il manifesto 6.3.18
La sinistra perde, Renzi annuncia l’ultimo esorcismo
di Norma Rangeri
Sonora
e brutale, la sconfitta della sinistra è arrivata pesante e netta.
Parlavamo di cattivi presagi più che di convinte speranze, e purtroppo
non siamo stati smentiti.
Il flop della lista di Liberi e Uguali è
tutto racchiuso in quella percentuale del 3,4%, la stessa del partito
di Vendola e Fratojanni nelle elezioni del 2013, allora alleati con
Bersani. I fuoriusciti del Pd non hanno trovato un consenso elettorale e
per ricostruire una sinistra non basterà qualche aggiustamento, non lo
consente il terremoto politico provocato dalle elezioni.
Un paese
diviso a metà tra Lega e 5Stelle è lo specchio della società che il voto
ci restituisce, obbligando tutti a riflettere sul distacco della
sinistra dalla vita del paese, sulle risposte mancate o troppo pigre al
disastro sociale provocato dalla crisi, sulla sottovalutazione
dell’impresentabilità della classe dirigente che ci ritroviamo. Perché
ci sono pochi dubbi sulla radicalità della protesta espressa da questo
voto.
E se le forme e i contenuti che essa esprime non sempre
fanno della società civile un esempio di virtù, girare la faccia
dall’altra parte, regalarsi fittizie consolazioni non serve più, e da
gran tempo. A Macerata, altro territorio interessante di questo voto, la
Lega ha vinto. Ora anche noi abbiamo un bel partito lepenista da
combattere, come in Europa, come in Francia, come in Germania, come nei
paesi dell’Est europeo.
Questo sarà naturalmente oggetto della
discussione che la lista di Grasso farà dopo la sconfitta, ammessa senza
scuse come la delusione rispetto alle attese. Si ricomincia da tre,
cioè dal piccolo zoccolo che ha permesso di superare faticosamente la
soglia di sbarramento del Rosatellum. E in questa discussione entrerà
giocoforza la valutazione del risultato dei 5Stelle.
I voti persi
da Renzi non sono andati a Leu ma più realisticamente, almeno in parte,
ai 5Stelle, protagonisti di una escalation che ha colorato di giallo
mezza Italia, l’Italia del Sud, da ieri trasformata in un monocolore. Un
voto che oltrepassando anche il 60% ha dentro tutto, come succede
quando un fiume rompe gli argini. Nell’analisi sugli 11 milioni di
elettori guadagnati dai figli di Grillo e Casaleggio, sarà interessante
guardare ai flussi, ma già si capisce che un travaso dal Pd ai 5Stelle
c’è stato. Hanno vinto i duelli nei seggi uninominali per il senato di
Campania, Puglia (governata dal grillino Emiliano del partito
democratico), e Sicilia, dove i 5Stelle profittano del crollo interno al
centrodestra, dello sfarinamento delle correnti
democristian-berlusconiane. Anche la Sardegna è a 5Stelle. Per questo,
prima si abbandonano gli occhiali della propaganda e prima si comincerà a
non accontentarsi di equiparare questo 32% a una delle tante facce
della destra. A meno di non voler regalare alla marea nera anche gli 11
milioni di cittadini a 5Stelle, oltre a quelli che hanno scelto Salvini e
il centrodestra.
Nel grande gioco delle coalizioni, Di Maio gioca
da protagonista, e si presenta con la camicia del primo della classe,
sicuro e già pronto alla fase due, quella del governo, dei punti del
programma sui quali tutti gli altri attori in campo sono chiamati a
rispondere. Salario, pensioni, precarietà, lavoro e reddito di
cittadinanza ecco alcuni cavalli di battaglia sul piatto delle
trattative di governo.
Renzi, annunciando ieri le sue dimissioni
da segretario, ha fatto capire che non se ne andrà. Anzi chiama il
partito a una specie di resa dei conti congressuale e intanto dice qual è
la linea da portare al Quirinale nelle consultazioni, ovvero «con gli
estremisti mai», dunque se (forse) lascerà la segreteria ciò avverrà
solo dopo la formazione del governo che non lo vedrà partecipe di
alleanze con i 5Stelle.
La botta è stata così forte che il
dimissionario segretario si è fatto gran vanto di essere stato eletto
senatore della Repubblica, individuando nel recinto fiorentino il suo
rifugio politico. Ricordiamo tutti lo slogan «saremo il primo gruppo
parlamentare», quando credeva che la legge elettorale gli avrebbe
consentito di far man bassa nei collegi. Oggi il Pd, rottamato al 18%,
vale quanto la Lega di Salvini che, proprio grazie al Rosatellum, avrà
il doppio dei parlamentari di Renzi.
Il leader Pd non riesce ad
accusare il colpo e ripete un po’ ossessivamente «quanto bene abbiamo
fatto, non siamo stati capiti», perdendosi dietro inutili rimpianti
sulla mancata elezione di Minniti a Pesaro (ma il ministro sarà in
parlamento perché gode del paracadute al proporzionale). Sembra
frastornato e parla delle prossime primarie, puntando il dito contro
chi, nel Pd, vorrebbe commissariarlo. Se continua l’emorragia, le sue
primarie saranno più che l’occasione per un improbabile rilancio, un
ultimo esorcismo.