martedì 6 marzo 2018

il manifesto 6.3.18
La promessa del futuro
Tempi presenti. «Populisti e profeti», il libro di Augusto Illuminati edito da manifestolibri. Anche nella sua versione di sinistra, il populismo è la proiezione politica di una rivoluzione passiva necessaria a fuoriuscire dall’interregno della crisi del neoliberismo
di Benedetto Vecchi


Il populismo è un significante vuoto. Meglio, una chiave di accesso alla compressione della qualificazione come antisistema per tutti i movimenti che irrompono nella triste scena pubblica della crisi del neoliberismo. Movimenti sociali o di opinione che dagli Usa all’America Latina, dall’Asia alla vecchia Europa occupano il centro del palcoscenico, spaventando, dicono i media mainstream, le élite neoliberali al potere. Lettura, questa, che stride con quanto accade proprio nei continenti e realtà nazionali dove più evidente il potere di attrazione dell’ordine del discorso populista.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ad esempio, è considerato un populista che vuol far tornare grande gli Stati Uniti contro gli interessi delle élite liberal e cosmopolite, ritenute le responsabili del declino americano. Google, Facebook, Apple, Amazon sarebbero i simboli di queste élite globali che hanno rescisso i loro legami con la nazione, mentre Trump, i petrolieri sarebbero invece i rappresentanti di un capitalismo che non vuol rinunciare alla egemonia mondiale degli Stati Uniti in quanto nazione. Da qui l’appello del presidente statunitense ai valori profondi e genuini e «bianchi» degli americani, stabilendo un legame con l’antico populismo a stelle e strisce che è arrivato a svolgere, tra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento, un ruolo non marginale negli Stati Uniti, come testimonia Augusto Illuminati nel volume Populisti e profeti, manifestolibri, pp. 108, euro 8).
IL VOLUME È SCANDITO in tre parti. La seconda ricostruisce la genesi e l’eterogeneità del populismo «storico», si va dalla Russia ottocentesca agli Stati Uniti al continente latinoamericano. La terza parte è invece dedicata alle tesi di quanti, a sinistra dello scacchiere politico e dei movimenti sociali, propongono il populismo come il grimaldello da usare per uscire dalla subalternità e dalla sconfitta sia dei movimenti sociali che della sinistra.
La prima parte, invece, ha un taglio più teoretico e si misura con i testi filosofici di autori islamici e ebraici, individuando nella profezia e nella promessa di futuro il collante di molte esperienze politiche populiste. Il populismo altro non sarebbe che una teologia politica di una crisi delle società nel quale si manifesta. In base a quanto scrive l’autore, il populismo è cosa troppo seria per essere lasciata nelle mani degli apprendisti stregoni dell’ordine costituito. E se Trump lo usa per riconquistare l’egemonia perduta degli Stati Uniti, in Europa è la reazione ai diktat delle politiche dell’austerity. In Italia, invece, Berlusconi, Salvini e in misura diversa Renzi agitano le virtù del popolo per scongiurare il declino di forme specifiche di capitalismo – quello familiare e molecolare, direbbe una testa d’uovo del Censis – di fronte il potere del capitale sovranazionale. Più che antisistema, il populismo di governo italiano è quindi da considerare un affare interno ai rapporti di potere dominanti.
Elementi molto presenti anche nel movimento cinque stelle, organizzazione politica che più di altre si avvicina al modello di populismo elaborato dal filosofo argentino Ernesto Laclau. L’universale che il Movimento cinque stelle si propone di ricostruire è una concezione pastorale dello Stato, l’unica fonte dalla quale può sgorgare la volontà generale espropriata dalla casta. L’adesione al libero mercato, assieme al ripudio della povertà assoluta, l’esaltazione della meritocrazia contro il nepotismo delle élite convivono inoltre in una visione da decrescita felice in nome di un buon vivere, rivendicato comunque all’interno di una cornice moderata e compatibile con il regime di accumulazione dominante.
Ma c’è anche chi crede nella possibilità di un populismo di sinistra, individuando come possibili modelli per l’Italia le esperienze francesi di Jean-Luc Mélanchon, di Podemos in Spagna, del chavismo venezuelano, dei movimenti indigeni in Bolivia e Ecuador e, sotto molti aspetti, dell’americano Bernie Sanders e dell’inglese Jeremy Corbin. Al di là dell’eterogeneità dei casi citati, che rende impossibile parlare del populismo di sinistra come un ciclo politico globale, consente di guardare a queste esperienze come a un ripiegamento locale alle sfide poste dal capitalismo globale. Un ripiegamento che in Italia testimonia ormai la marginalità della sinistra politica e dei tentativi di uscire dalla sua irrilevanza, sia quando si agitano le parole d’ordine della libertà e dell’uguaglianza che quando viene invocato il potere del popolo: in entrambi i casi, si scambiano i propri desideri con la realtà.
L’AUTORE INDICA talvolta il populismo di sinistra come una sorta di socialismo utopista postmoderno. Ma più che una utopia postmoderna, va affermato, il populismo di sinistra è il simbolo di una operazione mimetica tesa a colmare il vuoto provocato dalla eclissi della socialdemocrazia, dai vecchi partiti operai e dal sindacato. E c’è da dubitare che funzioni come l’elaborazione di un nuovo «universale» a partire dal riconoscimento dei tanti particolari che attraversano della società civile.
In primo luogo, c’è in questa griglia analitica un cattivo determinismo di causa ed effetto tra le folks politics dei movimenti sociali e il Politico; generico rimane l’universale da produrre, eccetto la riproposizione del feticcio della sovranità nazionale e dello Stato. Il populismo, anche nella sua versione di sinistra, è la proiezione politica di una rivoluzione passiva necessaria a fuoriuscire dall’interregno definito dalla crisi del neoliberismo. Il populismo è sì l’esemplificazione di un Politico che prende atto della crisi della democrazia rappresentativa e della mutazione profonda delle classi sociali senza però riuscire ad andare oltre la stabilizzazione dei rapporti sociali di produzione.
PIÙ CHE GARANTIRE il cambiamento, il populismo di destra e di sinistra è quindi il lessico politico della normalizzazione istituzionale della grande trasformazione già avvenuta. E se per la destra, l’appello al popolo ha a che fare con il mix di legge e ordine, a sinistra svolge quella funzione ambivalente di un passato dove le speranze di libertà e uguaglianza erano state codificate dentro le istituzioni del welfare state. Nel suo ultimo libro, Zygmunt Bauman ha indagato la Retrotopia (Laterza), cioè questo auspicato ritorno al passato dove convivono nostalgia per i bei tempi andati e una critica del presente, tuttavia aperta a una trasformazione dei rapporti di potere dominanti.
L’ORDINE DEL DISCORSO populista riconfigura la successione passato, presente e futuro, dove il terzo movimento viene sacrificato nell’eterna ripetizione di un presente depurato dei suoi aspetti più feroci. Va dunque salutato positivamente un libro come questo che si propone di definire le istruzioni per l’uso del lessico populista. Ma non per renderlo «ragionevole» (come alcuni toni dialogici usati dall’autore), ma per destrutturarlo, evitando di ritrovarsi perduti nel labirinto della sconfitta, proprio quando viene sbandierata l’illusione che è stata trovata l’uscita da quel dedalo.

Il Fatto 6.3.18
Uno spettro non si aggira più per l’Europa
Socialismo addio - Francia, Spagna, Grecia & C.: partiti con le ossa rotte e ridimensionati
Uno spettro non si aggira più per l’Europa
di Andrea Valdambrini


Se quella italiana esce dal voto del 4 marzo con le ossa rotte, anche nel resto dell’Europa occidentale la sinistra storica non si sente affatto bene. E non da oggi. Partiti di tradizione ex comunista, socialista o socialdemocratica vengono di volta in volta svuotati dall’interno o trasfigurati (in Francia e Gran Bretagna), ridotti ai minimi termini di consenso di fronte al successo di alternative a sinistra (in Grecia e in Spagna), oppure si ritrovano fortemente ridimensionati (in Germania e Austria). Con la sola eccezione del Portogallo dove il premier socialista Antonio Costa governa da più di due anni, sostenuto dai comunisti.
Detonatore di tutti gli smottamenti sono le tornate elettorali. A dare il ‘la’, le elezioni parlamentari in Grecia, prima nel gennaio e poi nel settembre 2015, in mezzo c’era stato il referendum sul piano di salvataggio dei creditori internazionali e le dimissioni del premier Tsipras. Il Partito socialista panellenico (Pasok), fino ad allora al governo insieme alla destra del premier Antonis Samaras, ottiene i peggiori risultati di sempre (4,68% nella prima e 6,28% nella seconda consultazione, corrispondenti a 13 e 17 deputati su 300). Per quasi 30 anni, a partire dal 1981 non era mai sceso al di sotto del 35%.
Era stato Andreas Papandreou a portare al governo i socialisti ellenici nel 1981, avanguardia di quell’eurosocialismo che avrebbe espresso poco dopo Felipe Gozalez a Madrid e Francois Mitterand a Parigi e la cui spinta, con variazioni su tema (terza via blairiana e socialdemocrazia di Schreoder nel 1997 e ‘98), sarebbe durata fino alle soglie della crisi finanziaria del 2008; in seguito alla quale, però, nulla per i socialisti europei sarebbe stato più come prima. In Francia, dopo la catastrofica esperienza di Hollande, il collasso della gauche è avvenuto per svuotamento. Da un lato Emmanuel Macron con En Marche!, dall’altro la sinistra anti-establishment di Jaen-Luc Melenchon lasciano al glorioso Ps francese le briciole: alle legislative del 2017, ottiene il 5,7%, perdendo 35 punti rispetto al 2012, che si traduce in 250 parlamentari in meno all’Assemblea Nazionale. Nel Regno Unito, alle prese con la prioritaria partita della Brexit, il Labour invece è in perfetta salute, ma è stato scalato dall’interno. Spazzato via il leader mai premier Ed Miliband dopo la sconfitta del 2015 contro i Tories, la rifondazione radicale è toccata a uno storico oppositore di Tony Blair, come Jeremy Corbyn.
Caso isolato, quello di Londra, già solo se si guarda alla Spagna, dove il Psoe che veleggiava poco sotto il 50% negli anni dopo la fine della dittatura e che aveva raggiunto il 44% ancora nel 2008, dopo essere passato attraverso Zapatero, è sceso drasticamente al 22% tra il 2015 e il 2016. Tradotto, 85 deputati sul totale di 350, minimo storico dalla fine della dittatura di Francisco Franco nel ‘75. Non una sconfitta assoluta, certo, ma un calo speculare all’ascesa di Podemos. Nato nel 2014 sulla forza del movimento di piazza degli Indignados, e guidato dal mediatico Pablo Iglesias, Podemos sfonda il 20% già con il voto del dicembre 2015, consolidandosi al 21% con il nuovo voto del 2016. Il risultato si traduce in 71 deputati: poco meno dei socialisti, di cui diventano così il principale avversario a sinistra.
Le percentuali dei socialisti spagnoli non sono dissimili da quelle dei socialdemocratici in Germania (Spd), che sotto la guida di Martin Schulz lo scorso settembre si sono assestati a poco più del 20%. Prima del 2005 non erano mai scesi sotto il 30% per tutto il Dopoguerra. Il prezzo pagato alla Grosse Koalition, probabilmente, così come è avvenuto nella vicina Austria. Anche a Vienna, dove i socialdemocratici della Spo hanno governato per decenni forti di maggioranza solide, sono scesi sotto il 30 negli ultimi 10 anni. Quando si è trattato di eleggere il presidente della Repubblica nell’aprile 2016, il loro candidato si è fermato all’11%: quarto al primo turno e fuori dal ballottaggio.

il manifesto 6.3.18
Singolari coincidenze fra Hollywood e il Vaticano
Habemus Corpus. Nell’anno in cui il mondo del cinema è stato scosso dal ciclone Metoo, uno degli appelli più concreti lo ha fatto Frances McDormand nel suo discorso di ringraziamento per l’Oscar.
di Mariangela Mianiti


Nell’anno in cui il mondo del cinema è stato scosso dal ciclone Metoo, uno degli appelli più concreti lo ha fatto Frances McDormand nel suo discorso di ringraziamento per l’Oscar. Ha chiesto a tutte le nominate di alzarsi, ha aggiunto che le donne hanno un sacco di idee e progetti, ha invitato produttori e case cinematografiche a parlarne con loro non nei party dopo i premi, bensì nei loro uffici, il giorno dopo e concretamente, cioè mettendo mano ai finanziamenti. Questo si chiama andare diritte a uno scopo. Volete cambiare? Passiamo ai fatti. Visto che il prossimo giovedì è l’8 marzo, prendo alla lettera McDormand parlando di un’altra giornata di battaglia femminile che punta al concreto e ha caratteristiche molto bizzarre, non per colpa sua o delle donne.
Si tratta dell’Equal pay day, giornata per la parità retributiva fra donne e uomini a parità di mansioni, che però non è uguale dappertutto. Siccome lo si calcola partendo dalla percentuale di guadagno inferiore, si trasporta quella percentuale sulla durata dell’anno e si sottraggono i giorni che corrispondono alla percentuale. Per esempio, in Germania il gap è del 21% che, su 365 giorni, si traduce in 77 ed ecco che si arriva al 18 marzo. Alcuni Paesi fanno partire il conteggio dall’inizio dell’anno, altri dalla fine e questo spiega perché le date possono cambiare da Stato a Stato e di anno in anno, dipende se la situazione è migliorata o peggiorata. Negli Usa l’anno scorso l’Equal pay day si è celebrato il 4 aprile, quest’anno il 10 aprile, in Svizzera è caduto il 24 febbraio, in Gran Bretagna il 10 Novembre, mentre l’Europa, che ha fatto una media, lo ha fissato il 15 aprile.
Secondo lo studio Getting to equal del 2017, il divario potrebbe scomparire se le donne sapranno sfruttare capacità digitali, strategie di carriera e competenze tecnologiche, sempre che Stato, università e imprese le sostengano in modo concreto.
Se tutte queste ipotesi si realizzassero, lo studio dice che nei mercati maturi le differenze salariali potrebbero sparire nel 2044 anziché nel 2080, mentre in quelli emergenti nel 2066 invece che nel 2168. Campa cavallo. In Svizzera, dove la parità salariale è obbligatoria per legge ma nei fatti la differenza resta del 18,5%, lo scorso 1 marzo il parlamento, a maggioranza maschile, ha rigettato la proposta di istituire l’obbligo di controllo dei salari nelle aziende. Troppa burocrazia, hanno detto. Poverini. Altri hanno sottolineato che tocca alle donne far rispettare i propri diritti. E gli uomini perché non obbediscono alle norme?
Comunque, sebbene la lotta sia lunga e difficile, qualcosa si sta muovendo non solo a Hollywood. Nel numero di marzo del mensile Donne Chiesa Mondo, la giornalista francese Marie-Lucile Kubacki ha condotto un’inchiesta fra suore che lavorano a Roma. Nessuna di loro dice il proprio vero nome, per paura di giudizi o ritorsioni, ma la sostanza di quello che raccontano è un profondo disagio. Lavano, stirano, puliscono, cucinano per vescovi e cardinali che poi le lasciano mangiare da sole in cucina, come serve non degne della loro presenza. Naturalmente non percepiscono compenso o sono pagate pochissimo. Come scrive Kubacki: «Non si tratta solo di soldi. La questione del corrispettivo economico è piuttosto l’albero che nasconde la foresta di un problema ben più grande: quello del riconoscimento».«Dietro tutto ciò – aggiunge suor Paule – c’è purtroppo ancora l’idea che la donna vale meno dell’uomo, soprattutto che il prete è tutto mentre la suora non è niente nella Chiesa. Il clericalismo uccide la Chiesa». Attendesi un Metoo in Vaticano.

