il manifesto 6.3.18
La promessa del futuro
Tempi presenti.
«Populisti e profeti», il libro di Augusto Illuminati edito da
manifestolibri. Anche nella sua versione di sinistra, il populismo è la
proiezione politica di una rivoluzione passiva necessaria a fuoriuscire
dall’interregno della crisi del neoliberismo
di Benedetto Vecchi
Il
populismo è un significante vuoto. Meglio, una chiave di accesso alla
compressione della qualificazione come antisistema per tutti i movimenti
che irrompono nella triste scena pubblica della crisi del neoliberismo.
Movimenti sociali o di opinione che dagli Usa all’America Latina,
dall’Asia alla vecchia Europa occupano il centro del palcoscenico,
spaventando, dicono i media mainstream, le élite neoliberali al potere.
Lettura, questa, che stride con quanto accade proprio nei continenti e
realtà nazionali dove più evidente il potere di attrazione dell’ordine
del discorso populista.
Il presidente degli Stati Uniti Donald
Trump, ad esempio, è considerato un populista che vuol far tornare
grande gli Stati Uniti contro gli interessi delle élite liberal e
cosmopolite, ritenute le responsabili del declino americano. Google,
Facebook, Apple, Amazon sarebbero i simboli di queste élite globali che
hanno rescisso i loro legami con la nazione, mentre Trump, i petrolieri
sarebbero invece i rappresentanti di un capitalismo che non vuol
rinunciare alla egemonia mondiale degli Stati Uniti in quanto nazione.
Da qui l’appello del presidente statunitense ai valori profondi e
genuini e «bianchi» degli americani, stabilendo un legame con l’antico
populismo a stelle e strisce che è arrivato a svolgere, tra la fine
dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento, un ruolo non marginale
negli Stati Uniti, come testimonia Augusto Illuminati nel volume
Populisti e profeti, manifestolibri, pp. 108, euro 8).
IL VOLUME È
SCANDITO in tre parti. La seconda ricostruisce la genesi e
l’eterogeneità del populismo «storico», si va dalla Russia ottocentesca
agli Stati Uniti al continente latinoamericano. La terza parte è invece
dedicata alle tesi di quanti, a sinistra dello scacchiere politico e dei
movimenti sociali, propongono il populismo come il grimaldello da usare
per uscire dalla subalternità e dalla sconfitta sia dei movimenti
sociali che della sinistra.
La prima parte, invece, ha un taglio
più teoretico e si misura con i testi filosofici di autori islamici e
ebraici, individuando nella profezia e nella promessa di futuro il
collante di molte esperienze politiche populiste. Il populismo altro non
sarebbe che una teologia politica di una crisi delle società nel quale
si manifesta. In base a quanto scrive l’autore, il populismo è cosa
troppo seria per essere lasciata nelle mani degli apprendisti stregoni
dell’ordine costituito. E se Trump lo usa per riconquistare l’egemonia
perduta degli Stati Uniti, in Europa è la reazione ai diktat delle
politiche dell’austerity. In Italia, invece, Berlusconi, Salvini e in
misura diversa Renzi agitano le virtù del popolo per scongiurare il
declino di forme specifiche di capitalismo – quello familiare e
molecolare, direbbe una testa d’uovo del Censis – di fronte il potere
del capitale sovranazionale. Più che antisistema, il populismo di
governo italiano è quindi da considerare un affare interno ai rapporti
di potere dominanti.
Elementi molto presenti anche nel movimento
cinque stelle, organizzazione politica che più di altre si avvicina al
modello di populismo elaborato dal filosofo argentino Ernesto Laclau.
L’universale che il Movimento cinque stelle si propone di ricostruire è
una concezione pastorale dello Stato, l’unica fonte dalla quale può
sgorgare la volontà generale espropriata dalla casta. L’adesione al
libero mercato, assieme al ripudio della povertà assoluta, l’esaltazione
della meritocrazia contro il nepotismo delle élite convivono inoltre in
una visione da decrescita felice in nome di un buon vivere, rivendicato
comunque all’interno di una cornice moderata e compatibile con il
regime di accumulazione dominante.
Ma c’è anche chi crede nella
possibilità di un populismo di sinistra, individuando come possibili
modelli per l’Italia le esperienze francesi di Jean-Luc Mélanchon, di
Podemos in Spagna, del chavismo venezuelano, dei movimenti indigeni in
Bolivia e Ecuador e, sotto molti aspetti, dell’americano Bernie Sanders e
dell’inglese Jeremy Corbin. Al di là dell’eterogeneità dei casi citati,
che rende impossibile parlare del populismo di sinistra come un ciclo
politico globale, consente di guardare a queste esperienze come a un
ripiegamento locale alle sfide poste dal capitalismo globale. Un
ripiegamento che in Italia testimonia ormai la marginalità della
sinistra politica e dei tentativi di uscire dalla sua irrilevanza, sia
quando si agitano le parole d’ordine della libertà e dell’uguaglianza
che quando viene invocato il potere del popolo: in entrambi i casi, si
scambiano i propri desideri con la realtà.
L’AUTORE INDICA
talvolta il populismo di sinistra come una sorta di socialismo utopista
postmoderno. Ma più che una utopia postmoderna, va affermato, il
populismo di sinistra è il simbolo di una operazione mimetica tesa a
colmare il vuoto provocato dalla eclissi della socialdemocrazia, dai
vecchi partiti operai e dal sindacato. E c’è da dubitare che funzioni
come l’elaborazione di un nuovo «universale» a partire dal
riconoscimento dei tanti particolari che attraversano della società
civile.
In primo luogo, c’è in questa griglia analitica un cattivo
determinismo di causa ed effetto tra le folks politics dei movimenti
sociali e il Politico; generico rimane l’universale da produrre, eccetto
la riproposizione del feticcio della sovranità nazionale e dello Stato.
Il populismo, anche nella sua versione di sinistra, è la proiezione
politica di una rivoluzione passiva necessaria a fuoriuscire
dall’interregno definito dalla crisi del neoliberismo. Il populismo è sì
l’esemplificazione di un Politico che prende atto della crisi della
democrazia rappresentativa e della mutazione profonda delle classi
sociali senza però riuscire ad andare oltre la stabilizzazione dei
rapporti sociali di produzione.
PIÙ CHE GARANTIRE il cambiamento,
il populismo di destra e di sinistra è quindi il lessico politico della
normalizzazione istituzionale della grande trasformazione già avvenuta. E
se per la destra, l’appello al popolo ha a che fare con il mix di legge
e ordine, a sinistra svolge quella funzione ambivalente di un passato
dove le speranze di libertà e uguaglianza erano state codificate dentro
le istituzioni del welfare state. Nel suo ultimo libro, Zygmunt Bauman
ha indagato la Retrotopia (Laterza), cioè questo auspicato ritorno al
passato dove convivono nostalgia per i bei tempi andati e una critica
del presente, tuttavia aperta a una trasformazione dei rapporti di
potere dominanti.
L’ORDINE DEL DISCORSO populista riconfigura la
successione passato, presente e futuro, dove il terzo movimento viene
sacrificato nell’eterna ripetizione di un presente depurato dei suoi
aspetti più feroci. Va dunque salutato positivamente un libro come
questo che si propone di definire le istruzioni per l’uso del lessico
populista. Ma non per renderlo «ragionevole» (come alcuni toni dialogici
usati dall’autore), ma per destrutturarlo, evitando di ritrovarsi
perduti nel labirinto della sconfitta, proprio quando viene sbandierata
l’illusione che è stata trovata l’uscita da quel dedalo.