domenica 4 marzo 2018

il manifesto 4.3.18
Un saggio di Umberto Curi
Vernant e i Greci collettivi del ’68 francese
antropologia storica. Cortina traduce (male) «La guerra nella Grecia antica», un volume a più voci che Vernant pubblicò cinquanta anni fa: segno di una qualità durevole o della crisi degli studi attuali?
di Carlo Franco


Caduti i muri e le ideologie, la storia ha fornito al nostro tempo varie occasioni per tornare a riflettere sulla guerra. Per molti europei essa ha smesso di essere una realtà remota nel 1991, con i video del bombardamento di Baghdad e gli scontri ai laghi di Plitvice. Eventi successivi l’hanno resa più insidiosamente familiare. Forse per questo il tema torna attuale anche per noi, «sicuri nelle nostre tiepide case». Di guerra hanno ripreso a trattare pure gli studi sul mondo antico: un settore per lungo tempo inquinato da retoriche guerrafondaie, ma ora aperto a sguardi seri e nuovi. Lo provano i libri di Giovanni Brizzi (Il guerriero, l’oplita, il legionario, 2003) e Marco Bettalli (Mercenari. Il mestiere delle armi nel mondo greco antico, ’13). Sintesi recenti offrono la Cambridge History of Greek and Roman Warfare (’07), mentre i Companion su Insurgency and Terrorism in the Ancient Mediterranean (’16), e Military Defeat in Ancient Mediterranean Society (’17) guardano più esplicitamente alla cronaca recente.
Un saggio di Umberto Curi
In tale quadro si pubblica l’edizione italiana di un volume collettivo su La guerra nella Grecia antica, curato da Jean-Pierre Vernant nel lontano 1968, ripreso nell’85 e nel ’99 (Raffaello Cortina Editore «Saggi», pp. lxiv +350, € 29,00). Il testo, tradotto da Ilaria Calini, è preceduto da un saggio di Umberto Curi, che delinea il lungo percorso intellettuale di Vernant e sviluppa considerazioni sul tema della guerra, cui Curi ha di recente dedicato numerosi contributi. Accostare il libro significa ripercorrere le vie dell’antropologia storica francese, donde i saggi, anche se non tutti nati in quel contesto, trassero il loro senso più profondo. Il punto di vista adottato non lasciò entrare nello studio del tema «nessuna rimozione, nessuna pregiudiziale svalutazione, nessun atteggiamento esorcistico, in nome di un indistinto appello di stampo pacifista». Questa concretezza non era scontata, dato il clima degli anni sessanta: osserva però Curi che un approccio alla guerra come elemento storicamente «necessario» (e non solo preparatorio della rivoluzione anticapitalistica) era ben coerente alla prospettiva di Marx. I contributi del libro furono sufficientemente liberi da schemi ideologici, così da restare attuali, a cinquant’anni dalla pubblicazione. Questo, anche se non riflettono lo stato presente delle conoscenze archeologiche, anche se l’interpretazione dipende talora da posizioni oggi non seguite. Viene anzi da chiedersi se la loro riproposta sia segno di validità e persistenza oppure di crisi, ossia della mancanza di saggi recenti di pari efficacia e sintesi. In qualche caso però sarebbe stato utile informare il lettore sugli sviluppi della ricerca successiva. Lo studio delle fortificazioni, per esempio, ha ricevuto un impulso notevolissimo tra archeologi, storici e epigrafisti: di tutto ciò il saggio di Yvon Garlan presente nel volume è proprio la premessa metodica.
Il libro nacque da seminari «collettivi», vòlti a indagare gli «atteggiamenti degli uomini» di fronte alla guerra e alle sue conseguenze. Fa da guida il concetto di «funzione guerriera», mutuato dagli studi di Georges Dumézil (Aspects de la fonction guerrière chez les Indo-Européens,1956), che aveva individuato nelle società tre «funzioni» pervasive, legate all’ambito religioso, guerriero, economico. E poi c’è Louis Gernet, il maestro di Vernant che aveva insegnato a guardare ai Greci «senza miracolo», ossia senza le idealizzazioni del filtro classicista. Al tema della guerra Vernant (1914-2007) approdava anche per l’esperienza personale nella resistenza all’occupazione nazista. Perciò il suo sguardo era libero sia dalle deprecazioni pacifiste sia dai fervori bellicisti. Per questo egli poteva analizzare l’etica dell’oplita spartano senza le ambigue implicazioni che contagiano la guerra dei greci, quando è letta in funzione delle «razze superiori».
Nei vari lavori (Detienne sulla falange, Vidal-Naquet sull’oplita ateniese), lo strutturalismo e l’antropologia storica sorreggono una lettura sistematica in cui tutto «torna» rigorosamente, e ciò fa effetto in un’epoca in cui tutto invece pare sempre «liquido». I due saggi di studiosi anglosassoni (Geoffrey S. Kirk su Omero, Moses Finley su Sparta) sono già diversi, più fattuali e più scettici allo stesso tempo. Altri contributi hanno un taglio più storico (Jean Taillardat sulla trireme, Garlan sulle fortificazioni, Pierre Lévêque sull’età ellenistica). Nella varietà, il quadro sui fatti e gli aspetti della «sociologia della guerra» nella Grecia antica è efficace. Certo, «guerra in Grecia» è un tema ampio. Il libro studia soprattutto l’età arcaica, dalla guerra omerica (anzi, dalle guerre del mito) a quella degli opliti, ripensate secondo le categorie antiche, esaminando i comportamenti riconosciuti meritevoli di biasimo o di elogio. Sparta e Atene rappresentano due poli fondamentali, meno opposti di quanto si crederebbe. Entrambe diffidarono a lungo del carisma che circonda il militare vittorioso, in quanto esso scardina l’uguaglianza del gruppo. Per Atene, l’emarginazione della funzione guerriera passò per il «discorso» democratico, che celebrava il «non specialismo» di ufficiali e soldati (vero in parte, certo non per la flotta). L’evoluzione storica di armi e soldati è da leggere in rapporto alla trasformazione sociale. Perciò la guerra del Peloponneso emerge come una svolta profonda nella società greca: mise fine ai giorni eroici dei guerrieri e della «bella morte», allentò alquanto il nesso tra la guerra e la comunità dei cittadini, aprì all’epoca dei professionisti della battaglia. Colse bene il punto Tucidide, che parlò di una «maestra di violenza» (3.82.2).
Non proprio impeccabile
Nell’introduzione si definisce la traduzione «davvero impeccabile per l’accuratezza e il rigore filologico». Il lettore incontra un quadro più vario. Nel saggio sulle triremi si ammirano impressionanti tecnicismi di marineria (i «traniti»!), si rinuncia però a tradurre «à clin», che come ciascun sa è il «fasciame a labbro». Più fastidiose certe sviste, ingannevoli per il non specialista. In quale lingua è la parola keleuste (p. 228)? Perché la grafia papyri? Che cosa sono le feste Apaturies (p. 7)? In corsivo, sembrano parole greche, ma. In quale lingua sono citati i «teti epibates» (p. 196)? Anche epibates, per di più in corsivo, pare una parola greca, ma non lo è: si tratta della resa francese di parole greche, secondo un uso diverso dall’italiano. Andava italianizzato in «epìbati» (come altrove, alle pp. 228-29, sfruttando il latino epibata), o traslitterato, scrivendo «epibàtai». Il testo francese può essere ambiguo, e certo ha generato lo stesso errore nella precedente traduzione italiana del saggio, e anche nelle versioni in tedesco e in spagnolo. Nullo il gaudio di questo mal comune. Che per tradurre Vernant serva sapere anche un po’ di greco antico? Mah. Il problema si ripropone per certi nomi propri. Sotto «Fravito» si cela Fravitta, celebre capo visigoto, mentre un ignoto «Eneo Tattico» è l’infelice esito (per tre volte!) di un non difficilissimo «Énée» (già, Enea…). D’altra parte, i pochissimi passi in greco generano refusi sfiguranti (p. 205), e un editing bizzarro rinvia per il testo degli editti del re indiano Asoka a un manuale di storia per i bienni (!) invece che all’edizione Adelphi, curata da Pugliese Carratelli… Rigore filologico, appunto.