Il Fatto 6.3.18
Il cardinale Pell e gli abusi sessuali: un mese per decidere se fargli il processo

Il prelato cattolico più alto in grado incriminato per reati sessuali è entrato ieri in tribunale per il primo giorno di udienza preliminare; quattro settimane di confronti al Magistrates Court di Melbourne per stabilire se il cardinale australiano George Pell debba essere rinviato a giudizio rispetto alle accuse di pedofilia commessi in passato su diverse vittime. La difesa del numero tre del Vaticano ha accusato la polizia di aver negato alcune testimonianze in suo favore; già all’esterno dell’edificio ci sono stati momenti drammatici con insulti a Pell. Circa cinquanta testimoni saranno ascoltati durante questa fase. Il cardinale è stato incriminato nel giugno 2017 per “reati di violenza sessuale”; nominato arcivescovo di Melbourne nel 1996, poi a Sydney nel 2001, era stato scelto nel 2014 da Papa Francesco come aiutante nella sua battaglia per la trasparenza delle finanze del Vaticano.
Una commissione d’inchiesta ha condotto indagini per quattro anni, raccogliendo testimonianze drammatiche di migliaia di vittime di abusi da parte di pedofili nelle chiese, negli orfanotrofi, nelle società sportive, nelle organizzazioni giovanili e nelle scuole. Il cardinale Pell era stato ascoltato tre volte in quel contesto e aveva ammesso di aver “fallito” nella gestione dei preti pedofili nello Stato di Victoria, negli anni 70. Alla fine delle quattro settimane di udienze sarà il magistrato Belinda Wallington a stabilire se Pell – che si proclama innocente – dovrà sostenere il processo nella County Court.

Corriere 6.3.18
Il biglietto: «Non ne posso più» Esce e uccide un immigrato
Firenze, arrestato un 65enne: volevo suicidarmi. Il pm: non è razzismo
di M. Ga.


FIRENZE Passo dopo passo, durante quei 500 metri scarsi che separano la casa popolare di Oltrarno dal ponte Vespucci, il desiderio di uccidersi si è trasformato. E la disperazione è diventata odio.
Roberto Pirrone, 65 anni, tipografo in pensione, pochi soldi, tanti debiti, ha impugnato la pistola semiautomatica, una Beretta Px4, e senza muoverla dalla tasca ha avuto un pensiero diabolico: uccidere la prima persona che avrebbe incontrato. Ha incrociato una donna di colore con il suo bambino. Li ha guardati entrambi ma non ha avuto il coraggio di sparare. Poi ha visto un altro bersaglio e ha premuto il grilletto.
Idy Diene, 54 anni, senegalese, venditore di ombrelli, moglie e quattro figli lontani, è stato raggiunto da tre colpi in rapida successione. Ha tentato di scappare ma il killer lo ha inseguito sparando altre tre volte. Sette anni fa, sempre a Firenze, un cugino del senegalese era stato ammazzato, con un altro connazionale, da un simpatizzante di estrema destra in quella che ancora oggi è ricordata come la strade di piazza Dalmazia.
Tra le urla terrorizzate dei passanti, l’assassino ha cercato di fuggire. L’hanno bloccato due paracadutisti della Folgore di guardia davanti al vicino consolato americano e l’hanno consegnato alla polizia. Ha confessato quasi subito un delitto senza movente. «Non l’ho ucciso perché era un nero», ha detto agli investigatori. Spiegando poi che, devastato dalla paura di non poter far fronte ai debiti, aveva deciso di farla finita. Voleva uccidersi su quel ponte. «Poi ho deciso di diventare un assassino per finire in carcere e non pesare sulla famiglia» ha spiegato.
Per ore la polizia ha cercato riscontri. Li ha trovati in un biglietto lasciato alla figlia: «Non ce la faccio più, sono stanco, mi uccido». Nelle sue ultime volontà le ha raccontato anche dell’ennesimo litigio con la moglie per motivi economici (un debito da 30 mila euro). E le sue ultime istruzioni: «Le carte di credito non funzionano più, attenta ai creditori, ritira tu la mia pensione».
Magistratura e investigatori sono convinti che l’uomo abbia detto la verità. «I fini razzisti sono da escludere. Non sono emersi suoi legami con gruppi politici, tanto meno di destra o razzisti» ha detto il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, dopo l’interrogatorio.
Ma la comunità senegalese in città ha reagito con rabbia. Ci sono stati incidenti durante un corteo per le strade del centro, che poi si è concluso pacificamente. «Non credo al gesto di un pazzo — ha detto Pape Diaw, mediatore culturale e portavoce della comunità fiorentina del Senegal —. Quanti italiani ha incrociato prima? Perché ha sparato a un nero?». In serata è intervenuto anche l’imam e presidente dell’Ucoii Izzedin Elzir «Ho lanciato un appello alla calma e alla concordia — spiega —. Rispetto le istituzioni e credo alla magistratura, ma su questo episodio bisogna fare massima chiarezza. Perché alcuni toni usati da alcune forze politiche in questa campagna elettorale hanno esacerbato gli animi».

Corriere 6.3.18
Roberto, l’inquilino pedante con la passione per le armi
«Tiro e cerco la perfezione»
di Marco Gasperetti


FIRENZE Nella casa popolare di via Aleardo Aleardi, Oltrarno di Firenze, i coinquilini dicono che Roberto è sempre stato un uomo taciturno, gentile quanto basta, ma anche con qualche fissazione di troppo. Il motivo? «Bastava che qualcuno lasciasse anche una sola volta il portone aperto — racconta una signora — e lui immediatamente attaccava un foglio pregando i “gentili condomini” di tenerlo chiuso. Oppure, se qualcuno faceva rumore, eccolo di nuovo scendere le scale per affiggere un altro ammonimento».
Mai nulla di grave, comunque, raccontano quelli che vivono qui. Anzi, ieri nel palazzo di cinque piani con i muri chiari e le finestre verdi, a due passi da piazza Tasso e il quartiere di Santo Spirito, tutti dicevano di non ricordarsi episodi di violenza se non qualche litigio con la moglie. E di non sapere neppure che a casa, Roberto Pirrone, 65 anni, custodiva con orgoglio non solo la pistola, detenuta legalmente, con la quale avrebbe sparato sei volte per massacrare «il primo uomo che avrebbe incontrato», ma anche diverse altre armi. Perché Pirrone le collezionava e ogni tanto ne mostrava qualcuna su Facebook.
In pochi sapevano che quest’uomo, un lavoro da tipografo che svolgeva solo saltuariamente, e con una piccola pensione, si divertiva al poligono a sparare per «cercare di arrivare alla perfezione», come aveva confessato a un amico. Si divertiva anche a collezionare cimeli dell’ex Unione Sovietica: stelle rosse, colbacchi con il simbolo del partito comunista sovietico, qualche simbolo dell’epoca staliniana. Ma, raccontano gli amici, non era interessato né alla politica né a movimenti eversivi o razzisti.
Eppure da almeno un anno le cose non andavano per il verso giusto. Non soltanto perché il lavoro non era abbastanza, ma perché vecchi debiti erano tornati a tormentarlo. Forse temeva che nella busta che proprio ieri mattina aveva trovato nella cassetta delle lettere ci fosse l’ultimo sollecito di un creditore. Forse per questo, ultimamente, aveva iniziato a postare strani messaggi sul suo profilo Facebook. «La pazzia tiene sana la mente», aveva scritto il 26 novembre. Mentre tormentato dal caldo del 14 agosto aveva aggiornato la sua immagine di profilo con un cuore e la frase tratta da una canzone «La vita e un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia». Immagini che aveva cambiato altre volte, con un Buddha dormiente o con l’autoritratto della pittrice Frida Kahlo.
Sul quel profilo c’era spazio anche per la sua collezione di armi. La foto di un’amatissima pistola di precisione l’aveva postata il 15 dicembre e Dario un amico, anche lui appassionato, lo aveva preso in giro. «Mitica, peccato che è in mano a un pollo… Povera pistola». Neppure sospettando che in «mano al pollo» un’altra pistola avrebbe cancellato la vita di un uomo gettando nel dolore la moglie e i quattro figli.
Le sue ultime volontà, Roberto Pirrone, le ha affidate alla figlia in quel biglietto lasciato prima di uscire: «mi uccido». Poi, sotto la pioggia, camminando su quel ponte, ci ha ripensato.

Corriere 6.3.18
L’ira dei senegalesi: «Ora basta»
Il corteo nel cuore della città. Cartelli usati come bastoni, danni a cestini e fioriere
di Jacopo Storni


Firenze Gli occhi rossi di rabbia e le mani al cielo per invocare la rivolta. «Basta razzismo», urlano brandendo cartelli stradali usati come bastoni. Spaccano transenne, vasi da fiori, cestini della spazzatura.
Sembra la rivolta di Rosarno, invece è il centro storico di Firenze. Cento senegalesi, a poche ore dall’uccisione del connazionale Idy Diene, sfogano la loro rabbia per le vie della città. «Siamo stanchi di questo razzismo». Hanno ancora negli occhi le immagini della strage di piazza Dalmazia, che sette anni fa tolse la vita a due venditori ambulanti. «Non possiamo assistere a questi omicidi senza far niente».
Il corteo all’inizio si era mosso in modo pacifico. Proprio da Ponte Vespucci, dove si è consumato l’omicidio. Tra i partecipanti tanti venditori ambulanti. Hanno appreso la notizia dagli amici e si sono precipitati sul ponte. La voce si è sparsa rapidamente e via via si sono aggiunti altri senegalesi. In segno di vicinanza, entra nel corteo anche l’assessore comunale alle Politiche sociali Sara Funaro.
Arrivati in piazza della Signoria, sotto il Comune una delegazione viene ricevuta dal sindaco Dario Nardella. La situazione sembra calmarsi, ma nel frattempo in piazza Signoria arrivano i parenti dell’uomo ucciso. La cugina piange. Urla di dolore e rabbia che accendono la protesta. All’improvviso, in assenza dei loro portavoce impegnati col sindaco, scelgono di partire autonomamente in direzione della stazione di Santa Maria Novella: «Blocchiamo i binari» minacciano. Attraversano via Calzaiuoli, la storica via dello shopping fiorentino, distruggono fioriere e cestini della spazzatura. Alcuni turisti si barricano nei negozi.
Poi il corteo arriva in piazza Duomo dove vengono divelte delle transenne. «Siamo stanchi di essere trattati in questo modo, gli italiani sono razzisti». La situazione sembra fuori controllo. Nel corteo ci sono anche esponenti di centri sociali, se la prendono con un fotografo, si sfiora la rissa.
In via Cerretani, il traffico si blocca, volano calci contro le vetrine dei negozi. I senegalesi si avvicinano alla stazione. Sollevano altri cartelli stradali, spostano le transenne, le riversano a terra. Solo a questo punto entrano in azione i poliziotti in tenuta antisommossa. Arriva anche Pape Diaw, uno degli storici portavoce della comunità. Parla coi suoi connazionali riportando la calma. «Comprendiamo il dolore ma qualunque forma di violenza contro la città è inaccettabile» dice Nardella. Lungo le vie del centro restano i segni della rivolta.

Corriere 6.3.18
Libia, naufraga un barcone «Annegati 21 migranti»


Sarebbero ventuno, tra loro una donna incinta, le persone annegate due giorni fa nel naufragio di un’imbarcazione a 55 miglia dalle coste libiche. È il racconto fatto dai trenta sopravvissuti al personale della nave Aquarius, noleggiata da Sos Mediterranee e gestita in partnership con Medici senza frontiere. Un giovane del Gambia ha detto che sulla barca «eravamo in 51, comprese cinque donne, quattro sono affogate. Io ho perso mio fratello, è morto». Adesso a bordo della Aquarius ci sono 72 migranti, salvati in due operazioni distinte al largo delle coste africane. I naufraghi provengono da dodici Paesi e tra loro ci sono anche quattordici minorenni non accompagnati. «L’assenza di un dispositivo di soccorso adeguato — dice Nicola Stalla, di Sos Mediterranee — ha avuto un costo elevato in termini di vite. E non si hanno notizie di un’imbarcazione in difficoltà segnalata domenica».

Corriere 6.3.18
Padova, incendiata la porta della moschea


Sconosciuti domenica notte hanno appiccato il fuoco alla porta d’ingresso della moschea di via Turazza, in zona Stanga, a Padova. Intorno alle 2 una pattuglia dei carabinieri in perlustrazione ha notato le fiamme che avvolgevano l’ingresso del luogo di preghiera. L’incendio, di lieve entità, è stato spento velocemente. Per gli investigatori si tratta di un atto doloso. Trovate infatti tracce di liquido infiammabile, forse benzina.

il manifesto 6.3.18
Si riunisce il «Parlamento» cinese Difesa, crescita e Xi per sempre
di Simone Pieranni


Si è riunito in Cina l’Assemblea nazionale del popolo, il «Parlamento» cinese. Si tratta di un evento annuale, chiamato «le due sessioni» perché è riunita anche l’Assemblea consultiva.
L’appuntamento serve per ratificare quanto già stabilito dal governo e precedentemente dal partito comunista cinese. Due sono i dati che attirano ogni l’attenzione maggiore: le stime sulla crescita e la spesa militare.
PER QUANTO RIGUARDA il primo aspetto la Cina prosegue sulla sua strada: «moderata prosperità», «nuova normalità», tutti termini che ratificano una crescita minore rispetto agli anni d’oro ma in grado di soddisfare i requisiti della dirigenza. L’obiettivo di crescita economica per il 2018 sarà «intorno al 6,5 per cento», in linea con le attese ma al di sotto del 6,9 dello scorso anno.
IL TARGET è stato presentato dal premier Li Keqiang in un report. Aumenta invece la spesa per la difesa che dal 7,6 passa a un più 8,1 rispetto all’anno scorso. Anche in questo caso l’annuncio è arrivato dal premier Li Keqiang, in vista dei «grandi cambiamenti nell’ambito della sicurezza nazionale». Li Keqia

Repubblica 6.3.18
Cina, il Grande Balzo di lato “ Meno crescita, ma sostenibile”
Il premier Li Keqiang prevede una crescita più equa e moderata. La blocca al 6,5% contro il 6,9% del 2017 e chiede ai governi locali di stringere la cinghia per ridurre il deficit
di Filippo Santelli


Pechino Un po’ meno in avanti, decisamente di lato. Il prossimo balzo della Cina, nella visione del presidentissimo Xi Jinping, dovrebbe far cambiare strada alla sua economia. Dalla crescita matta e disperatissima che l’ha resa fabbrica del mondo, con costi sociali e ambientali enormi, a uno sviluppo di “alta qualità”, più sostenibile ed equo. Anche sacrificando, se necessario, qualche decimo di Pil. Ieri è stato il premier Li Keqiang, fedele al pensiero di Xi e a 45 pagine di discorso prestampato, a tradurre questa “ nuova era” in numeri, di fronte all’Assemblea del Popolo riunita nella Grande sala di Piazza Tienanmen. Nel 2017 l’economia cinese ha battuto di quattro decimi le previsioni, al 6,9%, ma per quest’anno l’asticella delle attese viene rimessa allo stesso livello, +6,5%. E omettendo la canonica formula “più in alto se possibile”. « Per Pechino non si tratta più di un obiettivo minimo – spiega l’economista di Asia Analytica Pauline Loong – ma del massimo raggiungibile».
La Cina insomma rallenta, ma l’ardita scommessa di Xi, per la stabilità del Paese e del suo stesso potere, è che possa assorbire la frenata. Necessaria invece a disinnescare le mine che minacciano di esploderle sotto i piedi. La principale si chiama debito, arrivato oltre il 250% del Pil, e non a caso nelle tabelle di Li è prevista una riduzione del disavanzo dal 3 al 2,6%, livelli su cui neanche i falchi di Bruxelles avrebbero da obiettare. Ai governi locali si chiede di «stringere la cinghia », ieri Xi lo ha detto di persona ai delegati della Mongolia Interna, tra le regioni con le voragini più preoccupanti. Quanto al governo centrale, gli investimenti non saranno ridotti, ma concentrati su priorità: infrastrutture, tecnologia, spese militari. Già, ieri Pechino ha rivelato che il budget per le forze armate quest’anno crescerà dell’ 8,1%. Molto più del Pil, al contrario di quanto assicurava un portavoce solo qualche ora prima. Un annuncio che ha fatto sobbalzare i vicini asiatici, sempre più preoccupati dalla decisione con cui la Cina proietta il suo potere oltre confine. Ma più ancora del debito pubblico, è la bolla di quello privato che Xi sembra avere urgenza di disinnescare. Il messaggio ai rampanti capitali cinesi è già partito nei giorni scorsi, con il commissariamento di due colossi privati come Anbang ( assicurazioni) e Cefc ( petrolio), e la minacciosa incriminazione dei loro fondatori: l’epoca dell’espansione a tutti i costi deve finire. Li Keqiang ha annunciato una “ repressione” contro chi architetta acrobazie finanziarie. Mentre il regime si prepara a cambiare faccia alle autorità di regolazione: rafforzare quella bancaria, o addirittura fonderla con quella assicurativa. Una maxi authority la cui regia potrebbe essere affidata al braccio destro economico di Xi, Liu He.
È un percorso in bilico tra normalizzazione e depressione, tra controllo del partito e stimolo dell’imprenditoria. L’obiettivo dichiarato, quel “benessere moderato” che nel 2035 porterebbe il Paese al livello degli Stati Uniti. Per raggiungerlo Xi ha altre due battaglie da vincere: contro diseguaglianze e inquinamento. Aspettiamoci pochi prigionieri. Per far uscire altri dieci milioni di cittadini dalla soglia dell’indigenza, nel 2018 il regime è pronto a “ricollocarne” quasi 3 milioni, spostandoli d’autorità dalle zone più remote del Paese verso aree più sviluppate. E per abbassare i consumi energetici (il 3% in meno per ogni punto di Pil), riconsegnando ai cinesi i “cieli azzurri” oscurati dalle emissioni, è pronto a chiudere dall’oggi al domani le industrie più inefficienti, in particolare acciaio e carbone. Significa cancellare migliaia posti di lavoro nella “ cintura della ruggine” del Nordest, il cuore della vecchia industrializzazione cinese. Possibile, come promette il governo, che nel frattempo ne nascano altri 10 milioni nelle città, spinti da hi- tech e digitale. Ma altrove, a Shenzhen o Shanghai, per altre persone. “ Prima la qualità”, per la Cina si annuncia quindi una rivoluzione dolorosa. Un salto di dieci anni, se non quindici o venti, con l’altissimo rischio di rimanere a metà del guado. È questo il tempo che Xi sta cerando di costruirsi, smantellando i cicli decennali che avevano contenuto i leader precedenti. Ma sapendo che solo mantenendo le promesse, quel tempo riuscirà davvero ad averlo.

