eletto in assemblea: in pole Delrio, Zingaretti in pista nel 2019
di Carlo Bertini
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Il Fatto 10.3.18
Centinaia di migliaia senza vaccinazioni tra i banchi di scuola
Scade il termine - Ultimo giorno per presentare almeno la richiesta: “30 mila non in regola alle materne”. Ma gli under 16 sono molti di più
di Virginia Della Sala
La scadenza è arrivata: oggi è l’ultimo giorno a disposizione dei genitori per presentare a scuola la documentazione che certifica la vaccinazione dei propri figli o quanto meno la prenotazione della seduta, come stabilito dal decreto vaccini voluto dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin a luglio che ha reso obbligatori dieci vaccini, pena l’esclusione dalla scuola per i nidi e le materne e una sanzione pecuniaria (da 100 a 500 euro) per la scuola dell’obbligo.
Un decreto urgente: eppure, stando alle cifre che emergono da una prima ricognizione e da stime ufficiali, dopo sette mesi centinaia di migliaia tra bambini e ragazzi non risultano ancora in regola.
Il dato nazionale. Il primo a fornire una prospettiva unitaria, ieri, è stato Carlo Signorelli, ex presidente della Società italiana di Igiene: “Potrebbero essere circa 30 mila i bambini sotto i sei anni non in regola con la documentazione per le vaccinazioni “, ha detto. Il calcolo parte dai 120 mila bambini in arretrato nelle coorti 2011-2015, quelli calcolati dal ministero della Salute quando è stata approvata la legge. “Di questi – spiega Signorelli – circa un terzo era già stato recuperato a ottobre 2017, e si può stimare che ancora circa 30mila non siano in regola”.
Il dato è comunque parziale e fa riferimento ai soli bambini delle scuole materne. Nella sola Milano, sono almeno 6.320 gli inadempienti (parzialmente o per la totalità dei vaccini obbligatori). Si tratta del 29 per cento di quanti erano a luglio (8860) ma secondo quanto riferito ieri dal vicesindaco della città, solo 40 di questi potrebbero davvero sottrarsi al vaccino. Significherebbe, quindi, che tutti gli altri sono semplicemente in attesa di concludere la prassi ospedaliera, ovvero hanno prenotato e devono materialmente sottoporsi al vaccino. Per la scuola dell’obbligo, invece, sono 23.645 gli studenti inadempienti.
A Bologna, gli studenti al di sotto dei 16 anni che non sono ancora in regola con le vaccinazioni sono 5.500 (su 11.400 che non erano in regola inizialmente ). Di questi, circa 2mila rientrano nella fascia 0-5 anni: a loro sono state inviate le raccomandate con la data della seduta vaccinale, che sarà compresa nel periodo che va dal 2 maggio alla fine di giugno.
“Se entro il 10 luglio non si vaccineranno – ha detto Paolo Pandolfi, il responsabile dell’Ausl di Bologna nei giorni scorsi – , non potranno iscriversi al prossimo anno scolastico perché quella è la scadenza per presentare la certificazione”.
Le regioni dotate di anagrafe vaccinale hanno invece termini un po’ più lunghi: le Asl infatti hanno il compito di inviare gli elenchi dei bambini controllati a tutte le scuole (e non il contrario, quindi) e da quel momento entro dieci giorni le scuole devono contattare i genitori degli studenti non in regola per capire quale sia il motivo. Entro dieci giorni dalla comunicazione, poi, il genitore deve eventualmente produrre la documentazione o chiarire il perché del mancato vaccino.
Vale anche per il Lazio: in assenza di dati precisi, si sa per il momento che almeno il 97 per cento dei bambini risulterebbe vaccinato. Ci sono poi diversi dissensi definitivi, dichiarati dai genitori: sono 26 per l’esavalente, 33 per il quadrivalente (tutti nella fascia di età compresa tra zero e due anni).
In Piemonte, dove c’è l’anagrafe vaccinale, il termine per la presentazione dei certificati slitterà a fine marzo. Secondo i dati diffusi ieri e pubblicati da La Stampa, sarebbero almeno 40mila gli studenti non in regola, di cui 1200 nella fascia 0-5 anni. In Toscana, al 28 febbraio, risultavano invece 120.258 bambini e ragazzi non in regola, di cui 13.434 nella fascia 0-6 anni. La Regione ha fatto sapere che saranno sospesi da nidi e scuole materne i bambini che non si metteranno in regola entro dieci giorni. Pochi e meno precisi i dati della regioni del sud, dalla Puglia (che comunica una copertura sopra il 92%) alla Campania dove il dato napoletano parla solo di circa 80mila studenti vaccinati.