Corriere La Lettura 4.3.18
Carteggi
Che amicizia
Nelle lettere tra i due rivoluzionari tanto comunismo ma anche Dante e Ariosto
Il geniale Marx il devoto Engels
di Marcello Musto


https://issuu.com/segnalazioni.box/docs/carteggio_marx_engels_0a8bc4890d04b3

Karl Marx e Friedrich Engels si conobbero a Colonia, nel novembre del 1842, quando il secondo visitò la redazione della «Rheinische Zeitung» e incontrò il giovane direttore. L’inizio del loro sodalizio teorico avvenne, però, solo nel 1844, a Parigi. A differenza di Marx (nato due secoli fa, il 5 maggio 1818), Engels, figlio di un industriale tessile, aveva già avuto la possibilità di viaggiare in Inghilterra, verificando di persona gli effetti perversi dello sfruttamento capitalistico. Un suo articolo sulla critica dell’economia politica destò un forte interesse in Marx che, proprio in quel periodo, decise di destinare tutte le sue energie a questa disciplina. I due cominciarono così una collaborazione che durò per il resto delle loro esistenze.
Nel 1845, quando il governo francese espulse Marx a causa della sua militanza comunista, Engels lo seguì a Bruxelles. In quello stesso anno apparve anche una delle poche opere scritte in comune, una critica dell’idealismo dei giovani hegeliani, intitolata La sacra famiglia , e i due prepararono un voluminoso manoscritto — L’ideologia tedesca — poi lasciato alla «critica roditrice dei topi». Successivamente, in concomitanza con i primi moti del 1848, Marx ed Engels pubblicarono quello che sarebbe diventato il testo politico più letto della storia: il Manifesto del partito comunista .
Nel 1849, in seguito alla sconfitta della rivoluzione, Marx fu costretto a trasferirsi in Inghilterra ed Engels lo raggiunse. Il primo prese dimora a Londra, mentre il secondo andò a lavorare a Manchester, dove iniziò a dirigere l’azienda di famiglia. Dal 1850 al 1870, anno in cui Engels si ritirò dagli affari e poté ricongiungersi con l’amico nella capitale inglese, essi diedero vita al periodo più intenso del loro carteggio, confrontandosi sui principali avvenimenti politici ed economici della loro epoca. Datano proprio a questo ventennio la gran parte delle 2.500 lettere scambiate tra i due, alle quali vanno aggiunte altre 1.500 da loro spedite a militanti e intellettuali di quasi venti Paesi. Completano l’imponente corrispondenza ben 10 mila missive indirizzate a Marx ed Engels da terzi e altre seimila lettere non rintracciate, della cui esistenza si ha comprovata certezza. È un tesoro prezioso, in cui sono racchiuse idee che, talvolta, essi non riuscirono a sviluppare compiutamente nei loro scritti.
Pochi carteggi dell’Ottocento possono vantare riferimenti così eruditi. Marx leggeva in otto lingue ed Engels ne padroneggiava dodici; le loro lettere si contraddistinguono per l’alternarsi dei tanti idiomi usati e per le citazioni colte, anche in latino e greco antico. I due umanisti erano anche grandi appassionati di letteratura. Marx conosceva il teatro di Shakespeare a memoria e non si stancava mai di sfogliare i suoi volumi di Eschilo, Dante e Balzac. Engels fu a lungo il presidente dell’Istituto Schiller di Manchester e adorava Ariosto, Goethe e Lessing. Accanto al permanente dibattito sugli eventi internazionali e sulle possibilità rivoluzionarie, numerosi furono gli scambi sulle maggiori scoperte di tecnologia, geologia, chimica, fisica, matematica e antropologia. Per Marx, Engels costituì sempre un confronto imprescindibile.
In alcuni periodi, vi fu tra loro una autentica divisione del lavoro. Dei 487 articoli firmati da Marx, tra il 1851 e il 1862, per il «New-York Daily Tribune», il giornale più diffuso degli Stati Uniti, quasi la metà furono, in realtà, scritti da Engels. Marx narrò al pubblico americano i più rilevanti accadimenti politici e le crisi economiche, mentre Engels raccontò le molte guerre in corso e i loro possibili esiti. Così facendo, egli permise all’amico di dedicare più tempo al completamento delle ricerche di economia.
Dal punto di vista umano, il loro rapporto fu ancora più straordinario. Marx confidò a Engels tutte le sue difficoltà personali, a cominciare dalla terribile povertà e dai tanti problemi di salute che lo tormentarono. Engels si prodigò con totale abnegazione per aiutare l’amico e la sua famiglia, facendo sempre tutto quanto era nelle sue possibilità per assicurare loro un’esistenza dignitosa e per agevolare il completamento del Capitale . Marx gli fu costantemente grato, come dimostra quanto gli scrisse in una notte dell’agosto del 1867, pochi minuti dopo aver finito la correzione delle bozze del libro primo del Capitale : «Debbo soltanto a te se ciò fu possibile». A partire dal settembre 1864, la stesura del magnum opus di Marx era stata ritardata anche a causa della sua partecipazione all’attività dell’Associazione internazionale dei lavoratori. Egli di fatto ne aveva assunto la direzione dal principio, ma anche Engels, appena poté, mise le sue doti politiche al servizio degli operai. La notte del 18 marzo 1871, quando ebbero notizia che «l’assalto al cielo» era riuscito e che a Parigi era nata la prima Comune socialista, compresero che i tempi potevano mutare più velocemente di quanto essi stessi si aspettavano.
Anche dopo la morte della moglie di Marx nel 1881, quando i medici gli imposero diversi viaggi lontano da Londra per tentare di curare meglio le sue malattie, i due non smisero mai di scriversi. Utilizzarono sovente gli affettuosi soprannomi con i quali erano chiamati: il Moro e il Generale — Marx a causa del colore corvino di barba e capelli, Engels per la grande esperienza in materia di strategia militare.
Poco prima della sua morte, Marx chiese alla figlia Eleanor di rammentare a Engels di «fare qualcosa» dei suoi manoscritti incompiuti. Egli rispettò la sua volontà e, subito dopo il pomeriggio del marzo 1883, quando lo rivide per l’ultima volta, intraprese un lavoro ciclopico. Engels sopravvisse a Marx per 12 anni, buona parte dei quali furono impiegati per rendere pubblicabili gli appunti dei libri secondo e terzo del Capitale , che l’amico non era riuscito a completare.
In quel periodo, gli mancarono molte cose di Marx e tra queste anche il costante scambio epistolare. Engels catalogò con cura le loro lettere, ricordandosi degli anni in cui, fumando la pipa, soleva redigerne una per notte. Le rilesse spesso, in alcune circostanze con un po’ di malinconia, ripensando ai momenti della loro giovinezza durante i quali, sorridendo e burlandosi l’uno dell’altro, si erano sforzati di prevedere dove sarebbe potuta scoppiare la prossima rivoluzione. Mai, però, lo abbandonò la certezza che altri avrebbero proseguito il loro lavoro teorico e che in milioni avrebbero continuato a lottare per l’emancipazione delle classi subalterne.