La Stampa 6.3.18
La Cina tra stupore e preoccupazione
“È il segno della crisi della vostra democrazia”
di Francesco Radicioni


«Vogliamo lavorare con l’Italia per assicurare maggiori progressi alla nostra amicizia e cooperazione». Il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Geng Shuang, ha scelto con grande cautela le parole per rispondere a una domanda sulle elezioni in Italia. A commento dei risultati, i media cinesi hanno invece parlato di «parlamento sospeso» e «trionfo del populismo». A Pechino gli analisti osservano con crescente preoccupazione l’instabilità tra i Paesi Ue, così come l’acuirsi di posizioni populiste e anti-globalizzazione. «Queste elezioni italiane mostrano quasi tutti i sintomi della crisi delle democrazie occidentali», scriveva in un commento il Huanqiu Shibao. «I partiti politici tradizionali sono in declino, c’è l’ascesa di forze estremiste, i candidati anti-sistema sono popolari, gli elettori si allontanano dalla politica e il tasso di astensionismo raggiunge picchi inediti». Invece, per il Global Times, «l’incapacità italiana di dotarsi di un’identità ha portato a un’implicita mancanza di coesione sociale e a una piattaforma per il trionfo dell’odio». «I risultati elettorali in Italia - proseguiva il giornale di Pechino - sono la prova di danni più grandi per l’Europa». Le elezioni nel nostro Paese non hanno mancato di catturare l’attenzione anche su Weibo e sui social cinesi.

Corriere 6.3.18
La grande fuga dai dem: un quinto a casa, 14% a M5S (che piace ai «debuttanti»)
di Nando Pagnoncelli


Dentro un centrodestra «granitico» si espande nettamente la Lega
Il Movimento si conferma trasversale pescando consensi un po’ ovunque
I risultati del voto ci consegnano un Paese profondamente trasformato. La vittoria è alla fine arrisa al centrodestra, definitivamente a trazione leghista, e al Movimento 5 Stelle. Drammatico invece l’arretramento del Partito democratico, arretramento che, per quanto annunciato, è avvenuto in misura superiore alle previsioni. E in generale si tratta di un arretramento nemmeno parzialmente compensato dai risultati della lista +Europa. Fallito anche il progetto di Leu, formazione fermatasi ad un risultato di poco superiore alla soglia di sbarramento. Complessivamente presa, la sinistra manifesta anche in Italia la crisi che già è emersa in diversi Paesi europei.
Ma quali sono le ragioni di questa ridislocazione dell’elettorato? Per cercare qualche spiegazione è utile partire dai flussi di voto dal 2013 a oggi. Si tratta di flussi ricostruiti a partire dai sondaggi, su una base di circa 16.000 interviste condotte nel mese precedente il voto e riponderate sui risultati reali.
Il primo elemento, molto evidente, è la disaffezione di una parte importante dell’elettorato pd. Infatti oltre un quinto degli elettori della coalizione Bersani 2013 ha deciso di astenersi. Si tratta di un dato già annunciato dai sondaggi: era evidente che una quota importante di elettori pd del 2013, fortemente indecisi (basti pensare che rappresentavano il segmento più rilevante tra gli incerti della vigilia), era in attesa di un segnale da parte del segretario del partito. Un ritorno al «noi», uno sguardo rivolto al futuro rispetto alla ripetuta rievocazione delle misure adottate dal suo esecutivo, un’investitura del presidente del consiglio Gentiloni. Tutto questo non è avvenuto o è avvenuto in misura insufficiente rispetto alle attese. Da qui la decisione di astenersi. Accanto a ciò vi sono flussi consistenti verso i pentastellati (votati dal 14% circa degli elettori di centrosinistra del 2013) e in misura minore verso Leu (7%). Quindi meno della metà degli elettori di area vota Pd e solo poco più della metà torna a votare la coalizione. Una vera fuga, solo in parte compensata dagli ingressi, provenienti principalmente da chi nella tornata precedente aveva votato per forze centriste.
Viceversa gli elettori di centrodestra sono granitici: galvanizzati dal pronostico di una vittoria, quasi tutti tornano al voto e all’incirca il 90% conferma la propria predilezione per la coalizione, accentuando però nettamente le preferenze per la Lega. Pochi i punti di fuga, quasi esclusivamente verso il Movimento 5 Stelle (circa 8%). La Lega evidenzia una capacità espansiva importante, recuperando voti da chi nel 2013 si era astenuto, ma anche dagli elettori M5S e centristi.
Molto solidi anche gli elettori pentastellati: oltre tre quarti confermano il proprio voto tra una tornata e l’altra, con scarsissime dispersioni, le principali delle quali sono verso l’astensione (circa il 9%) e la Lega (circa il 6%). Dall’altro lato l’attrattività del Movimento è molto elevata: il 14% degli elettori di centrosinistra, il 13% degli elettori centristi, oltre il 20% degli elettori delle piccole liste convergono su questa formazione, che conferma una elevata trasversalità.
È interessante osservare cosa avviene tra gli elettori al primo voto. Qui si trovava, nelle nostre ricerche pre-elettorali, un orientamento importante verso il Movimento 5 Stelle, ma anche una presenza rilevante di consensi verso il Pd, veicolati in particolare dagli studenti. Infine, una discreta attenzione verso la Lega. Alla fine anche qui per il Pd ha prevalso l’allontanamento: una quota non trascurabile infatti si è astenuta, riducendo il consenso per questa formazione ai livelli della Lega (poco oltre il 10%), mentre si è confermata anche qui la capacità attrattiva del Movimento.
La forza «grillina» tra gli statali
Gli elettori pd perdono molte delle loro classiche connotazioni, mantenendo solo una presenza importante nelle classi di età più elevate e tra i pensionati. Il primato di un tempo tra ceti medi e laureati è oramai in gran parte eroso. Fortemente caratterizzata in questo senso invece la lista Bonino, che tra studenti, laureati, ceti elevati e ceti medi ottiene i risultati migliori. Si conferma quindi che questa lista è stata la scelta effettuata da chi era scontento del Pd, ma la misura del suo consenso è rimasta abbondantemente al di sotto delle potenzialità, proprio perché una parte significativa di questo elettorato ha preferito astenersi.
Nel centrodestra la Lega massimizza i propri consensi tra i lavoratori autonomi e gli operai, ma ottiene consensi rilevanti tra le casalinghe. È come se avesse fatto proprio il nerbo del voto per Forza Italia che oggi appare assai meno caratterizzata, salvo un picco tra i disoccupati, attratti dalle promesse berlusconiane.
Un consenso uniforme
Il Movimento 5 Stelle risulta molto trasversale: si possono soprattutto sottolineare i segmenti che lo votano un po’ meno (simili a quelli che votano un po’ di più Pd: età elevate, laureati, pensionati), ma non ci sono picchi particolari di consenso. Segno di una formazione capace di penetrare nel corpo vivo dell’elettorato. Unica eccezione i dipendenti pubblici, dove il Movimento è fortemente presente. Un tempo bacino di voti per il centrosinistra, costoro sembrano essersi definitivamente spostati.
Infine Liberi e uguali evidenzia un consenso un po’ superiore di nuovo nei segmenti che appaiono essere critici verso il Pd: ceti medi, studenti, laureati. Ma, come per +Euro pa, la sua capacità attrattiva non è stata sufficiente per battere la spinta all’astensione più volte evidenziata in quest’area.
Infine il dato territoriale merita solo un rapido commento nella sua cristallina evidenza. Il Nord al centrodestra, in maniera massiccia. Solo il Trentino e in parte Milano e Torino si comportano diversamente. Nel Centro Nord, le vecchie regioni «rosse» lo sono oramai sempre meno. I collegi maggioritari rimasti a quest’area sono pochi e non sufficienti a far parlare di una terza Italia. Marche e Umbria scompaiono, fagocitate da centrodestra e 5 Stelle. Il Sud con poche eccezioni è patrimonio del Movimento. Qui nessun collegio al centrosinistra.
È un cambiamento profondo. Forse anche perché le previsioni erano comunque di ingovernabilità, molti elettori hanno votato esprimendo il loro disagio. Raccogliere questo disagio e trasformarlo in progetto di governo non sarà semplice. I giochi riman gono comunque tutti aperti.

La Stampa 6.3.18
Pd, 5 milioni di elettori in fuga
Uno su tre calamitato dal M5S
Solo 450 mila dem pentiti verso LeU. Il 25% dei voti per la Lega sfilati a Fi Carroccio e Cinque Stelle intercettano la maggioranza degli astensionisti
di Paolo Baroni


Il Movimento 5 Stelle che cannibalizza il Pd e la Lega che prosciuga Forza Italia e recupera voti tra gli astenuti. I dati quasi definitivi del voto di domenica (ieri sera alle 21 su 61.401 seggi ne mancavano ancora 35 con 12 collegi uninominali della Camera e 26, con 7 collegi, del Senato) confermano che ci sono due vincitori: l’M5S, primo partito col 32,7% dei consensi (32,2% al Senato), ed il centrodestra prima coalizione in assoluto col 37,2% con la Lega che sta 3 punti sopra Forza Italia. Confermata la caduta del Pd, che frana al 19%, ed il flop dell’intero centrosinistra che si ferma al 22,9%. Come pure il modesto risultato di LeU (3,3%). A sera l’attribuzione dei seggi non era ancora ufficiale. Stando però alle proiezioni di Youtrend per SkyTg24 il Centrodestra ne otterrebbe 267 alla Camera e 135 al Senato, l’M5S 229+114, il Pd 108+53 (117+59 l’intero centrosinistra), mentre a LeU ne andrebbero 14+5. In pratica nessuno hai voti sufficienti per formare una maggioranza.
La frana del Pd
Il dato «più clamoroso», secondo l’analisi dell’Istituto Cattaneo di Bologna, è ovviamente quello del Pd che paga la sostanziale smobilitazione dell’elettorato tradizionale nelle sue aree storiche di insediamento a partire dall’Emilia. In pratica i dem sarebbero vittime di una sorta di «astensionismo asimmetrico», col risultato che rispetto alle politiche del 2013 perdono ben 2,6 milioni di voti, il 30,2% del totale. Il Pd perde quote rilevanti di voti a favore dell’M5S e spesso anche verso la Lega. Rispetto al boom del 2014, quando arrivò al 40%, Renzi deve così rinunciare ad oltre 5 milioni di voti. Di questi, stando all’Swg, oltre il 15% (1,68 milioni di elettori) ha optata per l’astensione. Un altro terzo (3,36 milioni di elettori) ha invece voltato le spalle all’ex premier, preferendo in gran parte il movimento guidato da Luigi Di Maio a cui sono finiti ben 1,88 milioni di voti (16,8%) e in secondo luogo +Europa che intercetta il 3,4% dei vecchi elettori Pd (e 380 mila voti). Un 8% degli oltre 11 milioni di elettori che avevano scelto il Pd, ovvero altri 900 mila voti scarsi, ha invece cambiato completamente schieramento optando per il centrodestra, mentre un altro 4% (450 mila voti scarsi) ha optato la sinistra di Liberi e Uguali che riceve dal Pd «solo» il 34,6% dei suoi lettori.
La Lega svuota Fi
Sempre secondo il Cattaneo nel Centro-Nord la Lega (che si rivela «attrattiva a 360 gradi») strappa voti anche ai pentastellati, mentre al Sud i 5 Stelle sono una sorta di «pigliatutto». Secondo Swg quasi un terzo degli elettori della Lega (29,5%) proviene dalle file dell’astensionismo, un altro 25,5 è stato invece sfilato a Forza Italia. Che a sua volta sconta una significativa emorragia visto che il 14,7% dei voti del 2013 si è tradotto in astensioni. Rispetto a 5 anni fa il centrodestra comunque conquista 1,9 milioni di voti in più (da 10,1 a 11,99 milioni, + 18,7%). Ma mentre Fi perde il 38,1% dei consensi la Lega li triplica, arrivando così a ribaltare i pesi all’intero dello schieramento con Salvini al 55,5% della «ditta» e Berlusconi appena al 44,5, cosa mai avvenuta dal 1994 in poi.
M5S «pigliatutto»
I 5 Stelle rispetto al 2013 hanno conquistato 1,5 milioni di voti in più (a quota 10,5 milioni, +20,9%). Secondo l’Swg in particolare hanno recuperato molti astenuti (il 19,5% di chi li ha votati domenica non lo aveva fatto alle europee). Per il Cattaneo però oltre a intercettare voti in uscita dal Pd (9,8%), nelle città del Nord e del Centro i grillini subiscono significative perdite a favore della Lega. Mentre al Sud avviene l’opposto, con l’M5S che ruba voti al Centrodestra.
Arginato l’astensionismo
Osservando le curve sulla partecipazione al voto, che ha tenuto rispetto al 2013 (72,9 contro 75%), secondo il Cattaneo che parla «ri-mobilitazione differenziata» tra Nord e Sud, l’M5S è riuscito a mobilitare l’elettorato meridionale «scontento per l’operato del governo», mentre la Lega ha catalizzato i voti di tanti elettori che nel 2013 avevano abbandonato elusi il centrodestra. In entrambi i casi M5S e Lega, intercettando il voto di protesta, sono riuscite ad arginare l’astensionismo e se non addirittura a ridurlo come è avvenuto in gran parte del Sud.