Corriere 10.3.18
Niger, lo stallo della missione italiana Nuovo stop da parte di due ministri
Inviati 40 specialisti per la ricognizione, ma il contingente è bloccato. I soldati dovrebbero essere impiegati contro l’immigrazione clandestina e il terrorismo
di Fiorenza Sarzanini
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Corriere 10.3.18
Migranti, nella Ue riparte la sfida
Il muro di Orban contro Roma
Stretta nel negoziato sugli accordi di Dublino. le critiche dei Paesi del Nord
di Federico Fubini
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Il Fatto 10.3.18
La coscienza di Varsavia tra aborto e purghe rosse
Dalle donne alle scuse per la cacciata degli ebrei nel ‘68: i polacchi fanno i conti con il presente e il passato
La coscienza di Varsavia tra aborto e purghe rosse
di Michela A.G. Iaccarino
Banco, rosso, nero. Sono i colori di questo lungo marzo polacco. Alla stazione di Varsavia il presidente Andrzej Duda ha chinato la testa, tra soldati dritti come i loro fucili neri, in cappotti verdi, nasi all’insù su volti pallidi. La Polonia ha ricordato due giorni fa “l’atto vergognoso” commesso esattamente mezzo secolo fa: 15mila ebrei furono cacciati dal paese dalle autorità comuniste. “Vogliamo chiedere scusa a chi è stato espulso allora, attraverso le mie labbra”, ha detto Duda, “la Polonia sta chiedendo perdono”.
Folla in centro, all’università di Varsavia. Cancello nero, stemma dorato. Le rose e le teste sono tutte bianche. I fiori stanno tra i palmi anziani di quelli che erano giovani allora, nel marzo 1968, quando l’opera del poeta Adam Mickiewicz, “Dziady”, gli antenati, doveva andare in scena al Teatro nazionale: narrava dell’insurrezione polacca anti-russa del 1830, di quella Polonia “redentrice d’Europa”, del destino messianico degli slavi dell’ovest. I sovietici decisero di censurarla e gli studenti, spontaneamente, di scendere in strada, a protestare. Finì in rosso: sangue. Quella lotta studentesca diventò l’alibi della repressione antisemita: molti leader degli studenti, professori compresi, erano ebrei, “traditori sionisti” da cacciare dal paese, secondo il generale Mieczyslaw Moszar, all’epoca ministro degli Interni.
Per un passato tornato improvvisamente presente, in continua fase di riscrittura, oggi la Polonia ricorda quella purga comunista, meno conosciuta di quella nazista, a capo chino, ma per il resto alza la testa. I polacchi “non sono stati complici, ma solo vittime del nazismo”.
La cosiddetta “legge sull’Olocausto” qui è entrata in vigore da una settimana tra controversie e ripercussioni internazionali: adesso chiunque associ la Polonia allo sterminio degli ebrei, chiunque definisca i campi di concentramento “polacchi” o accusi la nazione di complicità con i crimini nazisti, può finire in prigione fino a 3 anni. È l’ultima legge firmata dal presidente Duda, dopo quella del 20 dicembre scorso, una riforma che annulla l’indipendenza giudiziaria, la separazione dei poteri, cancella l’autonomia dei magistrati, permette al governo di sostituire a piacimento i giudici della Corte Suprema.
Nessun turbamento all’interno, molti all’estero: per le tensioni diplomatiche il capo del personale di Duda, Krzysztof Szczerski, volerà a Washington per incontrare un omologo al dipartimento di Stato americano. Dopo le accuse di antisemitismo israeliane, le ire di Bruxelles e il Parlamento europeo che ha votato per far entrare in vigore l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, – l’“opzione nucleare” che toglierà a Varsavia il diritto di voto nelle istituzioni europee -, c’è la rabbia d’America. Intanto in tv nei bar c’è il premier Morawiecki che stringe la mano al presidente della Commissione europea, Juncker. Dietro di loro c’è lo sfondo blu a stelle dorate, quella bandiera che a Varsavia si vede solo sui cartelli delle opere in costruzione, finanziate da un’Unione che ai polacchi sembra piacere sempre meno.