Repubblica 2.3.18
'Il giovane Karl Marx', vita da romanzo di un ragazzo visionario
Il 5 aprile al cinema il film diretto da Raoul Peck. Dall'incontro con Engels alla stesura del Manifesto alla vigilia dei moti che sconvolgeranno l'Europa, l'avventura di un rivoluzionario che ha cambiato la Storia
di Emiliano Morreale

qui

Il Fatto 4.3.18
L’aquila bianca della Polonia: orgoglio per negare il passato
Anti-Shoah - Nel Paese che punisce chi ricorda il suo ruolo svolto nell’Olocausto si pensa ad accusare i crimini del regime sovietico
di di Michela A. G. Iaccarino


La Polonia si interroga sotto le ali spiegate dell’aquila bianca. Lo stemma nazionale, vietato fino agli anni ’90 dalle autorità comuniste, è pallido sullo sfondo rosso patinato della Gazeta polska in edicola. In copertina sull’ultimo numero c’è una domanda e le macerie del Tu-154, l’aereo precipitato in Russia nel 2010. Morì Lech Kaczynski, presidente polacco, insieme ai capi delle forze armate, membri del Parlamento, della Chiesa e parenti delle vittime del massacro di Katyn, avvenuto per ordine di Stalin 70 anni prima. Sulla rivista ci sono gli ultimi aggiornamenti dell’indagine sulla catastrofe per trovare la verità, perché alcune ai polacchi interessano più delle altre.
Quella tragedia, secondo molti figlia del sabotaggio del Cremlino, otto anni dopo rimane in prima pagina. Alla nuova legge sull’Olocausto, che vieta di parlare della complicità con i nazisti di alcuni strati della popolazione polacca, che punisce con il carcere, fino a tre anni, chi parla di “campi di concentramento polacchi”, è riservato un editoriale alla fine. A nord, per gli slavi europei, la storia è in fase di riscrittura e reinterpretazione. La legge che ha scatenato le ire di Israele, Stati Uniti, Europa da nord a sud, comunità ebraiche nel mondo, non ha esagitato giovani polacchi nei bar, vecchi nelle sale da the, adulti nei negozi.
Mentre Bruxelles si mobilitava per fare ricorso all’articolo 7 del Trattato di Lisbona, che priverà Varsavia del diritto di voto nelle istituzioni europee, il giorno in cui la legge entrava in vigore il primo marzo, la neve continua a coprire marciapiedi e strade a via Josefa, Kazimierz, quartiere ebraico, Cracovia. Alla fine della strada, girando a destra e poi ancora a destra, c’è il JCC, il centro culturale della comunità ebraica, dove “non sanno che bisogno c’era di questa legge proprio adesso, ma non ne sono preoccupati, la Polonia è un posto sicuro per gli ebrei”. In frange ristrette della società attuale l’antisemitismo rimane, anche se i membri della comunità ebraica, una tra le più grandi d’Europa prima di Hitler, non ci sono più. Gli antisemiti polacchi “si limitano a parlare, ma non agiscono”, dice con più di 80 anni e capelli rossi Sofia, una sopravvissuta dell’Olocausto, che mangia biscotti in attesa del suo corso di ebraico moderno al JCC. Prima che venisse deportata nei campi, la popolazione ebraica della zona raggiungeva quasi le 70mila persone. Oggi mancano censimenti certi, ma si crede ne siano rimasti qualche centinaio.
Ebrei oggi sono alcuni visitatori in fila o nei camioncini multilingua dei tour della memoria, che percorrono le stesse rotte a tutte le ore, si fermano qualche istante e ripartono per pochi sloty. Lungo la strada Lwowska 25 e la Limanowskiego 62 qualcuno lascia ancora i fiori in ricordo del ghetto. Il quartiere è il vecchio set del film di Steven Spielberg degli Anni 90, Schindler’s list, poi archivi e il cimitero rinascimentale ebraico, una foresta grigia di lapidi monumentali, marmo e muschio, coperte di pietre e silenzio. La presenza ebraica aleggia negli ultimi due negozi kosher rimasti, nei motivi della carta da parati dei ristoranti chic, dove prenoti prima o è digiuno.
C’è la “Stara”, vecchia sinagoga, quella di Isacco, di Kupa, la Tempel. In tutto sono 7, ma quasi nessuno ci prega più dentro. Sono musei a pagamento, torah sotto vetro, etichette con riferimenti storici di un mondo che fuori dalla finestra non esiste più, cimeli spolverati dalle guardiane delle sale, invecchiate sulle sedie negli angoli. Kazimierz è un mausoleo per turisti, un piedistallo ai resti di quello che fu. Fuori da Cracovia, la Polonia soffre di amnesia o ha comunque problemi di memoria.
Due ore. Il treno che fa capolinea ad Oswiecim, la città intorno al campo di concentramento di Auschwitz, è rosso e lento. Dietro i vetri opachi del bus verso Birkenau i volti guardano di sbieco. Maria è una turista venuta qui da Varsavia per la seconda volta con il suo fidanzato. Un chiosco degli hot dog fuori, un’aquila bianca su qualche manifesto, candida come la neve che cala su Birkenau. Di quella fame, tortura e morte per gas e forni è rimasto uguale il gelo bianco che cade a fiocchi sotto zero, intorno ai pali di cemento, filo spinato elettrificato, tra montagne di occhiali, scarpe, valigie di chi è entrato qui per non uscirne mai più. Le guide del Memoriale del campo non hanno dichiarazioni ufficiali da rilasciare sul presente e sulla legge che li riguarda, loro compito “è preservare il passato, il mosaico dei ricordi, le vite di chi – non solo ebrei, ma rom, russi, polacchi – è morto qui”. Selfie vicino al teschio nero e la scritta Halt!, cinesi a flotte. Scolaresche distratte e rumorose. Qualcuno passato di qui ha lasciato una rosa rossa sul vagone fermo sui binari, qualcun altro, dito nel ghiaccio, ha disegnato una stella di Davide nella neve. Una delle poche rimaste in giro qui intorno, prima che il freddo si porti vi tutto.