Repubblica 6.3.18
Una crisi storica
Io e le anime rimaste senza corpo ecco l’anno zero della Sinistra
Anime senza un corpo. Così si sono svegliati, la mattina del 5 di marzo, milioni di italiani di sinistra.
di Michele Serra


Con qualche significativa variazione di umore, forse meno smarriti i pochi rassegnati a essere in pochi (o contenti di esserlo), più dolenti e sbalorditi i tanti che avrebbero preferito essere in tanti. Ma tutti, dal moderato al radicale, accomunati da una sensazione di vuoto che il peso altrui, enormemente accresciuto, rende ancora più evidente.
I leader vanno in televisione, gli opinion maker spiegano e discettano, il cosiddetto establishment ha le antenne lunghe e sa come riciclarsi: ma gli elettori, i cittadini, l’immensa fanteria della politica, affrontano in solitudine le stesse sconfitte dei loro generali senza nemmeno il conforto di sentirsene protagonisti.
Dirà il futuro, e lo dirà in fretta, se questa comune condizione di inconsistenza, di sbaragliamento, servirà almeno a lenire l’odio reciproco dei capi, l’eterno rinfacciarsi colpe sorvolando sulle proprie. Ma è un problema soprattutto degli stati maggiori, seduti sulle macerie. Le anime sciolte della sinistra, nel frattempo, vanno al lavoro, salgono in macchina, accendono il computer, leggono il giornale, guardano le strade, le case, le facce degli altri per verificare come e quanto sia mutato il loro paese.
Lo guardano con il timore di non riconoscerlo più e di non esserne più riconosciuti.
Questa sensazione di estraneità passerà presto.
Molto presto.
È un’angoscia violenta ma superficiale, passa come passano gli sfottò degli avversari, cose da dopo-partita, contraccolpi del tifo. Così come il fiorire (autosatira amara) di “fughe all’estero” che in queste ore prosperano sui social, come quando Cuore, secoli fa, dopo la prima storica vittoria di Berlusconi — che quanto a trauma certo non fu meno grave — titolò “Saluti da Parigi”, con un fotomontaggio (non ancora photoshop) della redazione sotto la Tour Eiffel.
Agli italiani di sinistra basterà poco per sentire di nuovo il terreno sotto i piedi, sciogliere il crampo allo stomaco, riconoscere il paesaggio (no, non c’è la Tour Eiffel). E dirsi: ne abbiamo vissute tante, vivremo anche questa. Siamo a casa nostra.
Quella che rimarrà, molto più profonda perché meno emotiva, più strutturale, è invece la coscienza, questa sì epocale, della fine di un corpo politico che ha camminato insieme a loro per le strade per molti decenni e almeno un paio di generazioni, anzi almeno tre, dalla nascita della Repubblica a oggi. È al riparo di quel grande corpo che si camminava, insieme ombra dei Padri e voce dei figli, memoria e speranza, corteo popolare e classe dirigente, intellettuali e gente semplice.
La Sinistra, comunque si sia chiamata, comunque abbia ridipinto le proprie insegne, come partito di massa, presenza comunque imponente, e potente, nelle sue varie mutazioni. Quel partito non esiste più.
Dirlo può significare, per chi fa politica di mestiere, oppure la commenta, riaprire l’interminabile capitolo delle scissioni, dei tradimenti, delle prepotenze, delle cecità. Ma poco importa, questo, alle anime senza corpo che sanno definitivamente, da ieri — e non è detto che sia un male — che quel partito è veramente morto, né il fatto che il Pd sia pure sempre il secondo partito italiano può rimediare in qualche maniera al grande “rompete le righe” che incombe.
Per alcuni degli orfani di quella famiglia — la Sinistra che protegge e consiglia, dirige e accoglie — il lutto era già elaborato: sono i milioni di elettori ex di sinistra che hanno spostato, e non da ieri, il loro voto sui 5 stelle, la grande misteriosa nave che tutti imbarca senza chiedere da dove vengono e senza dire dove è diretta (probabilmente perché non ne ha idea). Per loro la Sinistra era già un corpo svuotato, un grosso fantoccio disarticolato. Un involucro insignificante. Una casa da abbandonare.
L’hanno lasciata senza rimpianti, e anzi con il sollievo, legittimo, di mettersi in salvo in una nuova comunità politica.
Ma per gli altri (e sono molti milioni di italiani, più di quelli che hanno abbandonato il campo) che nella Sinistra ancora volevano e vorrebbero abitare, e non si accontentano di essere avanguardia saccente o manipolo marginale, il momento è tremendo. L’unica certezza è che dovranno ripartire da zero: come si deve fare in ogni anno zero.

Corriere 6.3.18
Rottamati i rottamatori, prima rimonta fallita dal Cavaliere
Il 4 marzo una classe dirigente è stata sommersa dal «nuovo»
Seconda Repubblica, tramonto improvviso come accadde nel ’94
di Pierluigi Battista


Di sinistra o di destra, del Nord o del Sud, più anziana o più giovane, il 4 marzo del 2018 la classe politica della Seconda Repubblica è sprofondata. Come nel ’94, quando i politici della Prima Repubblica furono depositati nella soffitta dei ferrivecchi. Arrivarono i «nuovi», i berlusconiani, i leghisti. Cambiarono abiti, linguaggi, modi d’essere, riferimenti ideologici. Oggi, nel terremoto elettorale che ha cambiato i connotati del sistema politico, sono stati travolti anche loro, i nuovi del ’94 messi ai margini 24 anni dopo. Ma come, Matteo Salvini non è forse leghista? È leghista, ma un leghista completamente diverso dai leghisti storici. Ha politicamente seppellito Bossi, Maroni, quasi l’intera classe dirigente del Carroccio nordista e indipendentista. Ha un lessico completamente diverso, è nazionalista, sovranista, populista, ha cancellato il Nord dalle insegne del partito di impronta bossiana.
La classe dirigente che ha lasciato il Pd per farsi una lista tutta sua? Spazzata via, confinata nell’angolo dell’insignificanza. Massimo D’Alema, uno dei protagonisti di punta della stagione della cosiddetta Seconda Repubblica, patisce una sconfitta umiliante in Puglia. Pier Luigi Bersani chiude il suo ciclo politico, Maurizio Crozza dovrà fare a meno di lui. E Vasco Errani, Enrico Rossi, i sindaci come Zanonato: capitolo chiuso. I grandi collettori di voti del Sud che sono stati l’ossatura elettorale del Pd nel Mezzogiorno: il chiudersi di una stagione per Michele Emiliano in Puglia dove i 5 Stelle sfiorano il 50 per cento, o per De Luca e famiglia in Campania, dove i 5 Stelle quel 50 per cento lo superano. Anche qui, Maurizio Crozza dovrà studiare per trovare bersagli satirici di nuovo conio. E nel Partito democratico, si sono oscurati molto presto gli astri che avrebbero dovuto brillare prendendo il posto della generazione dei fondatori. Molti se n’erano già andati prima. Adesso il Giglio Magico è tragicamente appassito, i rottamatori sono stati rottamati. Si presentavano come il nuovo ma erano i figli di un partito che nel 2013 aveva già drammaticamente perso le elezioni. Hanno assaggiato il potere con un 25 per cento gonfiato fino al 70 da un premio di maggioranza che per la sua enormità è stato dichiarato incostituzionale, e in pochi anni, malgrado l’anagrafe, sono stati considerati vecchi dall’elettorato. Avrebbero voluto essere l’annuncio della Terza Repubblica, sono stati nei fatti l’ultimo capitolo della Seconda che ora sta scomparendo.
Ed era un’illusione ottica anche lo strabiliante recupero di Silvio Berlusconi, il dominus simbolico della Seconda Repubblica. Questa è stata la prima campagna elettorale che lui ha davvero perduto: le altre, anche se il risultato finale non è stato un successo, sono state lo scenario di recuperi pazzeschi, di rimonte spettacolari, di show da numero uno. Ma stavolta la sconfitta con il suo alleato-rivale Salvini è stata secca e senza attenuanti. Il centrodestra berlusconiano così come lo abbiamo conosciuto in ventiquattro anni, con un leader certo, un portatore maggioritario di voti e di consensi, è svanito, ingoiato dalla poderosa macchina salviniana. E tutto il mondo berlusconiano della Seconda Repubblica appare frastornato, dovendosi acconciare a un ruolo di secondi in uno schieramento che non è detto possa durare più di tanto, se le vicende parlamentari dovessero prendere direzioni impreviste. Messo alle corde il Pd, ridotta a un ruolo secondario Forza Italia, simbolicamente cancellata la sinistra che aveva rimproverato Renzi di non essere abbastanza di sinistra, lo scenario politico italiano cambia radicalmente protagonisti, classi dirigenti, linguaggi, antropologie. Così come i politici della Prima Repubblica cercarono disperatamente di infilarsi nella corrente dominante della Seconda, anche adesso gli sconfitti della Seconda cercano di giocare un ruolo nella nuova stagione politica. Non sarà facile. Solo Pier Ferdinando Casini è riuscito a vincere la sua battaglia sotto il ritratto di Palmiro Togliatti. Ma ci vuole stoffa.

il manifesto 6.3.18
La sinistra perde, Renzi annuncia l’ultimo esorcismo
di Norma Rangeri


Sonora e brutale, la sconfitta della sinistra è arrivata pesante e netta. Parlavamo di cattivi presagi più che di convinte speranze, e purtroppo non siamo stati smentiti.
Il flop della lista di Liberi e Uguali è tutto racchiuso in quella percentuale del 3,4%, la stessa del partito di Vendola e Fratojanni nelle elezioni del 2013, allora alleati con Bersani. I fuoriusciti del Pd non hanno trovato un consenso elettorale e per ricostruire una sinistra non basterà qualche aggiustamento, non lo consente il terremoto politico provocato dalle elezioni.
Un paese diviso a metà tra Lega e 5Stelle è lo specchio della società che il voto ci restituisce, obbligando tutti a riflettere sul distacco della sinistra dalla vita del paese, sulle risposte mancate o troppo pigre al disastro sociale provocato dalla crisi, sulla sottovalutazione dell’impresentabilità della classe dirigente che ci ritroviamo. Perché ci sono pochi dubbi sulla radicalità della protesta espressa da questo voto.
E se le forme e i contenuti che essa esprime non sempre fanno della società civile un esempio di virtù, girare la faccia dall’altra parte, regalarsi fittizie consolazioni non serve più, e da gran tempo. A Macerata, altro territorio interessante di questo voto, la Lega ha vinto. Ora anche noi abbiamo un bel partito lepenista da combattere, come in Europa, come in Francia, come in Germania, come nei paesi dell’Est europeo.
Questo sarà naturalmente oggetto della discussione che la lista di Grasso farà dopo la sconfitta, ammessa senza scuse come la delusione rispetto alle attese. Si ricomincia da tre, cioè dal piccolo zoccolo che ha permesso di superare faticosamente la soglia di sbarramento del Rosatellum. E in questa discussione entrerà giocoforza la valutazione del risultato dei 5Stelle.
I voti persi da Renzi non sono andati a Leu ma più realisticamente, almeno in parte, ai 5Stelle, protagonisti di una escalation che ha colorato di giallo mezza Italia, l’Italia del Sud, da ieri trasformata in un monocolore. Un voto che oltrepassando anche il 60% ha dentro tutto, come succede quando un fiume rompe gli argini. Nell’analisi sugli 11 milioni di elettori guadagnati dai figli di Grillo e Casaleggio, sarà interessante guardare ai flussi, ma già si capisce che un travaso dal Pd ai 5Stelle c’è stato. Hanno vinto i duelli nei seggi uninominali per il senato di Campania, Puglia (governata dal grillino Emiliano del partito democratico), e Sicilia, dove i 5Stelle profittano del crollo interno al centrodestra, dello sfarinamento delle correnti democristian-berlusconiane. Anche la Sardegna è a 5Stelle. Per questo, prima si abbandonano gli occhiali della propaganda e prima si comincerà a non accontentarsi di equiparare questo 32% a una delle tante facce della destra. A meno di non voler regalare alla marea nera anche gli 11 milioni di cittadini a 5Stelle, oltre a quelli che hanno scelto Salvini e il centrodestra.
Nel grande gioco delle coalizioni, Di Maio gioca da protagonista, e si presenta con la camicia del primo della classe, sicuro e già pronto alla fase due, quella del governo, dei punti del programma sui quali tutti gli altri attori in campo sono chiamati a rispondere. Salario, pensioni, precarietà, lavoro e reddito di cittadinanza ecco alcuni cavalli di battaglia sul piatto delle trattative di governo.
Renzi, annunciando ieri le sue dimissioni da segretario, ha fatto capire che non se ne andrà. Anzi chiama il partito a una specie di resa dei conti congressuale e intanto dice qual è la linea da portare al Quirinale nelle consultazioni, ovvero «con gli estremisti mai», dunque se (forse) lascerà la segreteria ciò avverrà solo dopo la formazione del governo che non lo vedrà partecipe di alleanze con i 5Stelle.
La botta è stata così forte che il dimissionario segretario si è fatto gran vanto di essere stato eletto senatore della Repubblica, individuando nel recinto fiorentino il suo rifugio politico. Ricordiamo tutti lo slogan «saremo il primo gruppo parlamentare», quando credeva che la legge elettorale gli avrebbe consentito di far man bassa nei collegi. Oggi il Pd, rottamato al 18%, vale quanto la Lega di Salvini che, proprio grazie al Rosatellum, avrà il doppio dei parlamentari di Renzi.
Il leader Pd non riesce ad accusare il colpo e ripete un po’ ossessivamente «quanto bene abbiamo fatto, non siamo stati capiti», perdendosi dietro inutili rimpianti sulla mancata elezione di Minniti a Pesaro (ma il ministro sarà in parlamento perché gode del paracadute al proporzionale). Sembra frastornato e parla delle prossime primarie, puntando il dito contro chi, nel Pd, vorrebbe commissariarlo. Se continua l’emorragia, le sue primarie saranno più che l’occasione per un improbabile rilancio, un ultimo esorcismo.

La Stampa 6.3.18
Tomaso Montanari
“Il Pd faccia un gesto di dignità
si allei con i 5 Stelle al governo”
Lo storico dell’arte che lanciò l’appello per una lista di sinistra “Liberi e Uguali ha fallito, doveva essere più antisistema”
di Roberto Giovannini


Flop catastrofico di Liberi e Uguali, il Pd ai minimi termini e ostaggio del segretario. La sinistra è terremotata, distrutta. Si può dire che lei, professor Tomaso Montanari, l’aveva detto?
«Mi dispiace molto aver avuto ragione. Liberi e Uguali era un esperimento sbagliato costruito a tavolino. Serviva una forza che contendesse i voti ai cinquestelle, non al Pd. I promotori di LeU hanno pensato - ancora con l’ossessione della “Ditta” da riprendersi - di rivolgersi all’elettorato moderato del Pd. Con toni moderati, e soprattutto con una proposta di personale politico tutta fatta di professionisti in cerca di conferma. Non c’era nulla di nuovo né nelle idee né nelle persone. LeU è apparsa un correntone esterno al Pd. La scelta di Grasso e l’arrivo della Boldrini sono stati il sigillo finale. È stata costruita una piccola ridotta di “sistema” di sinistra, nel momento in cui bisognava invece prendere coraggiosamente posizioni antisistema di sinistra, come proponevamo noi del Brancaccio».
Mi scusi: a dire il vero una forza antisistema di sinistra - cioè Potere al Popolo - non è che abbia fatto sfracelli.
«Ma quello è il voto di Rifondazione. Mentre LeU ha preso il voto di Sinistra Italiana e di Possibile, più qualche zero virgola di Mdp, che non è mai esistito. I numeri sono quelli. Potere al Popolo, che candidava il segretario di Rifondazione, poteva davvero sembrare una cosa nuova? Noi del Brancaccio proponevamo un’iniziativa che parlasse a molte persone, non una forza settaria rivolta alla militanza storica».
Ma avrebbe potuto funzionare? La protesta antisistema di sinistra è stata largamente assorbita da M5S.
«Se posso citare una cosa che mi riguarda personalmente, il fatto che i cinquestelle mi abbiano proposto di fare il ministro della Cultura, e il fatto che io abbia detto di no, dimostra come nel tentativo del Brancaccio ci fosse l’idea di parlare a quel mondo, senza pastoie partitiche e con un personale politico nuovo. Perché tra noi e loro c’è una certa affinità: dentro i cinquestelle c’è un pezzo importante di popolo di sinistra, lo dicono i risultati elettorali. Un popolo con cui bisognava dialogare, e con cui si può ancora dialogare. Ma solo facendo un vero “punto e a capo”. Non ci può essere nessuna forma di continuità con l’esperienza di LeU. Secondo me, i pochi eletti di Liberi e Uguali dovrebbero dimettersi e lasciare il posto a gente completamente nuova. Non è pensabile che un gruppo di capitani che hanno portato la nave sugli scogli, e che si è salvato contro ogni regola entrando in Parlamento, possa ricostruire qualcosa. Quella storia è finita per sempre. Nulla di Liberi e Uguali né di Potere al Popolo può avere un futuro. A mio parere la sinistra del futuro deve avere una discontinuità totale con questo personale politico. Totale. Devono trovarsi un altro impiego diverso dalla politica».
Quindi, «pasokizzato» (scomparso, come il partito socialista greco Pasok) il Pd, pasokizzati anche quelli di LeU...
«Si sono voluti buttare sulla pira funeraria di Renzi e del Pd».
E il Pd? Renzi non ne vuole sapere di favorire la nascita di un governo di M5S. Che ne pensa?
«Renzi a quanto pare ha in mente una piccola Repubblica di Salò. Ma se il Pd - o una sua parte pulita - dopo questo disastro vuole evitare l’ignominia, e fare qualcosa di utile per il Paese, deve fare un governo con i cinquestelle. L’alternativa è buttare l’Italia in mano alla destra fascista. Sarebbe un gesto di dignità, di senso dello Stato e del bene comune».
Si è fatto il suo nome, come premier di una coalizione tra M5S, Pd e LeU.
«Io faccio un altro mestiere. Ma trovare una personalità che possa tenere insieme questi mondi non è impossibile».
Un governo per fare cosa?
«Una legge elettorale secondo la Costituzione, e un programma minimo per gestire il tempo necessario per tornare a votare. Non facile, ma non impossibile: bisogna sedersi intorno a un tavolo e provare a parlare».