La storia di ieri, scolpita nella pietra dei monumenti, la cronaca oggi, a cui è riservato poco inchiostro sui giornali. E un’ultima legge. Le donne della Czarny protest, la protesta nera, contro le ultime restrizioni che vieteranno completamente l’aborto, hanno marciato nero-vestite da Plac Konstituzii fino alla Sejm, la Camera bassa, con due enormi lettere: PW. La “Powstanie Warszawskie”, la rivolta di Varsavia. Non quella del 1944, quella del 2018.
La Stampa 10.3.18
Per fare la pace in Medio Oriente dobbiamo scendere al centro della Terra
“Non ne posso più che israeliani e palestinesi si facciano la guerra: e nel mio romanzo c’è una soluzione per superare l’odio con la fantasia”
di Gianni Riotta
qui
La Stampa 10.3.18
L’Avana
Cuba, Raul non si ricandida
Ultime elezioni dell’era Castro
Otto milioni di cubani sono chiamati alle urne domani per eleggere i 605 deputati dell’Assemblea Nazionale, passo iniziale per arrivare alla scelta di un nuovo presidente. Per prima volta dal 1976 non sarà un Castro: Raul, attuale capo di Stato e fratello di Fidel, ha annunciato che non si candiderà alla rielezione.
Dato che il Partito comunista cubano (Pcc) è l’unico legale nell’isola, a Cuba non ci sono né campagna elettorale né candidati in concorrenza per farsi eleggere dai loro concittadini. Il processo elettorale, invece, è iniziato con una fase di dibattito a livello della base - quartieri, fabbriche, istituzioni - durante il quale, nel novembre scorso, sono stati eletti 11.415 delegati, che a loro volta hanno scelto i candidati al Parlamento unicamerale. Domenica, dunque, i cubani voteranno per una lista unica di candidati, che saranno tutti eletti se ottengono almeno il 50% dei voti. L’Assemblea Nazionale dovrà poi eleggere il Consiglio di Stato, che a sua volta sceglierà il nuovo presidente. Per l’assenza di una campagna elettorale è impossibile stabilire chi sia il candidato con più chance di essere scelto come capo di Stato, ma gli analisti danno quasi per certa l’elezione di Miguel Diaz-Canel (58 anni), attualmente primo vicepresidente del Consiglio di Stato e del Consiglio dei ministri - i due incarichi immediatamente inferiori a quelli di Raul Castro.
Repubblica 10.3.18
Alla ricerca di un mistero perduto
Milano-Africa, caccia al tesoro di Rimbaud
d Edgardo Franzosini
Per avere qualche probabilità di ritrovare delle tracce concrete, tangibili, che testimonino il passaggio e il soggiorno dell’“angelo in esilio” Rimbaud a Milano, magari proprio quella copia della Saison en Enfer data alla signora, o magari una qualsiasi altra reliquia per quanto piccola, bisognerebbe avere forse la stessa caparbietà, la stessa ostinazione di Paul Boens.
Boens è un belga che è stato un tempo istruttore di scuola guida. Da qualche anno ha abbandonato questa attività e si è dedicato interamente, con una dedizione ingenua e irremovibile, alla ricerca dell’oro di Rimbaud.
Ricerca che fino ad ora, a dire la verità, si è dimostrata inutile.
Dopo aver acquistato quel che era rimasto della fattoria dei Rimbaud a Roche (questo luogo come ha detto bene Julien Gracq “totalmente insignificante”), Boens ha iniziato a scavare, prima con il badile, poi pare con una scavatrice meccanica, nella certezza di ritrovare prima o poi quei sedicimila e rotti franchi-oro che Rimbaud avrebbe portato con sé dall’Abissinia (li teneva nascosti dentro la cintura, pesavano otto chili e gli fecero venire un po’ di dissenteria, tutti particolari che qualcuno commenterà in questo modo: «Era diventato avaro come la madre»).
Ma il “tesoro” milanese di Rimbaud in cosa potrebbe consistere? Forse nel letto dove ha dormito, nelle stoviglie o nelle posate che ha usato. Forse nella sedia o nella poltrona in cui si sarà seduto, o nei mobili che avrà toccato. Mobili che avrebbero potuto forse ispirargli dei versi – come è accaduto per «l’ampia credenza scolpita… dalle grandi porte nere», che Rimbaud vide a casa del suo compagno di collegio a Charleville Léon Billuart e che gli suggerì un sonetto ( Le buffet), così almeno sostengono i discendenti di Billuart – o mobili sopra i quali dei versi avrebbe potuto scriverli direttamente (se non si fosse già, come sappiamo, stancato della letteratura) come successe sul tavolo di mogano dal piano rotondo di marmo grigio e dal pesante treppiedi che si trovava nel salotto delle sorelle Isabelle, Henriette e Caroline Gindre, le zie di Georges Izambard, e sul quale Arthur ricopiò quell’insieme di poemi che vengono indicati come i Cahiers de Douai. Il mobile, che rimase di proprietà degli Izambard sino al 1979, veniva chiamato in famiglia semplicemente «la table de Rimbaud».