il manifesto 4.3.18
Fiscal compact, Bonino fa il gioco degli anti-europeisti
4 marzo. Cara Emma, distruggere quello che resta dello stato sociale non è una buona idea
di Bifo


Alcuni fra i miei amici e soprattutto amiche hanno intenzione di votare +Europa e la persona di Emma Bonino. Ottima scelta mi verrebbe voglia di dire, perché si tratta di una persona di grande coerenza e simpatia, e rappresenta una storia di dignità e di coraggio: la storia del partito radicale, nonostante le attuali polemiche che mal comprendo.
Marco Pannella venne a Parigi quando ero esule in quella città nel 1977. I politici di tutte le appartenenze mi consideravano un appestato o un mascalzone perché coi miei compagni parlavamo ai microfoni di una radio che denunciava l’alleanza austeritaria della Dc e del Ppc, e Pannella venne a portarmi la sua solidarietà e insieme partecipammo a un convegno dedicato a Pasolini, che era presieduto da Julia Kristeva.  Chapeau.
Già allora pensavo però che Pannella ed Emma Bonino come lui avessero una cultura tutta politico-giuridica, ma non avessero la più pallida idea di cosa sia lo sfruttamento e di cosa siano le lotte sociali.
Emma Bonino chiede il voto per avere più Europa, dice che per rispettare le regole imposte dal fiscal compact per cinque anni dovremmo bloccare ogni voce di spesa. Fantastica idea, ma pericolosa: i treni pendolari cascherebbero a pezzi, gli incidenti si moltiplicherebbero peggio di come già succede ora. Gli studenti delle scuole periferiche d’inverno morirebbero dal freddo e i calcinacci gli romperebbero la testa, mentre migliaia di insegnanti si suiciderebbero per la miseria e per la depressione. Milioni di persone rimarrebbero senza assistenza sanitaria, gli ospedali si troverebbero senza siringhe e senza cerotti. I medici emigrerebbero verso la sanità privata.
Alla faccia della non violenza quante decine di migliaia di morti ci costerebbe l’idea della brava Emma? No, distruggere quello che resta dello stato sociale non è una buona idea.
Questo vuol dire forse che io voglio meno Europa? No, vuol dire che Emma Bonino ha capito male cos’è l’Europa.
Negli ultimi dieci anni l’Unione europea è morta nel cuore della maggioranza degli europei, e l’antieuropeismo cresce a dismisura proprio perché la classe dirigente neo-liberista ha trasformato l’Unione in uno strumento del potere finanziario, così i lavoratori vedono l’Unione come la causa della loro miseria. L’imposizione del fiscal compact, il sistematico prelievo di risorse dalle tasche di chi lavora per ripianare il debito delle banche è la causa evidente dell’agonia dell’Unione.
Il fiscal compact è un cappio al collo della popolazione europea. E quando il cappio si stringe non arriva più sangue al cervello, e la popolazione europea, col cervello in agonia, segue i predicatori di violenza, di odio, di nazionalismo razzista. Questo è il fiscal compact.
Bonino fa lo stesso errore degli anti-europeisti, di coloro che vogliono tornare all’illusoria sovranità nazionale: identifica l’Unione europea con il fiscal compact.
Io voto Potere al popolo perché sono europeista, e voglio che l’Unione non sia uno strumento del sistema finanziario ma uno strumento per l’uguaglianza salariale di tutti i cittadini europei, per la solidarietà e per il reddito di esistenza, per la riduzione dell’orario di lavoro. Voto Potere al popolo perché nonostante questo nome un po’ retrogrado vuole rompere la dipendenza della società dalla regola autoritaria del Fiscal compact, vuole liberare le energie della società dal dominio del sistema finanziario.