La Stampa 6.3.18
Domenic De Masi
“M5S come Berlinguer al Sud ha conquistato i proletari
di Andrea Carugati


«Il Movimento Cinque Stelle è la nuova forza socialdemocratica in Italia, il partito delle periferie, dei disoccupati, degli operai, del Sud. Raccoglie la stessa base sociale che una volta era del Pci di Berlinguer», spiega Domenico De Masi, sociologo, esperto di lavoro, che ha contribuito con alcuni studi al programma pentastellato senza aderire al M5S.
Di Maio e gli altri rifiutano ogni etichetta di destra o di sinistra. È sicuro che siano eredi della sinistra?
«Il voto ci dice che la metà degli italiani è in una condizione di disagio, che si esprime a favore della Lega e del M5S. Gli elettori del M5S hanno oggettivamente un reddito medio più basso di quelli degli altri partiti, soprattutto al Sud. Al di là di come ognuno di loro si collochi in uno schema destra-sinistra, l’elemento che prevale è la condizione sociale, che in larga parte è quello che una volta si chiamava proletariato».
Il voto a Salvini rientra nella stessa dimensione?
«Direi di no, il successo della Lega al Nord, dove il Pil è assai più elevato, per me resta un mistero: penso prevalgano la paura dell’immigrazione, il rancore».
Crede che il Movimento possa e debba governare?
«Si farà di tutto per impedire che governino. Se il Pd fosse rimasto una forza socialdemocratica, un’alleanza tra loro sarebbe stata l’occasione di una svolta storica per ridurre le diseguaglianze. Ma il Pd oggi è un partito neoliberista che ha fatto dei grillini il nemico, Renzi ha fatto fuori dalle liste quasi tutti gli eredi della tradizione socialista».
Dunque governeranno?
«Io consiglierei loro un altro periodo all’opposizione, per diventare più esperti e tentare di ottenere comunque dei cambiamenti sociali come fece il Pci nella Prima Repubblica».
Li ritiene in grado di governare?
«Forse è ora di finirla col dire che sono impreparati. In 5 anni sono passati dal 25 al 32%, sono il movimento anti-sistema più forte d’Europa. E Di Maio, a 31 anni, ha fatto un’eccellente campagna elettorale: con calma, senza urlare, pacifico».
Crede che il M5S sia un fenomeno duraturo?
«Durerà perché il disagio sociale in Italia non è un fenomeno destinato a chiudersi in tempi brevi. Siamo un Paese arretrato, con il 23% di laureati, numeri che ricordano alcuni Paesi africani».
Il successo di Di Maio è paragonabile a quello di Trump?
«Non direi proprio. Di Maio è un disoccupato che viene dalla periferia di Napoli, Trump un miliardario. E il M5S ha fatto campagna autofinanziandosi, non con le lobby dei petrolieri e delle armi. Semmai è Salvini quello che cerca di scimmiottare Trump».
Perché questo tracollo del Pd?
«Perché di socialdemocratico ha lasciato solo l’etichetta, e ha fatto politiche neo liberiste come il Jobs Act. Le diseguaglianze sono cresciute e le famiglie se ne sono accorte. Così come i posti di lavoro che sono stati creati sono in gran parte temporanei e mal pagati. La narrazione del Pd è stata in totale contrasto con la realtà. Così come definire estremista il M5S: chi ha la mia età ricorda bene che questa definizione veniva data a chi era al confine col terrorismo».
Per la sinistra è l’anno zero. Potrà riprendersi?
«Per anni hanno fatto finta che i poveri non esistessero, hanno smesso di fare analisi su ansie e bisogni dei loro elettori. Per riprendersi devono ricominciare a studiare e a interpretare la società italiana, tornare a servirsi dell’apporto degli intellettuali. Sarà una lunga marcia».

La Stampa 6.3.18
La debolezza delle forze progressiste
di Giovanni Sabbatucci


Nelle prime elezioni dell’Italia liberata, quelle del 2 giugno 1946, i due maggiori partiti della sinistra italiana, Psi e Pci, ottennero insieme circa il 40% dei voti. Lungo tutto l’arco della Prima Repubblica, le forze politiche che in vario modo si consideravano «di sinistra» non scesero mai sotto un livello che si aggirava intorno a quel 40% e spesso lo superava. Nella Seconda Repubblica, che avrebbe dovuto consacrare la vocazione governativa e maggioritaria di un centro-sinistra liberato dagli impedimenti del fattore K, quel livello si andò man mano abbassando; e alle forze di ispirazione progressista non bastò, per invertire la tendenza, assorbire nelle file del nuovo Partito democratico niente meno che il grosso della ex Dc, architrave del vecchio sistema: nel 2013 il Pd bersaniano non riuscì a toccare il limite di un terzo dei voti raggiunto da Veltroni nel 2008. Col 25% circa del 4 marzo, la sinistra sembra ora aver raggiunto una soglia negativa sotto la quale c’è solo un destino di marginalità.
Il fenomeno, in realtà, non riguarda solo l’Italia. I socialisti francesi se la passano peggio dei progressisti italiani. E i socialdemocratici tedeschi, come si è visto, non sembrano avere un futuro diverso da quello di stampella della governabilità a guida democristiana, seppur non è escluso che possano trarre vantaggio dalla prova di responsabilità appena fornita. Ma in Italia è l’intera sinistra – da quella moderata a ciò che resta di quella estrema – ad attraversare una crisi che non è esagerato definire epocale e per la quale è difficile indicare plausibili vie d’uscita.
I motivi sono diversi e si possono solo accennare. Non sopravvaluterei il fattore-corruzione. La corruzione c’era anche prima, e in misura anche maggiore: oggi è lo scontento a ingigantirne la percezione, non il contrario. All’origine dello scontento ci sono innanzitutto le trasformazioni socioeconomiche culminate nella lunga crisi del dopo-2008. Trasformazioni che non solo hanno accresciuto il tasso di disuguaglianza nei Paesi sviluppati, ma hanno interrotto un lungo percorso di complessivo e graduale progresso e, quel che è più grave, gettato ombre sulle prospettive delle generazioni più giovani. Come era già accaduto negli Anni 30 del secolo scorso, la crisi economica ha minato la fiducia nelle classi dirigenti democratiche, giudicate incapaci di mantenere promesse di crescita incautamente formulate e di proteggere i cittadini dalle vecchie e nuove precarietà e dalle paure generate dai fenomeni migratori.
Non stupisce allora che a fare le spese di questa diffusa, e non sempre razionale, ondata di frustrazione e di rancore siano stati in primo luogo proprio i partiti socialisti. Quelli che, in una prima fase, avevano incarnato le speranze di palingenesi e le utopie egualitarie delle classi subalterne, per poi ripiegare su una funzione di rappresentanza degli interessi dei lavoratori dentro i regimi liberal-democratici, diventando così, in quanto polo progressista, un elemento stabilizzatore di quei sistemi. Questo equilibrio virtuoso era però reso possibile dalla relativa abbondanza di risorse e dall’espansione demografica che caratterizzarono, fra il ’45 e il ’73, l’età dell’oro delle economie di mercato. Il tutto diventava più difficile nel momento in cui le trasformazioni economiche e i trend demografici rendevano sempre meno sostenibili le politiche di Welfare.
Mentre i conservatori possono presentarsi come paladini dell’austerity (e non sempre lo fanno), i socialisti non possono rilanciare oltre un certo limite le loro politiche sociali, anche perché su questo terreno saranno sempre sopravanzati dai movimenti populisti che non si fanno troppi scrupoli nel promettere l’irrealizzabile e nel raccogliere così il consenso di arrabbiati e delusi. Tanto la colpa sarà sempre di qualcun altro. La crisi passerà, anzi sta già passando: ma recuperare quei consensi non sarà facile né scontato. E l’avere alle spalle una gloriosa tradizione potrebbe rivelarsi un ostacolo più che una risorsa.

Repubblica 6.3.18
Bene al Nord e all’estero, ma alla fine Bonino regala seggi al Pd
La lista non sfonda il muro del 3% nel proporzionale. Nella coalizione deludono Insieme e Lorenzin
di Silvio Buuzzanca


ROMA Il sogno di Emma Bonino e +Europa si è infranto davanti al muro dello sbarramento del 3 per cento. Gli europeisti più convinti e determinati della campagna elettorale sono riusciti infatti ad arrampicarsi fino al 2,55 per cento, frutto di 831.242 voti, ma lì si sono fermati. E alla fine hanno regalato voti e seggi al Pd perchè sotto il 3 per cento non si può partecipare alla ripartizione proporzionale.
Unica consolazione, i due seggi conquistati a Roma nell’uninominale dall’ex ministra degli Esteri e da Riccardo Magi e quello milanese strappato dall’alleato centrista Bruno Tabacci.
La Bonino ha battuto nel collegio senatoriale di Roma Gianicolense l’esponente pro life Stefano Iadicicco candidato dal centrodestra. Stesso schema per Magi che ha avuto la meglio a Roma 10 per la Camera su Olimpia Tarzia, cattolica, presidente nazionale del Comitato per la Famiglia, nato in occasione della preparazione del primo Family Day.
Resta fuori dal Parlamento, invece, Benedetto Della Vedova, sottosegretario uscente agli Esteri, battuto nel collegio Camera di Prato dal forzista Giorgio Silli, molto impegnato sui temi del contrasto all’immigrazione.
«Votatemi di più e amatemi di meno » , aveva più volte ripetuto la Bonino durante la campagna elettorale, ironizzando sui larghi consensi che riceveva a destra e a manca per le sue battaglie civili. I romani l’hanno presa sul serio e gli hanno tributato 111.113 voti. Ma non è bastato per superare l’asticella nazionale.
Il voto per + Europa presenta però caratteristiche piuttosto interessanti. È concentrato infatti nelle aree urbane del centro nord, dove sfonda ampiamente il tetto del 3 per cento. In alcuni lo doppia come a Milano dove tocca quota 7,61 per cento. A Torino l’asticella segna 6,59 per cento, a Bologna 5, 33 per cento, a Firenze 5, 59 e a Roma 4, 63. I dolori invece arrivano dal Sud e dalle Isole con percentuali poco sopra l’ 1 per cento.
Il risultato è buono anche nel voto estero, dove + Europa esce con ottimi risultati in Europa e Sudamerica. e arriva al 5,62 per cento. A Bruxelles avrebbe toccato il 10 per cento. E sembra che dei due seggi europei che andrebbero al centrosinistra uno sarebbe suo.
Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova hanno commentato a caldo, a notte fonda, i risultati su Radio Radicale E il succo del ragionamento del segretario di Radicali italiani è: «Siamo soddisfatti di un risultato per una lista che poco più di un mese fa non esisteva. Abbiamo fatto una campagna controcorrente, a partire dal nome della lista e dai temi». Comunque, il 4 marzo viene considerato un punto di partenza e adesso l’attenzione si sposta alle Europee del 2019.
Pessimo invece il risultato delle altre due liste alleate del Pd. Insieme ottiene lo 0,5 per cento e Civica popolare lo 0,6 per cento. Riccardo Nencini, segretario del Psi, la spunta però in un collegi toscano, mentre il verde Angelo Bonelli perde nelle Marche..

Il Fatto 6.3.18
Cinque punti (più uno) per capirci qualcosa
di Antonio Padellaro


Lo zen e l’arte di manutenzione dei risultati elettorali prevede un principio base; nulla è come ci fanno credere. Ecco quindi alcune banali regolette per cercare di capirci qualcosa.
Primo: il viscido Rosatellum ha fatto centro. Alcuni malfidati (tra cui chi scrive) sospettavano che il nuovo sistema elettorale fosse troppo demenziale per non nascondere un trappolone. Ovvero: evitare a tutti i costi la formazione in Parlamento di una maggioranza coesa e autosufficiente. Per mantenere l’eventuale nuovo governo in una situazione politicamente precaria (utile alla vigilanza Ue). Così come del resto è avvenuto dal 2011 in poi con gli esecutivi a guida Monti, Letta, Renzi, Gentiloni. Missione compiuta. Il M5s ha stravinto ma non può governare da solo. Idem per il centrodestra a guida Matteo Salvini. Un po’ come ottenere l’Oscar per il miglior film ma non poterlo ritirare. Non sfugga il fatto che il marchingegno porta il nome di Ettore Rosato, capogruppo del Pd alla Camera, l’unico partito abbastanza sicuro di andare incontro a una sconfitta il 4 marzo (anche se non di queste proporzioni).
Secondo: il gioco del cerino acceso. Come è noto l’unico medicamento che può lenire le ferite di chi ha perso è favorire la disgrazia altrui. Fossimo perciò in Luigi Di Maio staremmo bene a attenti a non insistere per ottenere l’incarico da Sergio Mattarella, senza un’adeguata rete di protezione. Che fino alle 18 di ieri pomeriggio poteva essere l’ipotetico sostegno del Pd (derenzizzato) a un ipotetico governo a guida Cinque stelle. La domanda però era: perché mai un partito dissanguato dagli elettori e costretto a un ruolo secondario nel nuovo Parlamento avrebbe dovuto fare da sgabello al proprio nemico? Infatti, alle 18 e 30 Renzi, nel dimettersi senza dimettersi da segretario annuncia l’intenzione di restare in sella fino alla formazione del nuovo governo: per evitare, sostiene, “inciuci” con gli “estremisti”. A parte la guerra civile subito dopo scoppiata al Nazareno per il M5s potrebbe non essere una cattiva notizia. Trattare con un Pd tenuto in ostaggio da Renzi avrebbe significato oltre a una probabile perdita di tempo la sicurezza di bruciarsi le dita e forse anche l’intera mano.
Terzo: il successo logora chi ce l’ha. Fateci caso, da ieri Matteo Salvini, pur gonfio di percentuali e seggi non parla più come futuro presidente del Consiglio. Il suo ego si è scontrato con una realtà dolorosa: al centrodestra mancano troppi voti per ottenere la fiducia delle Camere. Senza contare che, immaginiamo, il padrone della coalizione avrebbe fatto voto perpetuo di castità piuttosto che fare da secondo al suo mezzadro. Accantonata, per il momento, la questione del premier ora comincia la partita finale per conquistare la leadership nella coalizione. Salvini ha dalla sua più voti e meno anni. Berlusconi i soldi e le televisioni. A occhio e croce, dopo aver osato superare il maestro il giovanotto felpato farebbe bene a guardarsi le spalle.
Quarto: il diavolo è nei particolari. Questa volta il rituale delle consultazioni al Quirinale (spesso trito e ritrito) potrebbe essere rivelatore di verità negate. Come il “dimissionario” Renzi che decidesse ugualmente di guidare la delegazione Pd (l’odio vigilante) malgrado la fronda che gli hanno scatenato contro gli ex amici Franceschini, Zanda, Martina. Come Berlusconi, Salvini, Meloni nel caso fossero ricevuti da Mattarella non in formazione tipo bensì uno alla volta: tutti insieme separatamente.
Quinto: lo scottante segreto nell’urna. Dopo ogni voto l’elezione delle presidenze dei due rami del Parlamento, supremi organi di garanzia, rappresentano il banco di prova per le future, possibili alleanze di governo. È probabile che al Senato non vi siano ostacoli eccessivi per il candidato del centrodestra (favorito il leghista Roberto Calderoli). Ma se alla Camera, come sembra, il M5s candiderà un proprio esponente nel voto segreto potrebbe accadere di tutto. Per esempio che Pd e centrodestra uniscano le loro forze onde affondare il movimento grillino. Prepariamoci ai giorni dei lunghi coltelli (e dei trionfi brevi).
Infine lo zen. Con questi chiari di luna il presidente Mattarella dovrà esercitare tutto il possibile paziente autocontrollo per impedire che la strategia dell’interdizione reciproca, dell’intrigo, del maneggio, del mors tua vita mea trasformi la volontà chiaramente espressa dai cittadini italiani in un pantano senza fine. Avrà due armi a disposizione. In mancanza di una soluzione di governo la minaccia di sciogliere rapidamente le Camere: un incubo per gli eletti appena usciti vivi dalla campagna elettorale. La permanenza di Paolo Gentiloni a palazzo Chigi a tempo indeterminato. Un’autentica perfidia.