In casa Gindre, ma stavolta direttamente sul legno della porta d’ingresso, Rimbaud scrisse a matita anche un poemetto. Versi che Izambard non si curò di ricopiare, e che scomparvero poco tempo dopo, presumibilmente sotto l’azione della spazzola, e dell’acqua saponata, di una delle sue zie (sul legno di una panchina di un giardino pubblico a Charleville, Rimbaud avrebbe invece scritto o inciso con un coltellino, su questo particolare la testimonianza di Delahaye benché sia diretta è incerta: «Merde à Dieu» o forse – anche qui il ricordo di Delahaye non è preciso – «Mort à Dieu»). Paul Boens, l’uomo che cerca l’“oro di Rimbaud”, ha compiuto gran parte della sua ricerca e scavato con particolare ostinazione nei pressi di un muro – che è tutto ciò che rimane della fattoria di Vitalie Rimbaud a Roche – e attorno a un lavatoio che si trova poco distante. Un cartello turistico collocato di fianco a questo semplice impianto di pietra, coperto da un tetto di legno a spiovente, informa il visitatore che «La frequentazione di questi luoghi avrebbe ispirato Rimbaud». L’iniziativa di collocare il cartello è stata assunta qualche tempo fa dal Conseil général des Ardennes, a seguito della decisione di ricostruire il lavatoio com’era ai tempi di Arthur. Il Conseil ha anche il merito o, per alcuni, la responsabilità, della creazione di una Route Rimbaud Verlaine che, sconfinando in territorio belga, si snoda per circa 200 chilometri da Juniville a Givet.
A Juniville, in fondo a una strada diritta e piuttosto stretta, lungo cui si allineano irregolarmente villette col giardino e case rurali che hanno l’aria di essere state abbandonate per sempre, nel luogo dove una volta sorgeva la locanda Au Lion d’or, c’è oggi il Musée Verlaine. Un tempo c’era la casa in cui Verlaine abitò per qualche tempo (a detta di Mallarmé aveva anche messo a punto un metodo di pronuncia inglese a uso dei francesi basato sull’imitazione del tono gutturale e dell’abitudine che avrebbero gli inglesi a serrare i denti mentre parlano, in una parola sull’imitazione della loro difettosa pronuncia allorché cercano di esprimersi in altre lingue, un esercizio che avrebbe aiutato, secondo Verlaine, i suoi allievi del Collège ad acquisire un corretto accento britannico).
Nelle sale del museo sono esposti alcuni oggetti appartenuti al poeta: un cappello a cilindro, un bastone di bambù, un calamaio, il tavolo su cui Verlaine, guidato, come disse lui stesso, dal «sentimento della propria debolezza», e dopo aver «a lungo errato nella corruzione del tempo», avrebbe scritto le poesie di Sagesse, la riproduzione di un suo ritratto in cui spicca quella sua «testa da scheletro grasso» di cui parla Leconte de Lisle.
Corriere 10.3.18
Rilanciare la chiesa in Cina l’obiettivo di papa Francesco
Il Pontefice sta chiudendo l’annosa questione dei cattolici di Pechino aperta con l’inizio della Repubblica popolare. Entro l’anno l’accordo
di Andrea Riccardi
Francesco è stato percepito, cinque anni fa, come un Papa carismatico, esterno però alla diplomazia vaticana (considerata non così decisiva ai tempi di Benedetto XVI, tanto che i governi s’interrogavano sull’utilità delle ambasciate in Vaticano). Invece gli anni di Francesco hanno visto un’intensa attività diplomatica, come nel 2014 con la mediazione nelle trattative tra Cuba e Stati Uniti. Ora Francesco sta per chiudere l’annosa questione dei cattolici in Cina, aperta dall’avvento della Repubblica popolare, disinteressata al rapporto con il Vaticano (nel 1951 fu espulso il nunzio Riberi, spostatosi poi a Taiwan presso il presidente Chiang Kai-shek, sconfitto dai comunisti). La crisi, dopo intense pressioni governative su cattolici e vescovi, cominciò soprattutto con la creazione dell’Associazione patriottica cattolica nel 1957, espressione del controllo governativo sulla Chiesa.