Corriere La Lettura 4.3.18
«Il capo di Facebook è il nuovo Napoleone »
Un saggio dello storico Niall Ferguson ricostruisce il conflitto secolare tra le strutture gerarchiche e le reti diffuse
Oggi siamo di fronte a una rivoluzione dal basso, suscitata da internet, paragonabile a quella causata dall’invenzionedella stampa. Ma da una parte si rischia l’anarchia, dall’altra il ritorno a un forte accentramento, anche per l’ascesa della Cina
Intervista di Massimo Gaggi


«Chi può essere il Napoleone dei tempi moderni in quest’epoca di poteri deboli che, con la diffusione del digitale, vede di nuovo prevalere l’influenza delle reti rispetto alle gerarchie del potere temporale?». Se lo chiede Niall Ferguson in una conversazione con «la Lettura», mentre sta per uscire in Italia La piazza e la torre (Mondadori), il suo nuovo libro. E la risposta dello storico britannico, che oggi si divide tra Oxford e la Stanford University in California, è abbastanza sorprendente: «Certo non Donald Trump: molti ne temono le tendenze imperiali, ma l’argine della Costituzione riuscirà a respingere i suoi tentativi episodici e velleitari di iniettare autoritarismo nel sistema. Ha più possibilità Xi Jinping, capo della Cina, la potenza oggi più dinamica. Ma ci vuole il caos rivoluzionario per emergere come un Napoleone, mentre Xi ha ereditato il potere dai precedenti leader del Partito comunista. Il vero Napoleone è Mark Zuckerberg: non so come se la caverà con i grossi problemi di responsabilità sociale che affliggono Facebook, ma è passato in breve dalla totale oscurità a essere uno dei leader più influenti della Terra. Domina le reti sociali più potenti che l’umanità abbia mai conosciuto».
Da Colossus a Il grande declino , a Kissinger l’idealista , i saggi di Ferguson sono cavalcate affascinanti, stimolanti, spesso provocatorie. Magari anche ardite, ma sempre capaci di far riflettere. Stavolta l’accademico conservatore (feroce critico di Barack Obama, è stato consigliere del repubblicano John McCain alle presidenziali del 2008 e ha sostenuto Mitt Romney nel 2012) si spinge fino a una rilettura della storia degli ultimi 600 anni, reinterpretata (anche usando le scienze sociali) come un’alternanza tra ere dominate dalle gerarchie del potere temporale e periodi nei quali prevale la forza delle reti sociali. Reti che, spiega Ferguson da Stanford, «sono le strutture naturali che gli esseri umani hanno sempre creato, ben prima di internet».
Nel suo racconto, che comincia nella Mesopotamia del 2000 a.C., esamina diverse reti: dalla società segreta bavarese degli Illuminati all’Isis, dalle organizzazioni massoniche agli accademici marxisti di Cambridge che si misero al servizio dell’Urss. Ma i momenti-chiave, quelli nei quali le gerarchie cedono il passo al diffondersi del potere delle reti, sono due. E sono legati alla comunicazione: Johannes Gutenberg con l’invenzione della stampa intorno alla metà del Quattrocento e l’emergere della civiltà di internet. Perché?
«Internet ha avuto sul mondo lo stesso effetto che l’invenzione della stampa ebbe sull’Europa nel XV secolo. Gutenberg e la Silicon Valley hanno aperto la strada a rivoluzioni delle reti che prima erano impossibili. La prima ha avuto conseguenze durature, che si sono dispiegate per diversi secoli: la Riforma luterana, la rivoluzione scientifica, l’Illuminismo, la rivoluzione americana e quella francese vengono dalla stessa matrice, reti basate su idee trasmesse con parole stampate».
Che cosa pose fine alla prima era delle reti, all’inizio del XIX secolo?
«Con la fine del Settecento assistiamo alla consunzione delle energie rivoluzionarie. Dopo l’esperienza giacobina parte una reazione che dalla Francia napoleonica si trasmette alle regioni europee circostanti. È il momento della storia nel quale il pendolo comincia a muoversi nella direzione opposta: rinascono i poteri centrali, le gerarchie temporali tornano a prendere il sopravvento. Con la Francia sprofondata nella violenza e nell’anarchia, Napoleone si presenta come l’unico in grado di rimettere ordine. E quando, nell’Ottocento, uscirà di scena, avrà ormai aperto la strada ad altre gerarchie, a partire da quelle emerse dal Congresso di Vienna. Poi arriveranno alcune rivoluzioni tecnologiche, tutte in varia maniera destinate a favorire le gerarchie del potere centralizzato: vale per il telegrafo, la ferrovia, le navi a vapore e, più tardi, per la radio. Tutti sistemi reticolari facilmente controllabili dal centro. Una tendenza alla centralizzazione durata per tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento, comprese le due guerre mondiali. Un ciclo che si è esaurito negli anni Sessanta del secolo scorso».
Con l’era digitale lei vede risorgere il ruolo guida delle reti dopo quasi due secoli di dominazione delle gerarchie. Come si materializza questa riscossa?
«In molti modi, a cominciare dall’elezione di Trump che è dovuta, almeno in parte, a un abile uso delle reti: sapiente costruzione dell’immagine televisiva, bravura e spregiudicatezza nel servirsi di Twitter e Facebook. Per non parlare delle reti russe che si sono insinuate nel meccanismo elettorale della democrazia americana e hanno aiutato Trump».
Il nuovo presidente è arrivato alla Casa Bianca mentre i giganti tecnologici stanno prendendo il sopravvento: può essere Trump, il nostalgico della forza militare e politica della superpotenza americana, che non vuole certo farsi scavalcare dalle aziende digitali, il leader di una controrivoluzione?
«È arrivato al potere in un momento chiave: potrebbe fare la storia, ma, come le dicevo, non credo che Trump abbia la forza e l’acume per svolgere un simile ruolo. Il suo autoritarismo è velleitario. Il rischio di un rilancio dei sistemi dominati da gerarchie rigide viene da un’altra parte del mondo: dalla Cina. Qui le grandi piattaforme tecnologiche, società come Alibaba e Tencent, sono ormai diventate agenzie di Stato. Le reti risucchiate dalla gerarchia: con la loro tecnologia il Partito comunista cinese può ottenere un livello di controllo sui cittadini che i regimi totalitari del XX secolo non si sono mai nemmeno sognati di poter avere».
Preferisce la creatività delle reti o la stabilità dei regimi basati su gerarchie rigide?
«Preferisco le reti, motori d’innovazione. Ma bisogna sapere che un sistema decentrato, con il potere trasferito alle reti, è a rischio anarchia. Credo sia ormai necessario un intervento sui monopoli digitali. È rischioso: può trarne vantaggio Pechino. Mentre infatti negli Stati Uniti i due poteri, governo e Silicon Valley, sono in conflitto, in Cina lavorano insieme. È rischioso ma necessario».
Che fare?
«Troppo potere concentrato nelle mani di poche imprese: gran parte della sfera pubblica è dominata da monopoli digitali come Amazon, Google e Facebook. Queste società gestiscono servizi popolari, ma ciò dà loro un potere eccessivo e la possibilità di abusarne. È pericoloso, anche perché ormai il 45 per cento degli americani riceve le sue informazioni politiche da Facebook. Lo status quo non è più sostenibile: servono regole. Non credo si debbano scindere queste società troppo grosse, ma bisogna impedire che si ripetano altri Russiagate. E occorre ricreare un terreno livellato, eliminando i privilegi concessi a metà degli anni Novanta alle imprese digitali, che continuano a non essere responsabili, a differenza degli editori tradizionali, dei contenuti messi in rete».
Lei ammette, però, che gli Usa rischiano il sorpasso tecnologico della Cina.
«Se fossi nei panni di Zuckerberg, direi che Facebook e le altre società di Big Tech sono un importante patrimonio dell’America per tenere testa a Badu, Alibaba e Tencent. Ma non è questo l’argomento usato dalla Silicon Valley: vogliono costruire comunità globali, non avere a che fare con Washington».
Il confine tra reti e gerarchie è labile. Lei stesso dice che le gerarchie sono reti di altro tipo. Perché fin qui gli storici hanno dedicato scarsa attenzione a questi fenomeni?
«Perché scrivere la storia delle reti è molto difficile: non hanno archivi e molte di esse non vogliono nemmeno farsi conoscere. La mafia non tiene documenti, così come gli Illuminati. Neanche i massoni aiutano gli studiosi. E poi questa è un’area nella quale gli storici si sentono a disagio, perché attira i teorici delle cospirazioni: meglio restare sul terreno sicuro degli archivi ufficiali. Ma è proprio portando il metodo storico nelle reti che si disinnescano le visioni cospiratorie».
Il titolo del libro richiama un’immagine di Siena: Piazza del Campo con la Torre del Mangia. Perché?
«Ho scritto il libro senza avere un titolo. Pensavo a Reti e gerarchie , ma all’editore non piaceva la parola gerarchia. Poi, guardando le riproduzioni degli affreschi del palazzo pubblico di Siena che da trent’anni, da quando ero uno studente, ho davanti agli occhi nel mio studio, mi sono reso conto che quella tra la piazza del popolo e la torre del potere gerarchico era la perfetta giustapposizione».
I conflitti nel mondo islamico e il terrorismo mediorientale hanno rappresentato il battesimo del fuoco per la nuova era delle reti digitali. L’Isis è divenuto un incubo planetario grazie al reclutamento open source dei terroristi. E le tecnologie digitali sono state usate, maldestramente, per tentare di democratizzare il mondo arabo.
«Silicon Valley ha sbagliato la lettura degli eventi in Medio Oriente e in Nord Africa durante e dopo le Primavere arabe. Il presidente di Google Eric Schmidt e il manager Jared Cohen si erano detti certi che internet avrebbe aiutato i movimenti democratici contro i regimi autoritari. Con la deposizione di Hosni Mubarak le cose sembrarono andare in questa direzione: ricordo dirigenti di Google in piazza Tahrir a festeggiare. Invece la cacciata di Mubarak ha favorito un’altra rete più diffusa e solida, ma ancora meno democratica: la Fratellanza musulmana. Ci si era basati su ipotesi velleitarie: nella realtà strumenti come Facebook e Twitter erano poco diffusi nelle grandi aree urbane dell’Egitto e assenti nelle zone rurali».
Alla fine ritorneremo alle rigide gerarchie verticali, dopo tante promesse di democrazia elettronica? È un illuso chi punta sulla blockchain, la tecnologia di certificazione alla base dei bitcoin, per una nuova stagione di decentramento del potere?
«È lecito sperare, ma non mi faccio illusioni: le reti informatiche hanno sempre finito per concentrare il potere, la blockchain è dominata da pochi. Così come sono una ristretta élite coloro che beneficiano dei bitcoin. E anche l’attività di mining , l’emissione di criptovalute, è roba per pochi, concentrati soprattutto in Cina. Ma prima di rassegnarsi all’idea di questo grande Paese asiatico che subordina totalmente la piazza alla torre, è il caso di riflettere sull’esperimento rischioso messo in campo da Pechino: la creazione di una gigantesca borghesia, il più immenso ceto medio della storia. È gente che prima o poi chiederà rispetto della legalità, rappresentanza politica, responsabilità amministrativa, come avvenne in Europa nel XIX secolo. Se il popolo uscito dalla povertà si comporterà come previsto da Karl Marx, come una classica borghesia, allora per la Cina sarà più difficile andare avanti col partito unico e imporre la sua gerarchia».