Repubblica 6.3.18
Il grande deluso
Triste, solitario y final l’ultima sconfitta del lìder Massimo
di Filippo Ceccarelli


La crudeltà elettorale non guarda in faccia nessuno e così l’urna sterminatrice ha falciato via D’Alema. Il quale per la verità era già fuori dal Parlamento, ma solo perché l’aveva voluto lui, sia pure di altezzosa e dissimulata malavoglia, al culmine della Gran Rottamazione.
Eppure, proprio perché escluso, e distante, e sconfitto, aveva raddoppiato i suoi sforzi, aveva dilatato il suo tempo, la sua passione, la sua celebrata intelligenza e la sua sprezzante cattiveria per rimanere a suo modo centrale dentro gli ingranaggi del potere, della fama e della lotta interna. E siccome, scissione o non scissione, alla fine c’era riuscito, e i giornalisti lo cercavano, nelle cerimonie lo facevano accomodare fra le autorità, al Nazareno ne temevano giustamente i fulmini, quando gli avevano mostrato un primo possibile bozzetto del marchio del nuovo partito, disegnato dall’ignaro Oliviero Toscani all’insegna di una enorme scritta, “MAX”, che esauriva qualsiasi altra emblematica valenza, Massimo D’Alema si era concesso lo sfizio di commentare signorilmente, con lieve e inconfondibile smorfia di sopportazione: «Mi pare un tantino eccessivo, diciamo». E si era buttato da par suo nella campagna elettorale salentina, orgoglioso e perfino appagato di vendetta.
Tale è il personaggio: così facile da rappresentare a tinte forti che ogni valutazione più schiettamente politica rischia di disperdersi nel novero dell’indistinto e del superfluo, così come nello sfoggio di calcolata inautenticità - ma pazienza.
C’è adesso una foto, sadicamente scattata la notte dei risultati in una sala deserta e disadorna di un albergo di Lecce. Tutto trasmette freddo, delusione, solitudine: Max è seduto a capo chino con due persone, alle sue spalle la beffarda divinità delle inquadrature ha piazzato un impianto anti incendio. La sedia è piccola e nera, essenziale, e agli osservatori professionali delle faccende di potere ha fatto venire in mente per contrasto il trono con pedana e panneggi che per D’Alema fu allestito nella sala della Regina di Montecitorio ai tempi della Bicamerale; e poi, sempre in tema, un’altra foto mai vista, eppure mormoratissima, in cui sempre lui sarebbe stato ritratto dal fotografo personale come un vero sovrano su un trono doppiamente reale e per giunta normanno, nella casa siciliana di Vladimiro Crisafulli, ricca di storici tesori. E di nuovo: vabbè.
Fin troppi adesso si gusteranno i numeri della sconfitta dalemiana e la triste immagine leccese perché la mortificazione di un leader superbo assomiglia a un atto di giustizia rinforzato dalla sua stessa colpa, una punizione quasi trascendente che ripaga i tanti che in un quarantennio lui stesso ha sgominato o contribuito a sgominare: il povero Natta; il povero Occhetto, che ancora qualche mese fa lo chiamava “serial killer”; e poi Prodi, un paio di volte, senza contare le delizie riservate nel corso del tempo a Fassino, a Veltroni, allo stesso Bersani, che per inciso rischia pure lui il posto in Parlamento, in questo testimoniando l’esito fallimentare dell’intera “ditta” del post-comunismo italiano, con i suoi nomignoli commerciali, i suoi leader caldi e freddi, simpatici e antipatici, le sue storie di cupio dissolvi, abiura e rovesciamento del severo costume dei padri.
L’illusione di riempire il vuoto di una fede con barche, scarpe, birre e gigionerie linguistiche, narcisismi da talk show e da gentiluomo di campagna, ostensione di imitatori, vini pregiati, ulivi centenari, affettatrici d’epoca e minacciose zanne di mastini danteschi che possono uccidere, «U-cci-de-re, capito? Su, Aiace, fai vedere i dentini...». E passi, pure questa, dolce Aiace.
Ma ecco che qualcosa stavolta è accaduta. Non per colpa, s’intende, o per vendetta soprasensibile in conto terzi: ma perché i leader tosti, i politici che nel carattere e nel combattimento cercano e trovano la loro ragione, non sono infallibili, tantomeno invincibili, e rischiano e vengono sconfitti, e addio alle armi.
È nella forza delle cose e del tempo, che tutto blocca e insieme tiene in movimento.
Anche in questo Renzi è stato fatale per D’Alema, che prometteva: «Finché mi sarà dato di esistere, non potrà stare tranquillo». Così però va il mondo, nelle vicende di potere, che Renzi ha perso e che D’Alema pure, esito paradossale nella crudele normalità delle urne.

Il Fatto 6.3.18
I problemi per i 5stelle arrivano ora
di Massimo Fini


Non vorrei aver l’aria di sminuire la straordinaria vittoria del Movimento 5 Stelle (in fondo sono stato uno dei pochissimi intellettuali, insieme a Travaglio, a partecipare al primo, e irriso, “Vaffa”) dovuto all’impegno dei suoi militanti, al suo programma, alla grande abilità di Di Maio (altro che “uno che ha solo un bel visino” come lo definì il geronte Berlusconi) ma almeno una parte del trionfo dei “grillini” è dovuta alle stesse ragioni che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca.
Quando il ceto medio americano si è accorto che quella madonnina infilzata di Hillary Clinton aveva dalla sua parte tutta la finanza internazionale, tutti i più importanti giornali internazionali, tutto lo star system di Hollywood si deve esser chiesto “ma costoro mi rappresentano? ” e ha votato “The Donald”. Così quando una parte degli italiani vessati e impoveriti da una partitocrazia sempre più arrogante e corrotta ha visto che tutti i partiti e tutti i giornali che a loro fanno riferimento (fatte un paio di eccezioni) si accanivano contro i cinquestelle con gli argomenti più pretestuosi, falsi e ridicoli deve aver capito che l’unico movimento veramente antipartitocratico, era proprio quello fondato da Beppe Grillo. Della malafede e della straordinaria spudoratezza delle accuse mosse ai cinquestelle può essere presa come esempio Virginia Raggi che non aveva avuto ancora il tempo di mettere piede in Campidoglio che subito si è scoperta la monnezza di Roma, i topi di Roma, i maiali di Roma e in seguito è stata accusata della siccità di Roma e poi della neve caduta su Roma e quindi ancora del dissesto delle Ferrovie dello Stato che sono appunto di Stato e non del Comune capitolino. Ma è, appunto, solo un esempio degli infiniti che si potrebbero fare. Dopo una vertiginosa ascesa durata cinque anni i veri problemi per i cinquestelle arrivano ora. Ho sempre scritto che i difetti dei cinquestelle dipendono dai loro pregi. Legalità, trasparenza, incorruttibilità, la volontà ferrea di non accettare alcun compromesso sono stati i loro vincenti cavalli di battaglia, ma adesso o accettano una qualche mediazione o resteranno una fortissima forza di opposizione che però in quanto tale non conterà nulla perché nulla hanno mai contato le opposizioni in Italia, se si eccettua il caso del Pci che però per avere voce in capitolo dovette consociarsi col potere democristiano e socialista, cioè non fare più l’opposizione. In linea teorica i cinquestelle possono allearsi con tutti, perché nel loro Movimento ci sono fattori sia di sinistra che di destra oltre alcuni del tutto nuovi che sono i più interessanti perché i cinquestelle hanno capito (come l’aveva capito a suo tempo Bossi) che Destra e Sinistra sono due categorie ormai superate dalla storia perché non sono in grado di comprendere le esigenze più profonde dell’uomo contemporaneo, che sono esistenziali e non più solamente economiche.
Con tutti si possono alleare i Cinque Stelle tranne che con Forza Italia e il suo leader che hanno fatto della illegalità, intesa sia in senso penale che politico e morale, la loro bandiera. Lo ha ribadito l’altra notte, forse senza nemmeno rendersi conto della gravità di quanto stava dicendo, Brunetta quando ha affermato che se la coalizione di centro-destra fosse arrivata ad avere 260 seggi alla Camera non le sarebbe stato difficile comprare o corrompere la sessantina di deputati mancanti (i metodi li conosciamo, De Gregorio docet). Berlusconi è stato dato per politicamente morto mille volte, ma il 5 marzo è “scaduto” davvero come teneva spiritosamente scritto sul petto la ragazza col seno nudo mentre andava al seggio. E noi che abbiamo contestato il Grande Imbroglione da quando nel 1986 fece la sua prima apparizione pubblica presentando all’Arena un Milan americanizzato, possiamo finalmente chiudere gli occhi serenamente.

Corriere 6.3.18
«Matteo poco umile Ora serve il dialogo per la legge elettorale»
di Antonella Baccaro


Roma Gianni Cuperlo, esponente della minoranza del Pd, si aspettava le dimissioni dilazionate di Renzi?
«Dal segretario di un partito che esce pesantemente sconfitto dal voto, mi sarei atteso un’assunzione di responsabilità, come classe dirigente, che non passasse solo dall’affermazione: “Prendo atto e me ne vado” ma da un’analisi dei limiti dell’azione condotta in questi anni».
Invece .
«Invece la sensazione è stata quella di una rivendicazione delle buone cose fatte (e ce ne sono) ma tornando, e lo trovo incomprensibile, a una riforma costituzionale che l’elettorato ha bocciato e che, a suo dire, avrebbe potuto arginare la situazione attuale».
Renzi accusa Mattarella di non aver concesso due finestre elettorali più favorevoli.
«Passaggi francamente inaccettabili. Come anche la scelta di rinviare le dimissioni a dopo la formazione del nuovo governo».
Cosa avrebbe dovuto fare?
«Abbassare i toni, analizzare con umiltà un risultato che spinge il Pd al punto più basso, portandolo vicino al rischio implosione. Dico a Renzi: la campagna elettorale è finita, non possiamo aprirne subito un’altra. Abbiamo due sentieri davanti: ricostruire il rapporto col Paese cercando di capire cosa si sia spezzato nel nostro legame con l’elettorato. E affrontare il nodo di una riforma elettorale che non consente la formazione di una maggioranza».
I l segretario paventa i “caminetti”. Ha ragione?
«Nessuno chiede i caminetti, ma di fronte a una successione di sconfitte fino a questa, non si può pensare di risolvere un grumo di problemi con una nuova conta, o solo con primarie che riproducano meccanismi già visti».
Renzi ha schierato il Pd all’opposizione. Condivide?
«All’opposizione ci hanno mandato i cittadini. Il dato di fatto è che dalle urne non è uscita una maggioranza. Allora forse è il caso di esaminare proposte di riforma elettorale. Ma in maniera condivisa, non con l’approccio “faccio come mi pare e voi approvate”».
Quindi lei apre a un confronto con gli altri partiti?
«Non mi sfugge che abbiamo alle spalle una campagna elettorale dai toni aspri e che se qualcuno ti chiama “mafioso” poi è difficile parlarci. Ma qui il problema è un po’ diverso: c’è un centrodestra a guida sovranista capace, se lo si lascia fare, di spostare l’Italia su pericolose posizioni antieuropeiste. E c’è un movimento che ha fatto della purezza incontaminata la sua cifra. Bisogna trovare un equilibrio di governo o almeno affrontare la riforma elettorale».
Zingaretti ha vinto. Non sarà un segnale?
«Mi sono battuto contro la scissione perché sapevo che ci avrebbe indebolito. Il risultato di Leu è particolarmente deludente e riflette una difficoltà della sinistra in tutta Europa. É una sfida enorme da affrontare insieme».

il manifesto 6.3.18
Disastro Pd in Emilia, la destra vola: umiliati Franceschini e De Vincenti
Bologna Unica Eccezione. Disastro Pd in Emilia, la destra vola Umiliati Franceschini e De Vincenti. La prodiana Zampa battuta da un ex Msi. Ora la Lega mette nel mirino il comune di Ferrara
di Giovanni Stinco


BOLOGNA Alla fine la sconfitta per il Pd emiliano e per Liberi e Uguali è stata storica. L’Emilia-Romagna domenica si è addormenta rossa e si è risveglia con la Lega in crescita impetuosa e con il Movimento 5 Stelle primo partito.
E così la dirigenza dem, da sempre abituata a governare, si è ritrovata a difendere a oltranza degli ultimi fortini e all’opposizione nei collegi ormai persi. È successo a Ferrara, dove all’uninominale la prodiana Pd Sandra Zampa, apprezzatissima per le sue iniziative in parlamento contro i Cie e a favore dei minori, è stata battuta da Alberto Balboni, una storia politica iniziata nell’Msi e finita in Fratelli d’Italia. Sempre a Ferrara a perdere malamente con un distacco monstre di 10 punti è stato il ministro della cultura Dario Franceschini, politicamente umiliato dalle Lega. Per festeggiare i salviniani hanno inscenato un carosello notturno con tanto di coretto «Chi non salta è un comunista» e citofonata sotto la sede del Pd locale. Ora il segretario ferrarese del Carroccio Nicola Lodi annuncia la futura presa di Ferrara nel 2019, quando si voterà per il Comune. Non è più un’ipotesi lunare. Stesso psicodramma a Modena, dove questa volta sono i grillini a preparare il colpaccio alle comunali del prossimo anno. Nella bassa modenese il senatore del Pd Stefano Vaccari è stato sconfitto all’uninominale da un leghista, e male è andata anche al ministro Claudio De Vincenti, paracadutato da Matteo Renzi a Sassuolo dopo il gran rifiuto di Cuperlo, che disse «no» per lasciare spazio ad una candidatura del territorio. Renzi pensò bene di candidare un romano doc e il risultato si è visto. Salva per 46 schede invece Modena, dove il dem Edoardo Patriarca l’ha spuntata al fotofinish. Ora dovrà vedersela con gli annunciati ricorsi della Lega. Se la prima coalizione in Emilia Romagna è ormai quella della destra a trazione leghista (in Regione Salvini è al 19%, Berlusconi al 10), il primo partito è quello di Di Maio e Casaleggio. «Il Pd non è più in grado di rappresentare la maggioranza dei cittadini dell’Emilia-Romagna – tuona la consigliera regionale M5s Silvia Piccini – . Il presidente Bonaccini, già eletto nel 2014 solo grazie a un’astensione record, ne prenda atto invece di continuare ad intestarsi meriti che non ha».
I dati dicono che rispetto al 2013, l’anno della non vittoria di Bersani sui grillini, il Pd in regione ha perso 356.096 voti, la Lega ne ha guadagnati 389 mila (dai 67 mila di 5 anni fa ai 456 mila di oggi), il Movimento 5 Stelle che era già forte “solo” 59.844 in più. A fermare l’onda grillo-salviniana è stata Bologna, ormai unico vero fortino rosso in una regione che rossa non è più. Nei collegi del capoluogo emiliano tutti i candidati del Pd hanno retto la prova delle sfide uninominali, anche l’ex democristiano Casini che ha portato a casa la vittoria con il 34%. La sua lista, Civica Popolare, ha contributo con lo 0,67 dei consensi, il resto ce l’ha messo il Pd e +Europa nel bolognese sopra il 4%. Anche qui però i democratici hanno arrancato. Nel 2013 su Bologna città il Pd aveva 92.783 voti, il 43%. Oggi pur nella vittoria la percentuale è precipitata. In 5 anni il partito di Renzi è sceso al 28,16%. La perdita in termini elettorali è stata di 39 mila voti.
«Io dimettermi? Non abbiamo aperto questa discussione al momento nel gruppo dirigente», ha detto il segretario Pd Paolo Calvano. Poi c’è Vasco Errani, ex Pd sfidante con LeU di Casini. Errani a Bologna ha sfiorato il 10%, ma Casini non è stato battuto e in regione Liberi e Uguali si è attestato sotto al 5%. «Avevamo visto l’onda, avevamo capito che la questione sociale domandava un cambiamento radicale, ma quell’onda non l’abbiamo intercettata», ha spiegato Errani. I numeri per LeU sono impietosi: nella regione che doveva tirare il risultato italiano per la formazione di Grasso e dove gli ex Pd si aspettano ovunque il 10% il risultato è stato pessimo. Solo Bologna si salva, ma a questo punto è l’eccezione che conferma la regola. Dall’altra parte della barricata è arrivata invece la prima dichiarazione, di gioia pura, di Galeazzo Bignami, capo della destra bolognese e neoeletto in parlamento con Forza Italia. «E così, dopo 70 anni, la nostra Regione, la rossa Emilia Romagna, svolta a destra. Un sogno. Semplicemente un sogno».

