il manifesto 4.3.18
Un saggio di Umberto Curi
Vernant e i Greci collettivi del ’68 francese
antropologia
storica. Cortina traduce (male) «La guerra nella Grecia antica», un
volume a più voci che Vernant pubblicò cinquanta anni fa: segno di una
qualità durevole o della crisi degli studi attuali?
di Carlo Franco
Caduti
i muri e le ideologie, la storia ha fornito al nostro tempo varie
occasioni per tornare a riflettere sulla guerra. Per molti europei essa
ha smesso di essere una realtà remota nel 1991, con i video del
bombardamento di Baghdad e gli scontri ai laghi di Plitvice. Eventi
successivi l’hanno resa più insidiosamente familiare. Forse per questo
il tema torna attuale anche per noi, «sicuri nelle nostre tiepide case».
Di guerra hanno ripreso a trattare pure gli studi sul mondo antico: un
settore per lungo tempo inquinato da retoriche guerrafondaie, ma ora
aperto a sguardi seri e nuovi. Lo provano i libri di Giovanni Brizzi (Il
guerriero, l’oplita, il legionario, 2003) e Marco Bettalli (Mercenari.
Il mestiere delle armi nel mondo greco antico, ’13). Sintesi recenti
offrono la Cambridge History of Greek and Roman Warfare (’07), mentre i
Companion su Insurgency and Terrorism in the Ancient Mediterranean
(’16), e Military Defeat in Ancient Mediterranean Society (’17) guardano
più esplicitamente alla cronaca recente.
Un saggio di Umberto Curi
In
tale quadro si pubblica l’edizione italiana di un volume collettivo su
La guerra nella Grecia antica, curato da Jean-Pierre Vernant nel lontano
1968, ripreso nell’85 e nel ’99 (Raffaello Cortina Editore «Saggi», pp.
lxiv +350, € 29,00). Il testo, tradotto da Ilaria Calini, è preceduto
da un saggio di Umberto Curi, che delinea il lungo percorso
intellettuale di Vernant e sviluppa considerazioni sul tema della
guerra, cui Curi ha di recente dedicato numerosi contributi. Accostare
il libro significa ripercorrere le vie dell’antropologia storica
francese, donde i saggi, anche se non tutti nati in quel contesto,
trassero il loro senso più profondo. Il punto di vista adottato non
lasciò entrare nello studio del tema «nessuna rimozione, nessuna
pregiudiziale svalutazione, nessun atteggiamento esorcistico, in nome di
un indistinto appello di stampo pacifista». Questa concretezza non era
scontata, dato il clima degli anni sessanta: osserva però Curi che un
approccio alla guerra come elemento storicamente «necessario» (e non
solo preparatorio della rivoluzione anticapitalistica) era ben coerente
alla prospettiva di Marx. I contributi del libro furono sufficientemente
liberi da schemi ideologici, così da restare attuali, a cinquant’anni
dalla pubblicazione. Questo, anche se non riflettono lo stato presente
delle conoscenze archeologiche, anche se l’interpretazione dipende
talora da posizioni oggi non seguite. Viene anzi da chiedersi se la loro
riproposta sia segno di validità e persistenza oppure di crisi, ossia
della mancanza di saggi recenti di pari efficacia e sintesi. In qualche
caso però sarebbe stato utile informare il lettore sugli sviluppi della
ricerca successiva. Lo studio delle fortificazioni, per esempio, ha
ricevuto un impulso notevolissimo tra archeologi, storici e epigrafisti:
di tutto ciò il saggio di Yvon Garlan presente nel volume è proprio la
premessa metodica.
Il libro nacque da seminari «collettivi», vòlti
a indagare gli «atteggiamenti degli uomini» di fronte alla guerra e
alle sue conseguenze. Fa da guida il concetto di «funzione guerriera»,
mutuato dagli studi di Georges Dumézil (Aspects de la fonction guerrière
chez les Indo-Européens,1956), che aveva individuato nelle società tre
«funzioni» pervasive, legate all’ambito religioso, guerriero, economico.
