il manifesto 4.3.18
Un voto a sinistra per cambiare
di Norma Rangeri
Oggi
si vota, con la peggiore legge elettorale della storia repubblicana, un
ex novo voluto dal Pd, con il sostegno di Forza italia e della Lega.
Peggiore del Porcellum, non offre possibilità di scelta visto che le
liste del proporzionali sono bloccate, come anche i candidati ai seggi
uninominali incatenati alle finte coalizioni.
Ma l’aspetto
paradossale davvero divertente è che nessuno difende la legge e tutti
concordano sulla necessità di buttar via il Rosatellum per una nuova
trovata con cui sostituire la prima legge elettorale tipo usa e getta. È
già pronto un simil governo di scopo per l’occorrenza. Intanto però ne
subiremo tutti gli effetti negativi, a cominciare da quelle larghe
intese come unica soluzione altrimenti si tornerà a votare, con o senza
legge elettorale. Prospettiva poco entusiasmante. A meno che le intese
non siano esse stesse un voto nel voto, con alleanze inaspettate.
Abbiamo
vissuto una campagna elettorale alla quale, ha ragione Andrea
Camilleri, è «impossibile dare un nome a una cosa tanto disgustosa, tra
false promesse e insulti reciproci da comari». Le estenuanti apparizioni
televisive, con infornate di candidati presidenti e un già presidente
del consiglio, Gentiloni, prezzemolo della tv nelle vesti di laudatore
dell’attuale governo, cioè di se medesimo, e già candidato in pectore
per succedere a se stesso.
E, a proposito di disgusto, uno prevale
sul resto: il ritorno di Berlusconi, la maschera dell’imbonitore che
straparla confondendo lire e euro, il cavallo di Troia senza il quale la
Lega e Fratelli d’Italia resterebbero lontani dal governo e i loro voti
in frigorifero.
Quando il presidente della commissione Ue Juncker
entra a gamba tesa sull’esito del voto, mettendo in preallarme la
comunità europea sulle possibilità di governo, nessuno in Europa – e in
Italia – spende una parola per chiedersi come sia possibile che un
condannato per frode fiscale guidi una coalizione in grado di competere
per conquistare le redini del nostro paese. Che, sarà bene ricordarlo,
portò la spesa sociale dai 346 milioni che era nel 2008, a 52,5 milioni
nel 2011.
Tutti i nostri “leader” si sono innervositi per l’uscita
del presidente europeo. E si capisce perché: è acclarata l’ampia
disponibilità verso una “unità nazionale”. Anche con chi ci ha portato
alla bancarotta. Ma non pochi italiani sono pronti a perdonare, affetti
da memoria corta o stuzzicati dalle pulsioni razziste della Lega con i
suoi cattivi umori contro gli immigrati, i crocifissi e il vangelo
offerti nella gremita piazza Duomo a Milano: proprio l’immigrazione è la
prova concreta della strumentalizzazione di un fenomeno epocale che ci
riguarda molto da vicino. La guerra in Libia con la moltiplicazione
degli sbarchi, la grande sanatoria dei 700 mila immigrati irregolari,
seguita da un’altra sanatoria nel 2009 per trecentomila “clandestini”.
Tutta farina del centrodestra che ora accusa il governo perché non ferma
i flussi, che in realtà stanno invece diminuendo, facendo pagare un
prezzo drammatico ai fuggitivi da fame, povertà e guerre, trattati come
animali nelle carceri libiche.
IL RENZISMO, CHE INIZIALMENTE aveva
creato speranze e conquistato consenso si è autodistrutto con il
referendum costituzionale. Che ci ha portato in dote il governo
Gentiloni. Ma è sulle politiche del lavoro e sociali che il Pd ha perso
sostegno provocando altre fratture alla sua sinistra e con i sindacati.
Il Pd di Renzi ci ha regalato diritti civili e una precarietà feroce. A
ben vedere un programma da destra liberale, più Lib che Lab. Dove l’eroe
laburista sarebbe il ministro montiano Carlo Calenda che, non per caso
ma per profonda sintonia, vota Bonino.
QUESTO PD HA LASCIATO I
GRILLINI parlare da soli di corruzione e mafie, spara i fuochi
artificiali anche sull’occupazione femminile che è al 48% quando la
media europea tocca il 61%, peggio di noi solo la Grecia. Ora Renzi
chiede il voto promettendo miliardi alle politiche per la famiglia, una
specie di bis degli 80 euro. Chiacchiere, altri bonus, nemmeno l’ombra
di un welfare che annulli le discriminazioni di genere. Sul piano della
rivoluzione ambientalista, all’ordine del giorno per la vita del
pianeta, questo governo presenta un pessimo bilancio. Dal referendum
sulle trivelle al consumo di suolo fino alla mancata attuazione delle
leggi europee sull’inquinamento atmosferico, con il rischio di pagare
salate penali. Sulla scuola si fanno paurosi salti all’indietro, sia sul
diritto allo studio che sulla svalorizzazione economica e culturale di
quella che una volta si chiamava università di massa. Oggi di massa
sembra esser rimasto l’esodo dei (pochi) laureati.