Il Fatto 4.3.12
La lista “dal basso” nata tre mesi fa. La sinistra riparte dai centri sociali
Obiettivo 3% - Tra i fondatori c’è l’ex Opg di Napoli
La lista “dal basso” nata tre mesi fa. La sinistra riparte dai centri sociali


Tre mesi fa, nemmeno esistevano: essere sulla scheda elettorale, per loro, è già un grande risultato. “Non abbiamo avuto bisogno dell’aiutino di Tabacci”, rivendicano quelli di Potere al Popolo, ricordando i giorni in cui Emma Bonino sosteneva fosse impossibile raccogliere le firme necessarie per presentare la lista. Loro ce l’hanno fatta “dal basso” con un percorso che è cominciato il 18 novembre scorso: in quella data – la stessa in cui al Brancaccio avrebbe dovuto riunirsi l’assemblea (poi annullata) di “quelli del No” – a Roma si sono ritrovate tante realtà della sinistra che si sentiva senza rappresentanza. Associazioni, centri sociali, sindacati di base, precari e disoccupati che hanno scelto come “capa” politica la ricercatrice Viola Carofalo, una delle anime dell’ex Opg di Napoli, il posto da cui tutto è partito. Oggi proveranno a vincere la sfida del 3%, anche se le previsioni li danno piuttosto lontani dalla soglia di sbarramento imposta dal Rosatellum. Vada come vada, loro già festeggiano: sono riusciti nell’impresa di mettere insieme candidature e idee, quasi senza litigare.