La Chiesa cinese si divise allora in due segmenti: i cattolici «ufficiali» e quelli «sotterranei», entrambi con propri vescovi. La vicenda ha un precedente nella Rivoluzione francese, quando la Costituzione civile del clero nel 1791 dette origine alla Chiesa ufficiale, respinta dai cattolici fedeli a Roma. La questione fu chiusa nel 1801 dal concordato tra Bonaparte e Pio VII, che depose tutti i vescovi (patriottici e fedeli al Papa), per avviare una nuova procedura di nomina. La divisione in Francia durò dieci anni. In Cina, la Chiesa è divisa da settant’anni in due mondi, seppur con sovrapposizioni specie negli ultimi anni.
Se si guarda la storia della Chiesa, sorprendono i tanti decenni passati per arrivare a ricomporre i cattolici in Cina. Molto dipende da Pechino, ma non solo. Per il Papato, risolvere gli scismi è una priorità, come s’è visto dal grande impegno con i tradizionalisti di Lefèvre. Il protrarsi delle divisioni crea fossati duri da superare e soprattutto rende la Chiesa inabile a compiere la sua missione, come mostra la relativa crescita dei cattolici in Cina, pur in un terreno di mobilità religiosa. I cattolici sono oggi appena attorno ai dieci milioni, mentre gli evangelici (specie neoprotestanti) sarebbero circa settanta milioni con una grande crescita.
La questione sino-vaticana ha suscitato un dibattito quasi superiore alle dimensioni del problema. È considerata l’ultimo dossier dell’Ostpolitik, iniziata dal cardinal Casaroli. Infatti tornano le critiche fatte allora al Vaticano: svendere il martirio dei cristiani e accettare un ambiguo controllo statale. Così ha scritto George Weigel, biografo di Wojtyla, criticando la «cedevolezza» vaticana all’unisono con tante voci anglosassoni. L’accordo è percepito come smarcamento della Santa Sede dall’Occidente e dagli Stati Uniti, come faceva notare Massimo Franco. Si chiedono alla Chiesa posizioni che però i Paesi occidentali non hanno con la Cina.
Il disallineamento dall’Occidente è avvenuto pure con Giovanni Paolo II, Papa delle ragioni del Sud, ma pure dagli intensi legami (anche politici) con l’Europa e gli Stati Uniti. Che il cattolicesimo non debba essere un’agenzia religiosa dell’Occidente è linea costante dei Papi del Novecento, anche se non sempre di facile attuazione. È una realtà, prima che politica, inerente la missione della Chiesa tra culture, civiltà e regimi diversi. Non sorprende, allora, che Francesco cerchi un accordo con Pechino per dare stabilità alla Chiesa e rilanciarla, anche se un negoziato ha sempre un prezzo.
La questione ha un valore simbolico. Suscita aspre critiche tra cattolici (spiccano quelle del card. Zen di Hong Kong), severe sull’approccio «diplomatico» alla questione cattolica in Cina: vi si legge una continuità tra Casaroli e l’attuale Segretario di Stato, Parolin. Ma la diplomazia di Parolin in un mondo multipolare è per forza diversa da quella della Guerra fredda, anche se resta lo strumento negoziale (a fini pastorali però).
Si parla d’intesa sino-vaticana dal 1980, quando la via fu aperta dal cardinal Etchegaray (salutato a Pechino come «un grande funzionario di una grande religione occidentale»). Allora i cinesi — diceva il cardinale — offrivano condizioni migliori di oggi. Il negoziato procedette a salti. Si bloccò con la canonizzazione dei martiri cinesi il 1° ottobre 2000, festa della Repubblica popolare, vista dai cinesi come atto ostile. Poi nel 2009 ci fu un’altra interruzione, fino alla ripresa del negoziato nel 2013 con Francesco.
Quasi quarant’anni d’incontri e crisi insegnano che, con il tempo, il quadro negoziale s’indurisce da parte cinese. Anche perché la Cina di Xi Jinping ha un’altra dimensione rispetto al passato.
È significativo però che la Cina tratti su affari religiosi interni con un soggetto non nazionale. Mai l’ha fatto l’Urss. Mao Tse Dong, nel 1962, rispose male a Giancarlo Pajetta, che intercedeva per i cattolici: «ognuno ha gli dei del cielo del proprio paese».
