giovedì 8 marzo 2018

Corriere 8.3.18
Il giardiniere paziente
Dietro gli universi «infantili» di Miró c’è il tempo adulto che mancò a soutine
di Roberta Scorranese


Nel 1893 a Barcellona nasce Joan Miró. Famiglia borghese, studierà disegno, andrà a Parigi, scardinerà le regole della pittura e poi, nella maturità, tornerà in Spagna e si metterà a ricostruire una singolare fisionomia dell’innocenza.
Nel 1893 a Smilovitch (Bielorussia) nasce Chaïm Soutine. Famiglia poverissima, fuggirà dalla Russia zarista, a Parigi dipingerà nature morte, scapperà dai nazisti e in maturità, clandestino nelle campagne della Loira, si metterà a ricostruire una singolare fisionomia dell’innocenza.
Quelle di Miró e di Soutine sono state due vite generate dal medesimo anno e congiunte dal medesimo approdo: un candore di figure e simboli lancinanti, un infantilismo venato di inquietudine novecentesca. Da una parte il catalano con i suoi uccelli, le sagome stilizzate e i colori accesi; dall’altra il russo con le sue bambine contorte, i fanciulli dalle smorfie buffe e terribili, le mamme. Ma il percorso no, quello sarà diverso.
Come racconta la mostra Joan Miró: Materialità e Metamorfosi a Padova, il catalano arrivò a «dipingere come un bambino» dopo aver attraversato due guerre, almeno quattro correnti (una, il Surrealismo, lo adottò senza indugio) e una sistematica distruzione della pittura tradizionale. La mostra corre lungo l’asse che va dalla metà degli anni Venti fino alla fine della sua carriera: da quando, cioè, Miró cominciò a sperimentare una nuova lingua.
Si era trasferito a Parigi, frequentava le avanguardie ma con una certa impermeabilità estetica, studiava quella che Giovanni Pozzi ha chiamato La parola dipinta : una straordinaria commistione tra parole e pittura (un esempio: i Calligrammes di Apollinaire), provava a capire che cosa ci potesse essere oltre l’arte tradizionale. Usò altri sensi.
Il tatto, per esempio: quel pezzo di stoffa aveva un suono oltre che un colore. Quel filo di ferro poteva piegarsi fino a diventare la sagoma di una ragazza esile. L’invasione nazista della Francia e poi il ritorno in Spagna nutrirono questa intima ricerca di una lingua autentica, libera dalla retorica dei movimenti novecenteschi e dalle polemiche.
E Soutine? In quel periodo Chaïm viaggiava «come un cadavere vivo» all’interno di un carro funebre: eludeva così i posti di blocco delle SS e raggiungeva le campagne francesi. Aveva mal di stomaco e ormai non sapeva più se era la fame o l’ulcera che se lo mangiava vivo. Nei primi tempi parigini aveva l’ossessione degli animali: li affittava, li dipingeva e poi li restituiva a malincuore, perché un pollo arrosto lui lo vedeva (letteralmente) «solo dipinto». In questo esilio rurale, poi, cominciò a raffigurare con sempre maggiore insistenza figure infantili. Fratelli mano nella mano, bambine piegate dalla fatica, ragazzini con i capelli arruffati. Era impaziente. Dipingeva senza disegno, come se da un momento all’altro qualcuno potesse scoprire le sue radici ebraiche e portarlo via. Miró fece il contrario. È così che le due vite coetanee finiranno per divergere: per una mancanza di tempo. Chaïm morirà nel ‘43: l’ulcera era degenerata in un cancro.
Il catalano tornò a casa, si oppose con eleganza alla dittatura franchista. Prese spazio. Curò il fisico con lunghe passeggiate e una fedeltà che per l’epoca era quasi eversiva («Ma come, stai sempre con la stessa donna?», lo sfotteva Picasso). E, poco alla volta, imparò l’arte della perseveranza dalla quale ricaverà l’ormai famosa sua affermazione: «Lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente». Il suo studio di Palma di Maiorca si popolerà di pennelli minuscoli con i quali insistere per ore su un piccolo sole nero.
O di pezzi di ferro con cui fare una falce di luna. Le figure, le ceramiche, le sculture che vedrete in mostra nascono (anche) da questa calma indotta, dal tempo che — a differenza di Soutine — Miró riuscì a prendersi. Era sereno? No. Dirà: «Il senso dell’umorismo deriva dal fatto che provo a sfuggire al lato tragico del mio temperamento».
E così le due vite, in qualche modo, si ricongiungono idealmente: il racconto di una innocenza mai pura; macchiata dalle smorfie dei bambini di Soutine o dai neri improvvisi nelle composizioni di Miró. Perché il 900 non è stato innocente. La pittura ce lo ricorda.