il manifesto 4.3.18
Un voto che può terremotare la politica italiana
Nell’urna tre possibili sorprese: il boom dei 5 Stelle, il tracollo Pd, il sorpasso della Lega su Fi. Insieme sconvolgerebbero il sistema


Per la prima volta nella storia gli italiani aspetteranno l’esito delle elezioni senza chiedersi chi vincerà ma se vincerà qualcuno. Più precisamente se vincerà il centrodestra, che tra le forze in campo è l’unica che possa sperare in una maggioranza parlamentare. La coalizione non è lontanissima dal traguardo ma neppure sembra averlo a portata di mano. Però, qualunque sia il responso delle urne, conviene non sottovalutare le doti e i mezzi di cui dispone il signore d’Arcore quando si tratta di acquistare. Non è detto che tra un paio di settimane i voti a disposizione della destra siano solo quelli che decideranno gli elettori.
SE CE LA DOVESSE FARE, la fragile alleanza tra Arcore e Pontida sarà rinsaldata dal potere. Ma le crepe resteranno perché i punti sui quali gli alleati sono su sponde opposte sono pochi ma dirimenti, primo fra tutti l’Europa. Soprattutto, quel dissenso riverbera immediatamente sulla scelta del premier: il candidato-burattino di Berlusconi, Antonio Tajani, è stato scelto apposta per rassicurare Bruxelles. Quello della Lega, Salvini, è quanto di peggio per la Ue. Mediare non sarà comunque facile.
Ma il risultato complessivo della destra non è la sola né la principale incognita di queste elezioni. Sono in ballo altri equilibri, tali da smantellare i cardini del sistema stesso.
Il primo punto interrogativo riguarda i risultati che otterrà M5S. Saranno cospicui, salvo clamorose sorprese. Sarà quasi certamente la singola lista più votata, ma è un risultato atteso e di per sé non dirompente. Se il successo andrà oltre le aspettative, se la lista di Di Maio supererà l’asticella del 30%, si tratterà invece di uno tsunami. Nei tempi brevi diventerà impossibile ipotizzare un governo del presidente senza il coinvolgimento diretto del Movimento. In un orizzonte più ampio sarà M5S a rimpiazzare il Pd come baricentro del sistema politico italiano, ruolo ricoperto dal 1993 in poi dal Pds-Ds-Pd, insieme a Fi prima e negli ultimi anni da solo.
CHE IL PD PERDA quel ruolo centrale appare alla vigilia, se non certo, almeno molto probabile. L’interrogativo riguarda in realtà le dimensioni del disastro previsto. Se si arresteranno intorno o sopra il 22%, al Nazareno brinderanno immaginando rivincite. Al di sotto la mazzata sarebbe pensatissima, ma non tanto da travolgere il segretario. Se però cedesse la linea del 20% difficilmente si potrebbe evitare il «si salvi chi può»: sarebbe la fine del renzismo anche all’interno del Pd. La somma tra un successo oltre le attese di M5S e una sconfitta del Pd molto più pesante del previsto ridisegnerebbe le mappe della politica italiana. Il Pd diventerebbe una forza periferica, il classico vaso di coccio stritolato tra quelli di ferro della destra e dei 5S. In un simile quadro, infine, acquisterebbe qualche sostanza un’ipotesi della quale nell’ultima settimana si è parlato spesso ma più che altro come esercizio di fantapolitica: quella di un governo M5S appoggiato da un Pd «derenzizzato» e da LeU, magari con la formula classica dell’appoggio esterno.
PER LE SORTI della legislatura e per la fisionomia del quadro politico italiano negli anni a venire sarà altrettanto decisiva la terza incognita potenzialmente deflagrante del voto: l’eventuale sorpasso della Lega su Fi. Se prenderà anche solo mezzo voto in più di Berlusconi, da domani Salvini sarà inarrestabile e l’intero dna della destra italiana ne uscirà modificato in tempi record. Sarà la fine di quel singolare intreccio fra destra radicale e moderatismo post-democristiano che aveva costruito Berlusconi e che ha retto, sia pur sempre più debolmente, sinora.
LA LEADERSHIP di Salvini sull’intera destra renderebbe molto più arduo il compito del capo dello Stato, ostacolerebbe forse in modo insuperabile il suo prevedibile tentativo di formare un governo del presidente per cambiare la legge elettorale. Sia il leghista che Di Maio (o chi per lui) avrebbero infatti fretta di tornare alle urne per vampirizzare entrambi, da sponde opposte, il Pd, in nome di un «voto utile» reciprocamente invocato come unica barriera per fermare il contendente.
Se anche una sola di queste sorprese si verificherà davvero, l’impatto sarà terremotante. Se tutte e tre diventassero realtà il sistema politico italiano attuale s’inabisserebbe come Atlantide.
PER LA SINISTRA, la sorte di LeU è l’incognita principale. Al di sotto del 5% il progetto rischia di essere sepolto. Dal 5% in su il tentativo di trasformare una lista comune in una forza strutturata e progettuale della sinistra avrà la strada aperta. Discorso identico, ma su percentuali diverse, vale per Potere al Popolo. Dal 2% in più avrà le carte in regola per non limitarsi a un’avventura stagionale. Oltre il 3% diventerebbe una delle sorprese clamorose di questa tornata elettorale.
La lista di Emma Bonino, infine, è già una sorpresa. Raccoglie i consensi di quelli che vogliono votare Pd ma non Renzi, e per questo sono pronti a ingoiarsi un programma che al confronto la Thatcher sembra una socialista.

il manifesto 4.3.18
A letto presto oppure mai, la notte non porterà certezze
La difficile assegnazione dei seggi. Il Viminale dice che aspetterà la chiusura definitiva. Qualche dato arriverà anche prima, ma provvisorio. E se le tv non hanno rinunciato a exit poll e proiezioni, stavolta serve una prudenza in più


