giovedì 8 marzo 2018

Corriere 8.3.18
Giolitti vide i pericoli della guerra 

Gli interventisti (e il re) lo zittirono
di Fulvio Cammarano


Fu protagonista dei progressi compiuti dall’Italia agli inizi del Novecento
Ma non riuscì a salvaguardare il ruolo del Parlamento nella crisi del 1915
Giovanni Giolitti è ancora oggi considerato, con Cavour e De Gasperi, uno dei tre grandi statisti della storia d’Italia, nonostante la diffusa opinione sul carattere spregiudicato e privo di visione ideale della sua azione. Non c’è dubbio che il personaggio sia controverso e molte delle sue scelte siano state discutibili. Basti pensare al modus operandi di Giolitti nell’Italia meridionale per favorire l’elezione dei propri candidati o alla grave sottovalutazione del fenomeno fascista nei primi anni Venti. Tuttavia la forza e la continuità della sua politica sono state tali e talmente evidenti che non solo hanno finito per imprimere il suo nome al primo quindicennio del XX secolo, ma soprattutto hanno garantito l’ingresso dell’Italia nella modernità economica e politica.
Il decollo industriale, ricorda Beonio-Brocchieri nel volume in edicola domani con il «Corriere», ha infatti permesso all’Italia di entrare nel novero delle potenze europee. Il diverso passo dell’economia non era certo merito solo di Giolitti benché fosse stato lui a ispirare e assecondare le trasformazioni attraverso una sapiente reinterpretazione delle politiche precedenti. Ed è stato proprio questo il punto di forza dello statista di Dronero anche in ambito politico e istituzionale: con i modi disincantati, con il rifiuto della retorica e del sentimentalismo, Giolitti spegneva i conflitti, riformando ogniqualvolta si apriva un varco nel muro degli interessi consolidati, ma sempre attento a evitare reazioni da cui non avrebbe saputo difendersi.
L’obiettivo dunque era quello di innovare nella continuità. Si pensi al modo in cui, utilizzando parte del vecchio apparato statale, aveva riformulato il ruolo dello Stato nei rapporti tra imprenditori e operai o, in politica estera, all’abile mutazione del carattere della Triplice Alleanza alla luce dei nuovi rapporti dell’Italia con la Francia.
Tuttavia la trasformazione del giolittismo in una vera e propria «età giolittiana» si deve alla capacità dello statista di ancorare le sue politiche ad una convinzione profonda: la fede, dopo la fase buia della crisi di fine secolo, nella centralità del Parlamento e quindi nella costruzione di quella indispensabile maggioranza da cui dipendevano le sorti dell’esecutivo in un sistema parlamentare. Una scelta strategica che, all’interno dei difformi livelli di sviluppo dell’Italia di inizio XX secolo, comportò il suo noto e quotidiano trapasso da presidente del Consiglio a «ministro della malavita» e ritorno.
Con tutti i suoi limiti, la lotta per fare del Parlamento il crocevia della lotta politica collocava Giolitti sulla scia percorsa da Cavour, per il quale «la via parlamentare era più lunga, ma la più sicura». Ed è stata questa scelta che ha fatto risaltare, nel bene e nel male, le qualità di Giolitti, la sua abilità nel trovare, manipolare, ma anche gestire personalmente una spesso riottosa maggioranza senza la quale però ogni progetto di riforma avrebbe perso il significato riformista e socialmente integratore che stava alla base di ogni pragmatica e spesso spregiudicata, iniziativa giolittiana. E fu proprio la lenta erosione della centralità del Parlamento, frutto del nuovo clima nazionalista, a rappresentare alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, il segnale della fine di un’epoca che non a caso si manifestò con le aggressioni ai deputati giolittiani e il tentativo di linciaggio dello stesso Giolitti. E fu molto significativo che per gli interventisti entrare in guerra significasse in primo luogo liberarsi di lui, delle sue capacità mediatorie e dilatorie e dunque in ultima istanza del suo prosaico metodo di «ottenere coi minimi mezzi i massimi risultati».
Il suo neutralismo, nel 1914, venne dunque subito percepito dagli avversari come la prova della natura soffocante del giolittismo che, privo di ogni afflato ideale, sapeva solo mercanteggiare. Ma lo statista di Dronero non riteneva necessaria la guerra solo perché credeva di poter ottenere «parecchio» senza dover versare sangue, ma anche perché considerava l’Italia impreparata per quella prova.
La sua linea, sostanzialmente condivisa dal Parlamento e da gran parte del Paese, fu sconfitta dall’azione congiunta dei vertici dello Stato, a cominciare dal re, dal presidente del Consiglio Salandra e dal ministro degli Esteri Sonnino. Non bastarono i 300 biglietti da visita lasciati dai deputati nella sua casa romana, a riprova della loro fedeltà. Quel Parlamento su cui aveva cercato di stabilizzare il sistema costituzionale cedeva sotto i colpi della piazza.
Non a caso lo storico inglese Trevelyan, entusiasta per la sconfitta dei neutralisti, scriveva: «L’Italia non è una grande nazione parlamentare, ma una grande nazione democratica. In tempi di crisi politiche, come nel 1860 e nel 1915, il popolo si dimostra ricco di gran senno e di forza». In realtà da quella «forza popolare» contrapposta al Parlamento sarebbe nato, secondo Prezzolini, il fascismo. Ed è un paradosso che solo pochi anni dopo proprio la sua prima vittima, Giolitti, non fosse più in grado di riconoscerla e ne agevolasse l’ascesa.

Perché lo schieramento neutralista venne sconfitto
Esce domani in edicola con il «Corriere della Sera» il secondo libro della collana «Protagonisti, armi e strategie della Grande guerra». Il volume è in vendita al prezzo di e 7,90 più il costo del quotidiano: oltre a un denso profilo biografico dello statista liberale Giovanni Giolitti (1842-1928), firmato da Vittorio H. Beonio-Brocchieri, contiene una cronologia delle vicende riguardanti l’Italia nella Prima guerra mondiale, curata da Mario Bussoni, e un approfondimento sul nostro Paese prima dello scoppio del conflitto, realizzato da Paolo Bonanni. Al centro della pubblicazione c’è ovviamente la figura di Giolitti, che per molti anni aveva tirato le fila della vita politica, ma non era al governo nell’estate del 1914, quando l’Europa precipitò nella Grande guerra e il nostro governo preferì rimanere fuori della mischia. Giolitti approvò quella scelta iniziale, mentre giudicò avventurosa la linea scelta dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino e dal presidente del Consiglio Antonio Salandra, che avviarono una progressiva manovra di sganciamento dalla Triplice Alleanza, che legava Roma a Berlino e Vienna, e di avvicinamento all’Intesa, che era in guerra con gli Imperi centrali. Nonostante il consenso di cui godeva nel Parlamento e nel Paese, Giolitti non riuscì a ostacolare la politica del governo, avallata dal re, che culminò nel patto di Londra (aprile 1915) e nel successivo intervento del nostro Paese al fianco della Gran Bretagna, della Francia e della Russia zarista contro l’Austria-Ungheria e in seguito anche contro la Germania. I successivi volumi della collana, in edicola con il «Corriere» al venerdì, sono Francesco Giuseppe (16 marzo), Pietro Badoglio (23 marzo), Guglielmo II (30 marzo).