il manifesto 6.3.18
Sinistra travolta in Lombardia. Fontana stacca Gori di 14 punti
Il caso. Milano, un'anomalia in una regione forza-leghista. Nel capoluogo il Pd è ancora il primo partito con il 26%, le periferie a destra
di Roberto Maggioni


Milano Le elezioni che asfaltano la sinistra hanno travolto anche la Lombardia. La valanga qui arriva fino alla circonvallazione di Milano, rimasta un puntino rosso sulla mappa blu lombarda. Nel resto della regione la Lega di Salvini ha spinto la coalizione di centro destra a cifre mai viste in tutte e tre le votazioni: Camera, Senato e regionali.
A SCRUTINIO ancora in corso le proiezioni danno il candidato leghista Attilio Fontana sopra a quello del Pd Giorgio Gori di oltre 14 punti. Alle precedenti regionali la distanza tra centro destra e centro sinistra era stata di quattro punti. Una valanga appunto, che ha travolto un centro sinistra tramortito dalle divisioni nazionali e incapace di reagire localmente. Non sono poche le città in cui il centro sinistra governa in Lombardia, ma il segnale di queste elezioni è anche questo: la fiducia è finita anche lì. L’appello al voto utile non ha funzionato, Gori ha vinto di misura persino nella città dove è sindaco, Bergamo. A sinistra la valanga ha travolto tutti.
IL PD PIANGE, Liberi e Uguali non riesce si attesta attorno al 2% e non entrerà in consiglio regionale, Sinistra per la Lombardia si dissolve attorno all’1%. Una sconfitta così forte che dovrebbe azzerare anche il dibattito post-voto, difficile dare la colpa a qualcuno o qualcosa davanti a un risultato così brutto.
QUALCUNO potrebbe voler parlare di Giorgio Gori candidato «troppo berlusconiano», scelto senza primarie, di Liberi e Uguali irresponsabile perché andata da sola seguendo le sirene nazionali, di una sinistra divisa con due formazioni a sinistra del Pd, una discussione legittima ma distante dalla realtà. «La concomitanza tra le politiche e le regionali ha reso queste ultime elezioni molto politiche e molto poco regionali» ha commentato Giorgio Gori. Nel suo comitato elettorale tanta rassegnazione, poca voglia di parlare. «Il vento populista ha spazzato via tutto» ha detto ancora Gori. Nessun altro ragionamento politico sulle ragioni per cui questo vento lì ha spazzati via.
LA LEGA GOVERNERÀ con pieni voti, sarà una maggioranza decisamente a trazione leghista. Fontana ha detto che governerà il buon governo di Maroni e ha chiesto scusa per le frasi dette in campagna elettorale sulla difesa della razza bianca. Un vecchio trucco: gli immigrati, l’allarme sicurezza e la sostituzione etnica usati per prendere voti e condizionare il dibattito pubblico. Fontana avrà una maggioranza ampia, si ritroverà a gestire l’autonomia voluta da Maroni con una Lega salviniana sovranista e nazionalista. All’opposizione ci saranno anche i 5 Stelle che in Lombardia non riescono a replicare le performance nazionali. Dario Violi si dovrebbe fermare attorno al 18%. Si conferma una regione complicata per i pentastellati, dove riescono a intercettare un voto legato ai tanti comitati territoriali ma che non riesce ancora a diventare un polo in grado di contendersi il governo della regione.
C’È POI IL DATO DI MILANO, città anomala. Il Pd è ancora il primo partito con il 26%, il centrosinistra tiene i voti del 2016 e si attesta attorno a quelli del 2013, i 5 Stelle crescono poco. Qui +Europa di Emma Bonino prende l’8%. Nelle periferie però si vota a destra, un cerchio quasi omogeneo attorno alla città.
UN SEGNALE di cui il sindaco Sala dovrà tener conto. «C’è una chiara controtendenza, il Pd è saldamente il primo partito e se sommiamo i voti del centrosinistra con quelli di LeU non è che si vada tanto distante dai voti che ho preso io alle amministrative del 2016» ha detto Sala. «Il lavoro che dobbiamo fare a Milano è ancora tanto e devo e voglio fare meglio».

il manifesto 6.3.18
Il segno, paradossale e positivo, della valanga dei 5Stelle al Sud
Meridione. Non promettono posti, non sono legati a clientele, sono per il reddito minimo (in forme discutibili), sono vergini di un passato che ha regalato solo logiche di clan
di Piero Bevilacqua


È difficile mostrare sorpresa di fronte ai dati più o meno definitivi di queste elezioni di tardo inverno 2018. Non sono sorprendenti – sia detto senza alcuna iattanza – per chi segue la vita politica dalle strade della città e non dall’aria condizionata dei palazzi.
Per chi ha seguito il rovesciamento strategico del Pd di Renzi, da pallido partito socialdemocratico a formazione di destra conclamata. Un partito di governo che ha gettato allo sbando del precariato due generazioni di giovani, ha sottomesso la scuola alle ragioni di Confindustria, affidandola a una sindacalista, ha “risolto” il problema degli immigrati rinchiudendoli nei lager della Libia. E non vale, per quest’ultima notazione, osservare che Salvini ha vinto per le ragioni opposte.
È IL POPOLO CHE VOTAVA a sinistra che fa mancare il suo consenso per queste scelte. Esistono fedeltà antiche, tra gli elettori, che sopravvivono agli scenari mutevoli della politica politicata. LiberieUguali, tardiva iniziativa politica, costellata di errori, e apparsa subito come cartello elettorale (dunque tutta interna alle logiche e ai rituali che spingono gli elettori a disertare le urne, o a votare per le formazioni populiste) è andata peggio del previsto. Ma per questo versante di problemi ci sarà tempo per ragionare.
QUEL CHE ERA INVECE IMPREVEDIBILE, è non tanto la vittoria generale dei 5Stelle, quanto la sua affermazione totalitaria in tutto il Sud continentale e nelle Isole. Che cosa è accaduto? Perché un tale successo, che si spalma con impressionante regolarità su tutto il territorio meridionale? Le analisi circostanziate dei prossimi giorni ci faranno capire meglio i particolari di questo evento di vasta portata. Ma chi ha una qualche informazione generale sul Sud di oggi può avanzare qualche considerazione non priva di fondamento.
I 5 STELLE VINCONO INNANZI TUTTO perché al Sud gli effetti dello svuotamento della democrazia rappresentativa sono più gravi che altrove. Non è solo perché da quando esiste il Porcellum, cioé a partire dal 2005, gli elettori non possono più scegliere i propri candidati. O perché, qualunque sia l’esito delle elezioni a cui partecipano da oltre 10 anni, amministrative o politiche, la condizione sociale di una massa crescente di loro non muta, anzi peggiora. Ma il fatto che il ceto politico, soprattutto quello dei governi locali e nazionali, mostra una sovrana inettitudine a cambiare alcunché della loro vita e soprattutto si presenta come una élite che vive immersa in privilegi ed affari, qualunque sia la colorazione politica di appartenenza. Infine, particolare ignoto a chi non segue da vicino i fenomeni politici di questa parte del paese, in molte aree del Sud il voto non è più libero. La disoccupazione perdurante degli ultimi anni ha creato una dipendenza grave e sempre più stretta di una platea estesa di cittadini dai favori e dalle influenza dei detentori di potere grandi e piccoli. Una società civile resa fragile dalle scarse fonti di reddito e occasioni di lavoro, è oggi sempre più assoggettata ai comandi della politica affaristica, quando non della criminalità organizzata.
SE TALE QUADRO HA UN MINIMO di verosimiglianza, è naturale che il movimento 5stelle sia apparso con tutte le caratteristiche di un movimento antisistema. e perciò ha finito con l’avere questa forza dirompente. se ci si riflette bene, la vittoria elettorale di tale formazione appare paradossalmente come un segnale positivo. Esprime la volontà di ribellione e di libertà del nostro mezzogiorno. una parte del paese che non si vuole arrendere a una visione della politica non solo svuotata di ideali (che pretesa!), ma priva di dignità, di una qualche sfumatura morale, piegata in maniera sempre più sordida a logiche di clan.
I 5STELLE NON PROMETTEVANO posti di lavoro, non sono legati a clientele locali, hanno mostrato di praticare una politica anticasta con i rimborsi (ah, gli idioti che li rimproveravano perché alcuni di loro erano inadempienti!), si battono da sempre per un reddito minimo ( con una formulazione ultimamente discutibile), si presentano soprattutto – ahimé – come angeli senza passato. E questo appare il più grande merito. Perché di fronte alla montagna di fallimenti che è stata la politica nazionale degli ultimi anni, agli occhi di tanti italiani e soprattutto meridionali, la vergine inesperienza dei 5Stelle è di gran lunga preferibile alla competenza delle vecchie volpi, sempre le stesse, impegnate a conservare presidi di potere di piccolo cabotaggio e a non cambiare alcunché.

Il Fatto 6.3.18
De Luca jr è fritto: a Sud Salerno guida la rivolta al ‘sistema’ De Luca jr è fritto: a Sud Salerno guida la rivolta al ‘sistema’
di Antonello Caporale


“Insopportabile”. La giovane barista salernitana riduce la questione politica a puro sentimento: Salerno non ne poteva più di De Luca. Troppo Vicienz, che fino a ieri era “patr a me” (“Vincenzo è il mio papà”, dicevano i fedelissimi) non si è accorto di aver esondato. La sua famiglia ha allagato la città e la regione e Piero, il giovane avvocato esperto di diritto lussemburghese, il prediletto malgrado un processo per bancarotta, rotola nel fiume di un rancore improvviso e definitivo. Terzo su 4 contendenti dell’uninominale, una percentuale questa sì insopportabile – 23,13 – per un cognome che teneva incollato sul suo petto fino all’80% dei voti. È la svolta di Salerno. La seconda dopo quella del secolo scorso. È sempre Salerno che annuncia la rivolta del Sud ribelle al sistema. Oggi e così improvvisamente rinunzia al padrinaggio del Pd e rifiuta anzi brucia la tessera forzista con la quale in ben tre tornate politiche ha battuto cassa.
La città del feudo, la roccaforte con la quale il papà ha controllato e governato municipio e aziende pubbliche, mix perfetto per balzare in Regione e da qui pompare soldi (un miliardo di euro in arrivo!) e irrobustire i canali irrigui del consenso, oggi è zuppa di pioggia. Ora Salerno, e con lei il sud volge lo sguardo ai 5stelle a cui tributa una messe spropositata di voti, e lo fa più per rancore con quegli altri, tutti gli altri, che per convinzione. Il candidato di Di Maio, Nicola Provenza, un borghese di solide tradizioni democristiane, strapazza Piero, il predestinato, e lo doppia nel consenso. La fiumana spalanca la città al nemico più odiato, Giggino come lo chiama per sbeffeggiarlo De Luca Papà. Ed è questa forse la vergogna più insopportabile. Oggi Salerno è muta e Piero ha chiuso il portone della sede, e deve sperare nel paracadute del proporzionale (primo in lista a Caserta) per un ripescaggio in extremis. Pare un’azione di bonifica territoriale che qui ha il suo centro di gravità permanente, l’espressione più potente di cosa sia un potere efficiente ma minuziosamente clientelare, familistico.
Salerno si piega e quasi travolge anche Marco Minniti, qui capolista del listino, che deve fare i conti con i resti per garantirsi la permanenza in Parlamento. E il torrente si fa fiume perché non c’è area, territorio o comune dove il partito della sinistra di governo regga. L’unico luogo in cui i cinquestelle si fermano, l’area del Cilento, è il posto in cui il centrodestra issa la sua solitaria bandierina contro il candidato Pd, l’ex sindaco di Agropoli Franco Alfieri, bollinato come “frittura di pesce”, indicato dal conducator De Luca come il più esperto nella pratica dello scambio corpo a corpo. Vota e mangi, o vota e lavora. L’offerta dal fondale culinario nulla ha potuto contro un movimento di ribellione silenzioso ma così vasto che ha abbattuto anche il richiamo al luccichio delle royalties. Pochi chilometri a est del Cilento c’è la Lucania, detenuta da un’altra famiglia, quella dei Pittella, l’uno presidente dei socialisti europei e l’altro governatore.
Terra di estrazione petrolifera, di distribuzione di benefit, i diritti che le compagnie lasciano al territorio. Il Pittella più noto ha conosciuto il ko tecnico, sparito dai radar nella sua roccaforte. Ha perso contro un candidato reietto, il presidente del Potenza Calcio, imprenditore accusato di reati finanziari, a cui Di Maio ha tolto il patronage.
Pittella è stato sconfitto da un impresentabile perché il Pd, nel Mezzogiorno è divenuto impresentabile per definizione. La Campania si tinge di arancione, come la Puglia, la Basilicata e la Calabria. Niente da fare, questa volta lo tsunami è stato improvviso e potente e ha divelto, insieme al potere del Pd, la vecchia burocrazia del centrodestra che qui aveva feudi e voti. In Calabria, Gasparri e Alemanno, quando militavano in Alleanza nazionale, avevano una cassaforte di consensi: oggi, zero. E 28 su 28 collegi è dunque il risultato siciliano, l’isola del sorriso berlusconiano, la terra della religione arcoriana, che ora passa al M5S.
Il Mezzogiorno si sveglia e porta, con la Sardegna, il senso della sua protesta disperata. Certo, il reddito di cittadinanza, il bonus che Di Maio ha promesso, è leccornia per l’esercito di disoccupati. Ma da solo i soldi non spiegano tutto. De Luca, per tornare a Salerno, aveva appena staccato un assegno da un miliardo, eppure.

il manifesto 6.3.18
E Pesaro manda a casa Minniti
di Mario Di Vito


PESARO Era stato presentato come il più giusto tra i giusti del governo Gentiloni, il duro e puro che era riuscito a fermare «l’invasione dei migranti», il fautore del ritorno dell’ordine nel caos delle città. E invece l’ormai ex ministro degli Interni Marco Minniti è affondato nel collegio di Pesaro, storicamente rosso, sconfitto dal candidato fantasma del M5S Andrea Cecconi (finito al centro della bufera per la questione dei rimborsi non restituiti e promesso dimissionario in caso di elezione) e dietro addirittura ad Anna Maria Renzoni del centrodestra, forza di solito assente o quasi da queste parti. Una sconfitta incredibile, appena 38mila voti raccolti (27,7%), contro i 45mila di Cecconi (35%) e i 43mila di Renzoni (31,5%), nella città amministrata da Matteo Ricci e patria di Luca Ceriscioli, il governatore delle Marche.
Il risultato pesarese è da considerare come un voto punitivo per il Pd: Minniti era stato catapultato qui con l’obiettivo di vincere in scioltezza un collegio considerato sicuro e che invece si è rivelato una tomba per l’ex ministro che riuscirà comunque a tornare in parlamento (era anche in un listino proporzionale), ma che vede tramontare la sua stella, e l’impressione è che il suo consenso in questi mesi sia stato più un riflesso televisivo che un dato reale: quando si portano avanti politiche di destra, è più facile che alla fine gli elettori scelgano l’originale e non la copia.
E pensare che, durante la campagna elettorale, il Pd aveva pochi dubbi sulla conquista del collegio di Pesaro: il centrodestra di solito funge da comparsa, mentre il pentastellato Cecconi sembrava avesse fatto harakiri, annunciando che si sarebbe dimesso in caso di elezione. In questo senso, si vedrà come andrà a finire, ma una cosa è certa: al nord delle Marche hanno preferito votare un potenziale fantasma invece che un ministro renziano. A questo punto è a rischio anche la tenuta dell’intero Pd marchigiano, da qualche anno a trazione pesarese dopo anni di dominio della famiglia Merloni e della sua corte dei miracoli. Il sindaco Ricci e il governatore Ceriscioli si rimpallano la responsabilità del bagno di sangue, ma le loro colpe in realtà sono soltanto relative in un contesto che vede il centrosinistra crollare ovunque, anche dove credeva di essere invincibile.