E DUNQUE QUESTE
ELEZIONI sono l’occasione per portare in parlamento una sinistra in
rappresentanza di lotte, battaglie, visioni del mondo. In quelle
francesi, tedesche, inglesi, e americane la sinistra radicale è stata
votata da milioni di persone. Con qualche tono eccessivamente
pessimista, recentemente Pablo Iglesias, il leader di Podemos (oggi
intorno al 19%) diceva che gli faceva un po’ tristezza vedere che in
Italia non c’è una sinistra forte abbastanza da competere nella sfida
del governo. Ma è vero che dopo cinque anni di legislatura, con tre
governi espressione della ricetta renziana alla crisi (una linea
politica che una volta si sarebbe definita anti-operaia), la rabbia
popolare non ha trovato la sinistra capace di ascoltarla.
CI
RITROVIAMO CON UNA DESTRA molto forte e probabilmente vincente,
aggressiva e retriva, cresciuta a corruzione e violenza, incarnata da un
ottuagenario pregiudicato, da un bullo xenofobo e da una seguace di
Orban. A contendergli lo scettro della vittoria non sarà il Pd di Renzi,
ma il partito-movimento dei 5Stelle, non una piccola cosa bensì il
primo partito italiano, dove il cittadino “occupa” il parlamento ma il
governo è affare del capo politico che ha già scelto. Un partito con un
elettorato al 40% di giovani, che dice di voler ripristinare l’articolo
18, cancellare il job act, e modificare la legge Fornero. Un movimento
anfibio, con una gestione politica spregiudicata, poco trasparente, con
il boomerang giustizialista che ha colpito come birilli i candidati
fast-food. Con la lista dei ministri i 5Stelle hanno azzeccato gli
ultimi giorni di propaganda, e, a giudicare dai nomi, si tratta di
persone che guardano a sinistra, scelte tutte all’esterno, un “governo
dei professori”. Sintomo non già di un ritorno al “montismo”, ma al mito
delle competenza senza una storia politica, nomi esterni
all’organizzazione, da poter bruciare se non rispettano il
crono-programma benedetto sull’altare del direttorio.
QUESTO
SCENARIO CI DICE GIÀ tutto sulle difficoltà della sinistra in questo
confronto elettorale. Una sinistra che chiede il voto ma è divisa tra un
tentativo unitario (Liberi e Uguali) e uno identitario (Potere al
popolo). Liberi e Uguali ha il merito di raccogliere la scelta di
Bersani e D’Alema di lasciare il partito, uno strappo sonoro, un segno
di autocritica, l’abbandono dei renziani e degli alleati-satelliti
ulivisti e radicali. Non si tratta di un percorso né facile, né
scontato, perché chi si è speso nell’impresa di proporre oggi una lista
per farnedomani un partito, a cominciare dai due presidenti di camera e
senato, Grasso e Boldrini, non lo ha certo fatto per la poltrona. Potere
al popolo, l’altra lista a sinistra del Pd, non fa parte di questo
processo unitario. Raccoglie movimenti e giovani che lavorano nelle
nostre periferie sociali, dove organizzano lotte su welfare e
accoglienza con filiere solidaristiche, come a Napoli. Una lista con
Rifondazione comunista che partecipa alla competizione elettorale
cimentandosi nell’arduo compito di non disperde i voti e fare
testimonianza.
C’È CHI SCEGLIERÀ DI USARE la prima scheda per
votare Liberi e Uguali e la seconda scheda per votare Potere al Popolo
(unico voto disgiunto possibile). Ma è evidente che se la lista di
Grasso riuscisse a raggiungere un risultato apprezzabile, il 5 di marzo i
discorsi sul futuro della sinistra, anche in Italia, potrebbero contare
su una solida base di partenza (la Linke alle ultime elezioni tedesche
ha raggiunto il 9,2%). Diversamente, nel caso di risicate percentuali,
avremo due risultati che confinano la sinistra in una modesta enclave.
Tutto sarebbe più difficile e il discorso sulla sinistra rinviato a
improbabili tempi migliori. Il battesimo politico del presidente del
senato è stata una scommessa, e non è detto che quel che gli si imputa
(non avere la stoffa del campaigner) non si riveli invece, come fu per
l’impacciato Prodi nella sfida con Berlusconi, una freccia in più
nell’urna, insieme a quella rappresentata da Laura Boldrini.
INUTILE
NASCONDERE IL PESO della disillusione per non essere riusciti a
superare le divisioni (spesso personalistiche e ideologiche) e tutto si
può dire tranne che le elettrici e gli elettori andranno alle urne
sereni e contenti. L’animo e le intenzioni di chi andrà al seggio sono
attraversati più da cattivi presagi che da convinte speranze. Del resto,
quando ci si presenta alle elezioni non si può poi sfuggire alla dura
replica dei fatti, in questo caso alla conta dei voti. E, a sinistra,
l’astensionismo peserà. Per questo domani i voti utili saranno due. Il
primo consiste nell’andare a votare. Il secondo è il voto a sinistra per
cambiare il paese.