E poi c’è Louis Gernet, il maestro di Vernant che aveva insegnato a
guardare ai Greci «senza miracolo», ossia senza le idealizzazioni del
filtro classicista. Al tema della guerra Vernant (1914-2007) approdava
anche per l’esperienza personale nella resistenza all’occupazione
nazista. Perciò il suo sguardo era libero sia dalle deprecazioni
pacifiste sia dai fervori bellicisti. Per questo egli poteva analizzare
l’etica dell’oplita spartano senza le ambigue implicazioni che
contagiano la guerra dei greci, quando è letta in funzione delle «razze
superiori».
Nei vari lavori (Detienne sulla falange, Vidal-Naquet
sull’oplita ateniese), lo strutturalismo e l’antropologia storica
sorreggono una lettura sistematica in cui tutto «torna» rigorosamente, e
ciò fa effetto in un’epoca in cui tutto invece pare sempre «liquido». I
due saggi di studiosi anglosassoni (Geoffrey S. Kirk su Omero, Moses
Finley su Sparta) sono già diversi, più fattuali e più scettici allo
stesso tempo. Altri contributi hanno un taglio più storico (Jean
Taillardat sulla trireme, Garlan sulle fortificazioni, Pierre Lévêque
sull’età ellenistica). Nella varietà, il quadro sui fatti e gli aspetti
della «sociologia della guerra» nella Grecia antica è efficace. Certo,
«guerra in Grecia» è un tema ampio. Il libro studia soprattutto l’età
arcaica, dalla guerra omerica (anzi, dalle guerre del mito) a quella
degli opliti, ripensate secondo le categorie antiche, esaminando i
comportamenti riconosciuti meritevoli di biasimo o di elogio. Sparta e
Atene rappresentano due poli fondamentali, meno opposti di quanto si
crederebbe. Entrambe diffidarono a lungo del carisma che circonda il
militare vittorioso, in quanto esso scardina l’uguaglianza del gruppo.
Per Atene, l’emarginazione della funzione guerriera passò per il
«discorso» democratico, che celebrava il «non specialismo» di ufficiali e
soldati (vero in parte, certo non per la flotta). L’evoluzione storica
di armi e soldati è da leggere in rapporto alla trasformazione sociale.
Perciò la guerra del Peloponneso emerge come una svolta profonda nella
società greca: mise fine ai giorni eroici dei guerrieri e della «bella
morte», allentò alquanto il nesso tra la guerra e la comunità dei
cittadini, aprì all’epoca dei professionisti della battaglia. Colse bene
il punto Tucidide, che parlò di una «maestra di violenza» (3.82.2).
Non proprio impeccabile
Nell’introduzione
si definisce la traduzione «davvero impeccabile per l’accuratezza e il
rigore filologico». Il lettore incontra un quadro più vario. Nel saggio
sulle triremi si ammirano impressionanti tecnicismi di marineria (i
«traniti»!), si rinuncia però a tradurre «à clin», che come ciascun sa è
il «fasciame a labbro». Più fastidiose certe sviste, ingannevoli per il
non specialista. In quale lingua è la parola keleuste (p. 228)? Perché
la grafia papyri? Che cosa sono le feste Apaturies (p. 7)? In corsivo,
sembrano parole greche, ma. In quale lingua sono citati i «teti
epibates» (p. 196)? Anche epibates, per di più in corsivo, pare una
parola greca, ma non lo è: si tratta della resa francese di parole
greche, secondo un uso diverso dall’italiano. Andava italianizzato in
«epìbati» (come altrove, alle pp. 228-29, sfruttando il latino epibata),
o traslitterato, scrivendo «epibàtai». Il testo francese può essere
ambiguo, e certo ha generato lo stesso errore nella precedente
traduzione italiana del saggio, e anche nelle versioni in tedesco e in
spagnolo. Nullo il gaudio di questo mal comune. Che per tradurre Vernant
serva sapere anche un po’ di greco antico? Mah. Il problema si
ripropone per certi nomi propri. Sotto «Fravito» si cela Fravitta,
celebre capo visigoto, mentre un ignoto «Eneo Tattico» è l’infelice
esito (per tre volte!) di un non difficilissimo «Énée» (già, Enea…).
D’altra parte, i pochissimi passi in greco generano refusi sfiguranti
(p. 205), e un editing bizzarro rinvia per il testo degli editti del re
indiano Asoka a un manuale di storia per i bienni (!) invece che
all’edizione Adelphi, curata da Pugliese Carratelli… Rigore filologico,
appunto.