L’accordo (forse entro il 2018) è una novità, ma non una clamorosa «Conciliazione» tra il Papa e Xi. Non riguarderà i rapporti diplomatici. Verterà soprattutto sul meccanismo di nomina dei vescovi (ci sarà un rappresentante vaticano non fisso a Pechino per studiare le nomine). L’intesa non verrà sbandierata, ma sarà il primo passo di un negoziato su altre problematiche. Il fatto decisivo è che consentirà, con la formazione di un unico episcopato in Cina, la ricomposizione della Chiesa, essenziale per rilanciare la presenza cattolica in un Paese che cambia. Questo è, per ora, il «mode-sto «obiettivo di papa Francesco.
Repubblica 10.3.18
Energia infinita, il Sole in laboratorio
“Siamo pronti alla fusione” Più vicino il nucleare pulito
L’annuncio del Mit: nuovi superconduttori Il primo reattore nel 2021. Ma i rivali sono scettici
di Giuliano Aluffi
La fusione nucleare – la promessa dell’energia rinnovabile “perfetta” perché producibile in quantità illimitata, a comando e 24 ore su 24, a differenza del solare e dell’eolico – si avvicina e potrebbe presto materializzarsi grazie a un’innovazione annunciata dal Mit di Boston. È un materiale che permette di ridurre l’energia necessaria a tenere imprigionato nel reattore il caldissimo cuore di plasma, oltre 100 milioni di gradi centigradi, necessario ad agitare i nuclei di idrogeno e farli scontrare alla velocità giusta per fondersi in elio liberando così energia. Nel progetto internazionale più importante e atteso, l’Iter, in costruzione dal 2005 a Cadarache (Francia), che vede impegnati tra gli altri partner l’Enea e il Cnr, il plasma necessario alla fusione nucleare è isolato da campi magnetici generati da materiali che sono superconduttori solo a temperature vicine allo zero assoluto. Nel progetto del Mit, invece, basato sullo stesso tipo di “macchina”, un reattore a ciambella Tokamak, si usa un nuovo superconduttore – una striscia di acciaio rivestita di ossido di ittrio, bario e rame – che funziona anche a temperature di qualche decina di gradi più alte e può generare campi magnetici più intensi. Richiedendo così meno energia, e dimensioni ridotte per il reattore: quello del Mit sarà un sessantacinquesimo di quello francese.
«Il limite dei superconduttori usati nei magneti precedenti era nella forza del campo magnetico prodotto, che arrivava a 10 Tesla» spiega Robert Mumgaard, ceo di Commonwealth Fusion Systems, società spin-off del Mit che per questo progetto ha ricevuto un finanziamento di 50 milioni di dollari anche da Eni. «Il nuovo superconduttore non ha questo limite: ci permette di generare campi magnetici oltre i 50 Tesla.
Per ora ne abbiamo realizzati solo di piccole dimensioni. Il prossimo passo è realizzarne uno grande abbastanza per un reattore entro il 2021. Poi, se tutto va bene, per il 2033 potremo produrre energia elettrica tramite la fusione».
Non è detto, comunque, che il Mit preceda i rivali. «Le scadenze che si sono dati i ricercatori americani mi sembrano molto ambiziose, forse anche troppo» ribatte Tim Luce, direttore della ricerca del progetto Iter. «Ma mi fa piacere che la fusione nucleare attiri finanziamenti privati, è un’attestazione dell’importanza di questo settore. Detto questo, i due progetti hanno ambizioni diverse: al Mit vogliono produrre 100 megawatt in uscita con un consumo da 50 a 100 megawatt.
Noi programmiamo di produrre 500 megawatt con 50 megawatt di consumo». «È presto per dare un giudizio: abbiamo visto negli anni una decina di tentativi di usare macchine Tokamak per arrivare alla fusione più in fretta di Iter e a costi inferiori, ma sono tutti naufragati» osserva Maurizio Lontano, direttore dell’Istituto di fisica dal plasma del Cnr. «Iter ha alle spalle i migliori laboratori del mondo e le leggi di scala basate sugli esperimenti precedenti prevedono che un reattore in grado di dare realmente energia da fusione in forma di elettricità abbia bisogno di essere una macchina “grande”, in senso non solo quantitativo – per il fabbisogno di una città da un milione di abitanti serve almeno un Gigawatt – ma anche qualitativo. Che un gruppo ristretto di scienziati formi una startup e prometta in 15 anni 100 megawatt sembra un po’ fuori scala».