il manifesto 6.3.18
La Puglia tradisce D’Alema. Vittoria della grillina Lezzi
Elezioni 2018. 5 Stelle vanno a segno in tutti i collegi uninominali della Regione Tiene il centrodestra. E il governatore Emiliano preferisce defilarsi
di Gianluca Coviello


BARI  In tutti i collegi uninominali pugliesi ha vinto il movimento Cinque Stelle. «E’ un cappotto» ha commentato Antonella Laricchia, capogruppo pentastellato in Consiglio Regionale e perno di tutta la campagna elettore del Movimento in Puglia. Ha ragione. Un risultato che fa da specchio a quello delle altre regioni meridionali ma che colpisce particolarmente perché travolge anche due simboli del centrosinistra: Massimo D’Alema e Michele Emiliano. L’ex segretario del Pds esce con le ossa rotte: ultimo all’uninominale per il Senato nel suo collegio storico in Salento (dove Barbara Lezzi, candidata Cinque Stelle, per pochissimi voti non arriva al 40%). Per lui neanche la «consolazione» dell’elezione nel listino proporzionale. Un risultato negativo reso ancora più evidente dal fatto che il suo 3,9% si discosta troppo poco dal 3,28% nazionale preso da Liberi e Uguali. Il Presidente di Regione, invece, fino a due giorni fa era l’uomo in grado di arginare la valanga a Cinque Stelle. L’ha fatto alle regionali e anche nei comuni pugliesi dove si è votato la scorsa primavera. Questa volta non è bastato. In Puglia il Pd non raccoglie molto di più che in Campania, Calabria, Basilicata e Sicilia. Lo stesso vale per LeU.
D’Alema non l’ha presa bene. Negli ultimi giorni di campagna elettorale ha percorso il collegio in lungo e largo partecipando a tutti gli incontri a cui veniva invitato. Ha vissuto la giornata di ieri chiuso in un hotel di Lecce senza volere incontrare la stampa. Intorno a lui pochi amici. Emiliano, invece, è rimasto dal primo giorno nelle retrovie. Non era candidato, è vero, ma è parsa evidente la volontà di non metterci la faccia su quella che già si prospettava come la sconfitta di Matteo Renzi. Oggi assumono un significato importante le sue ultime affermazioni pubbliche che risalgono a giovedì: «Un governo va formato e penso che un accordo tra Pd, centrosinistra, e M5s sia possibile«. Con le dimissioni annunciate da Renzi, il governatore proverà a far pendere la scelta del partito dalla parte di Di Maio.
Lo farà, però, da una posizione comunque di debolezza vista la debacle nella sua Puglia. Proverà a convincere un gruppo di parlamentari su cui non ha particolare influenza. Chissà, però, che non possano seguirlo altri uomini forti del partito. Di certo non convincerà Matteo Renzi.
Non è solo il M5S, però, a sorridere in Puglia. Il centrodestra ha tenuto bene e con il 32% alla Camera e il 33% al Senato ha doppiato i voti della coalizione di centrosinistra. Un risultato distante dal 44% dei Cinque Stelle ma che ha comunque grande importanza. Se Berlusconi, Salvini e Meloni hanno in mano il gruppo parlamentare più numeroso, è anche grazie al fatto che al Sud non sono arretrati particolarmente rispetto ai precedenti appuntamenti elettorali. Il primo partito è stato Forza Italia, con il 20%, poi la Lega con il 6,5% (mai così tanto) e Fratelli d’Italia 3,8%. Un discreto risultato è stato anche quello della quarta gamba del centrodestra: Noi con l’Italia-Udc. Il partito schierava in Puglia uno dei suoi uomini simbolo: Raffaele Fitto. Per il partito centrista un 3% lontano dai periodi migliori dell’ex governatore ma comunque rispettabile.

il manifesto 6.3.18
Anche la Toscana svolta a destra, ora è tripolare
di Riccardo Chiari


Elezioni 2018. Poco più di un terzo dei voti al Pd (30%) e ai deboli alleati, poco meno di un terzo alla destra con la Lega trainante al 17,4%, e circa il 25% al M5S. Sconfitta la ministra Fedeli a Pisa, vincono invece Padoan a Siena e il giglio magico (Renzi, Lotti, Parrini, Romano, Nencini e Giachetti) nell'area fiorentina. Altra giornata choc: ambulante senegalese ammazzato da italiano con problemi economici. La procura: "Non è stato razzismo". Ma la comunità senegalese ha manifestato a lungo: "Non ci devono dire che è un pazzo".
Piazza dei Miracoli a Pisa, conquistata dalla Lega

FIRENZE Lo spostamento a destra della Toscana, in linea con le tendenze elettorali nazionali, porta la regione ad essere quasi tripolare: poco più di un terzo dei voti al Pd e ai quasi inesistenti alleati, poco meno di un terzo alla destra con la Lega trainante, e circa il 25% al M5S. Mentre Leu e Potere al Popolo, rispettivamente con il 4,5% e il 2%, chiudono la fila delle forze politiche che superano l’1%.
Effetto diretto del voto sono i risultati dei 21 collegi uninominali della Camera e del Senato: undici vanno alla destra e dieci a Pd e alleati, mentre il M5S non vince alcun collegio. A saltare agli occhi è il dato di Pisa, dove la Lega fa il cappotto, facendo saltare fra gli altri la ministra Valeria Fedeli.
L’effetto congiunto dei voti per la Camera all’alleanza Salvini (Lega 17,4%) Berlusconi (Forza Italia 10%) Meloni (Fdi 4,2%), a fronte di un Pd che con il 29,6% (30,7% al Senato) può contare solo su Europa+ di Emma Bonino (2,9%), mentre gli altri alleati di Insieme e Civica popolare sono sotto l’1%, fa sì che si registrino sconfitte sorprendenti: in Val di Cornia salta la sottosegretaria Silvia Velo, a Massa cade Cosimo Ferri, a Pistoia il renziano doc Edoardo Fanucci, e ancora sono bocciati alle urne Stefano Baccelli a Lucca, il capogruppo regionale Leonardo Marras a Grosseto, e il proconsole di Maria Elena Boschi, Marco Donati, ad Arezzo. Chiude la fila Benedetto Della Vedova, sconfitto a Prato.
Le vittorie per il Pd si concentrano nel triangolo Siena-Firenze-Empoli. Nella città del Palio ce la fa il ministro Piercarlo Padoan, nell’area metropolitana fiorentina e nel senese passano con Matteo Renzi anche Luca Lotti, Dario Parrini, Roberto Giachetti, Rosa Maria De Giorgi, Susanna Cenni, Gabriele Toccafondi, e poi Riccardo Nencini ad Arezzo e Andrea Romano a Livorno. Quanto ai 35 deputati e senatori da eleggere con i listini proporzionali, conteggi sono ancora in corso, complice la farraginosità della legge elettorale. Da qui si attendono gli eletti pentastellati, e altri eletti per il Pd e la destra. Mentre potrebbe non farcela Leu.
Anche il day after del voto è stato funestato a Firenze da una tragedia. Dopo la morta improvvisa del capitano della Fiorentina, Davide Astori, ieri mattina il 65/enne Roberto Pirrone ha ammazzato con sei colpi di pistola sul ponte Vespucci il venditore ambulante senegalese Idy Diene, 54 anni, che lascia moglie e una figlia. “Non c’entra il razzismo – ha fatto sapere il procuratore Creazzo – Pirrone ha sparato al primo che capitava, aveva problemi economici e inizialmente voleva uccidersi”. Ma l’omicidio di Diene, che era parente di Samb Modou, trucidato anni fa dall’esponente di Casa Pound, Gianluca Casseri, ha provocato la giustificata reazione della comunità senegalese, a sera in corteo per l’intero centro storico: “Questo che ha sparato non è un pazzo – ha tirato le somme Pap Diaw – ci devono spiegare perché ha sparato. Non ci devono dire che è un pazzo. Siamo arrabbiati e non ci piace che questa cosa sia avvenuta in questo momento politico dell’Italia”.

Il Fatto 6.3.18
Trincea Rignano, Firenze & C. Attorno. M5S e Lega mordono
Giglio Magico rintanato - Nel paese dell’ex premier i big tengono “Tiziano si fa vedere in sezione?”, “No”. Ma da Lucca a Pisa è assedio
Trincea Rignano, Firenze & C. Attorno. M5S e Lega mordono
di Davide Vecchi


Sulla porta della locale sezione del Pd campeggiano i risultati elettorali. Sembrano affissi quasi per un monito, una sorta di messaggio: qui è andata bene. Sono evidenziati i numeri di Camera e Senato: 36,47% e 37,03% con i nomi di Luca Lotti e Dario Parrini, eletti in questo collegio. Loro ce l’hanno fatta. Come ce l’ha fatta Matteo Renzi a Firenze. Seppure il partito abbia perso anche da queste parti. A Rignano ha ceduto ben dieci punti percentuali rispetto alle politiche del 2013. Ma da allora a oggi molto è cambiato. “Magari ragionassimo come ai tempi di Bersani”, si lascia sfuggire un militante.
La sezione ieri è rimasta chiusa. Come il bar accanto. E in piazza piove. Così un gruppetto di anziani si ripara sotto al portico per ammazzare il tempo. La piazza di Rignano sull’Arno è rimasto l’unico perno certo per i dem renziani. Da qui tutto è iniziato. È il feudo di Tiziano e Matteo. Nel 2013 non esisteva altro al dì fuori della famiglia del boy scout. Da qui è partita l’ascesa al soglio governativo. E il renzianesimo si è diffuso ovunque in Italia. Con una rapidità estrema. E con la stessa rapidità si è ritirato. Tornando nei confini della Toscana, confini sempre più striminziti perché domenica il Pd di Matteo Renzi ha perso altre roccaforti, dopo quelle cedute alle scorse amministrative. Lucca, Livorno, Arezzo, Massa, Pisa. Restano solamente i collegi di Empoli e di Firenze, dove si salva lo stesso ex rottamatore che, ironia della sorte, finisce eletto a Palazzo Madama. Anche Rignano era andata persa lo scorso maggio, a seguito dell’inchiesta Consip che vede indagato papà Tiziano. Una parte importante del partito, guidata dal sindaco Daniele Lorenzini, ha lasciato il Pd in polemica proprio con il decisionismo renziano. E il primo cittadino uscente si è ripresentato da solo con una lista civica, contro i dem, vincendo. Ieri pomeriggio Lorenzini era al suo studio medico in Paese. “Sono contento della partecipazione”, dice. I risultati di Rignano “non mi sorprendono: il M5S ha fatto un altro buon risultato dopo quello del 2013, mentre il centrosinistra paga divisioni e la fine di un progetto politico comune”. E Lorenzini ricorda il precedente di Rignano come avvisaglia anticipatrice di quanto accaduto domenica. “Lo scorso anno, proprio a inizio di marzo, vidi nella direzione Pd quel che è accaduto oggi: una classe dirigente che ha pensato soprattutto a sè stessa allontanandosi dal suo popolo”.
Lorenzini era amico personale di Tiziano Renzi. Ma non vuole parlarne. Sembra quasi un’epoca fa. Si dice però dispiaciuto nel “vedere questi risultati”. Il Pd ha perso “dieci punti in cinque anni fa, risultando il terzo peggior score assoluto di quest’area geografica”.
C’è poi l’avanzata del Movimento 5 Stelle che ha raggiunto il 22,95 e il vero e proprio exploit della Lega di Salvini con il 12,70%. Da queste parti, per capirci, il Carroccio non esisteva. Dal panettiere al pizzicagnolo, dall’edicolante al barista della stazione nessuno sa chi ha votato Lega e soprattutto nessuno ne conosce mezzo, di leghista. Ed è così in molte altre zone della Toscana. In quella Regione un tempo rossa, cuore pulsante del centro roccaforte del centrosinistra e ora invece diventata terra di conquista dei nuovi barbari leghisti. “Ma resistiamo, resistiamo”, grida Guido, fermandosi a leggere i risultati affissi alla sezione. “Tiziano passa oggi?”. No. “Non passa, non passerà”. E Lotti? Il ministro dello Sport da queste parti s’è visto l’ultima volta prima delle amministrative per dieci minuti. Poi mai più. E seppur sia uno dei pochissimi sopravvissuti alla débâcle del Pd, ieri si è limitato a dei ringraziamenti su facebook: “Vorrei dire 64.252 volte grazie”. E ammette: “Resta l’amarezza per una sconfitta pesante del Pd”. Ma lui s’è salvato. Lui ce l’ha fatta. Nel feudo renziano. Ultimo fortino.

Repubblica 6.3.18
I vuoti a rendere della moglie Sara che imbarazzano Netanyahu
La first lady israeliana è travolta dagli scandali: intascava persino i soldi del vetro. E trascina il premier nei guai
di Vincenzo Nigro


Il viaggio negli Usa per Benjamin Netanyahu è anche una fuga di qualche giorno dalle inchieste giudiziarie che lo circondano. Il premier di Israele viaggia con una compagnia inevitabile, fin dentro la Casa Bianca: quella di sua moglie Sara. Ma nessuno crede che la donna che lo scorta nel matrimonio possa essergli di un qualche sollievo. Anzi. Tutta Israele segue da anni il percorso di Sara, la ex psicologa ed ex hostess della El Al che Bibi si è scelto come moglie. Una donna che dopo anni di cronache di ogni tipo sulla coppia più potente di Israele, ormai viene classificata dalla stragrande maggioranza del paese in un modo soltanto: « Il primo problema di Bibi, perché è quello da cui non riesce a separarsi».
Partiamo dalla fine: ormai negli ultimi mesi per un programma di pupazzi animati Sara è diventata “Ms Piggy”, una maialina dai capelli biondi che spadroneggia in “casa Bibi” urlando e protestando per ogni nonnulla. O una Crudelia Demon che maltratta ministri e camerieri. Le caricature le piovono addosso dopo le inchieste per aver sottratto fondi dello Stato. Il procuratore generale Avichai Mandelblit è stato costretto ad aprire un’inchiesta su di lei per 200.000 dollari dirottati dai fondi dello Stato nella casa del governo assegnata al marito, soldi che Sara ha usato a suo piacimento. Le cene costavano troppo, e allora il revisore dei conti mise sotto accusa il manager della casa, che però disse: « Spese ordinate da Sara». Hanno scoperto che 85 mila dollari vennero usati per cure mediche del padre, altre migliaia per pezzi di arredamento e cene con le amiche. Intascava persino i soldi dei vuoti a rendere.
Da quelle accuse Sara è finita nel mirino della stampa israeliana: tutti hanno ascoltato la telefonata rabbiosa con Shaya Shegal, uno spin doctor di Bibi, in cui per ben 20 minuti lo insulta, chiedendogli conto di un banale trafiletto di gossip comparso sui giornali in cui «nessuno si è ricordato che io sono una psicologa, una psi-co-loga!!». O della telefonata con la moglie del sindaco di Sderot. La città del sud di Israele era il primo bersaglio dei razzi di Hamas, e il sindaco Ely Moyal in televisione aveva criticato duramente il premier Netanyahu. Sara alza il telefono, chiama la moglie del sindaco, e la aggredisce al telefono: «Come si permette tuo marito di criticare il primo ministro di Israele? Lui manda soldati in battaglia, legge tonnellate di libri, capisce di economia, di sicurezza… lui sa come parlare ai leader del mondo».
Oltre a difendere Bibi, Sara dimostra di poterlo controllare, si spera solo negli affari minori, come quando 15 anni fa fece licenziare Shlomo Filber, l’assistente che aveva consegnato allo Stato un orologio che Silvio Berlusconi aveva regalato al premier. Quando Sara, furibonda, convocò Filber di fronte a Bibi, lui, il primo ministro di Israele, se ne rimase in silenzio. E anzi un paio di giorni più tardi decise di cambiare assistente. A proposito: adesso Filber è diventato un testimone di giustizia, in un’inchiesta testimonierà contro Bibi in cambio di uno sconto di pena. Sara non sembra pentita.

La Stampa 6.3.18
A un’ora da Roma nel parco Marturanum si nascondono duemila tombe etrusche
Duemila tombe etrusche. È questo il segreto che nasconde il parco Marturanum, nell’area archeologica di San Giuliano, ad un’ora da Roma. Una necropoli risalente al settimo secolo avanti Cristo mimetizzata bosco, sulla via che da Cerveteri conduceva a Orvieto, sui fianchi di una rupe di tufo occupata da un insediamento stabile già durante l’età del Bronzo
di Noemi Penna
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