Sono 46.604.925 gli elettori chiamati a votare da stamattina alle sette a stasera alle undici per il rinnovo della camera dei deputati, quelli che voteranno anche per il senato sono quattro milioni circa in meno essendo escluso chi non ha compiuto 25 anni entro oggi. Alla chiusura dei seggi scatterà la maratone dello spoglio e dello scrutinio e sarà più lunga del solito.
Dopo la comunicazione del dato definitivo di affluenza, le 61.552 sezioni distribuite sul territorio dovranno cominciare lo spoglio dalle schede gialle, quelle del senato. Nel frattempo le televisioni avranno già cominciato a diffondere gli exit poll, cioè sondaggi realizzati con gli elettori all’uscita dai seggi. Malgrado le cattive performance del passato, hanno confermato il ricorso a questo strumento sia la Rai, che si serve del Consorzio Opinio Italia (Istituto Piepoli, Emg e Noto sondaggi), sia La7, che ricorre a Swg. Strumento simile per Mediaset, che nelle sue dirette si avvale dei dati raccolti da Tecnè che realizzerà domani degli intention poll, cioè sondaggi telefonici lontani dai seggi. Entro un’ora dalla chiusura dei seggi, gli stessi istituti offriranno anche le prime proiezioni per il senato, si tratta di simulazioni effettuate sulla base dei primi risultati arrivati dai seggi campione.
Due novità introdotte dalla legge elettorale Rosato suggeriscono di trattare con cautela i primi dati. Si tratta delle regole sui riparti dei voti nel proporzionale, sia per quanto riguarda i voti che gli elettori avranno tracciato solo sul nome del candidato all’uninominale in caso di coalizione (sono due, quella attorno al Pd e quella attorno a Forza Italia), sia per quanto riguarda la distribuzione sempre alle coalizioni dei voti di quelle liste che resteranno tra l’1% e il 3% dei voti. La novità ha suggerito alla direzione generale per i servizi elettorali del ministero dell’interno una prudenza nella diffusione dei dati. Anche i dati del Viminale si faranno attendere.
La ragione è stata ribadita ieri con una nota del ministero dell’interno. Solo quando tutte le sezioni elettorali di un collegio uninominale – che per il senato sono 116 e per la camera 232 – avranno chiuso i conteggi si potrà calcolare la percentuale di voti «diretti» andati alle liste coalizzate, e dunque distribuire proporzionalmente la quota di voti senza opzione, quelli cioè assegnati solo ai candidati nell’uninominale. A quel punto sul sito elettorale del Viminale appariranno le percentuali di ogni lista, ma non ancora il numero dei seggi assegnati. Per quello bisognerà aspettare eventualmente il secondo riparto, che si potrà conoscere solo quando tutte le sezioni avranno chiuso e dunque si potrà conoscere il dato nazionale delle varie liste coalizzate. La legge prevede infatti che i voti delle liste rimaste sotto l’1% non siano conteggiati in alcun modo, che i voti della liste sopra il 3% contribuiscano all’assegnazione dei seggi proporzionali – che sono 193 per il senato e 386 per la camera – alla lista e che i voti delle liste ferme tra l’1 e il 3% vengano redistribuiti in maniera proporzionale alle liste collegate. Questi calcoli potranno essere conclusi molto tardi nella notte o più verosimilmente nel mattino di domani. Tantopiù ci saranno liste delle coalizioni vicine alle soglie di sbarramento, tantopiù avrà senso restare prudenti. E ci vorrà ancora altro tempo, nella giornata di domani o anche oltre, per venire a capo di altri due rompicapi: quello delle liste «eccedentarie» che dovranno cedere seggi alle liste «deficitarie» nelle circoscrizioni e nei collegi plurinominali. E quello delle liste «incapienti», con i candidati eletti da recuperare in giro da altre circoscrizioni o da altre liste.
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il manifesto 4.3.18
Un voto a sinistra per cambiare
di Norma Rangeri


Oggi si vota, con la peggiore legge elettorale della storia repubblicana, un ex novo voluto dal Pd, con il sostegno di Forza italia e della Lega. Peggiore del Porcellum, non offre possibilità di scelta visto che le liste del proporzionali sono bloccate, come anche i candidati ai seggi uninominali incatenati alle finte coalizioni.
Ma l’aspetto paradossale davvero divertente è che nessuno difende la legge e tutti concordano sulla necessità di buttar via il Rosatellum per una nuova trovata con cui sostituire la prima legge elettorale tipo usa e getta. È già pronto un simil governo di scopo per l’occorrenza. Intanto però ne subiremo tutti gli effetti negativi, a cominciare da quelle larghe intese come unica soluzione altrimenti si tornerà a votare, con o senza legge elettorale. Prospettiva poco entusiasmante. A meno che le intese non siano esse stesse un voto nel voto, con alleanze inaspettate.
Abbiamo vissuto una campagna elettorale alla quale, ha ragione Andrea Camilleri, è «impossibile dare un nome a una cosa tanto disgustosa, tra false promesse e insulti reciproci da comari». Le estenuanti apparizioni televisive, con infornate di candidati presidenti e un già presidente del consiglio, Gentiloni, prezzemolo della tv nelle vesti di laudatore dell’attuale governo, cioè di se medesimo, e già candidato in pectore per succedere a se stesso.
E, a proposito di disgusto, uno prevale sul resto: il ritorno di Berlusconi, la maschera dell’imbonitore che straparla confondendo lire e euro, il cavallo di Troia senza il quale la Lega e Fratelli d’Italia resterebbero lontani dal governo e i loro voti in frigorifero.
Quando il presidente della commissione Ue Juncker entra a gamba tesa sull’esito del voto, mettendo in preallarme la comunità europea sulle possibilità di governo, nessuno in Europa – e in Italia – spende una parola per chiedersi come sia possibile che un condannato per frode fiscale guidi una coalizione in grado di competere per conquistare le redini del nostro paese. Che, sarà bene ricordarlo, portò la spesa sociale dai 346 milioni che era nel 2008, a 52,5 milioni nel 2011.
Tutti i nostri “leader” si sono innervositi per l’uscita del presidente europeo. E si capisce perché: è acclarata l’ampia disponibilità verso una “unità nazionale”. Anche con chi ci ha portato alla bancarotta. Ma non pochi italiani sono pronti a perdonare, affetti da memoria corta o stuzzicati dalle pulsioni razziste della Lega con i suoi cattivi umori contro gli immigrati, i crocifissi e il vangelo offerti nella gremita piazza Duomo a Milano: proprio l’immigrazione è la prova concreta della strumentalizzazione di un fenomeno epocale che ci riguarda molto da vicino. La guerra in Libia con la moltiplicazione degli sbarchi, la grande sanatoria dei 700 mila immigrati irregolari, seguita da un’altra sanatoria nel 2009 per trecentomila “clandestini”. Tutta farina del centrodestra che ora accusa il governo perché non ferma i flussi, che in realtà stanno invece diminuendo, facendo pagare un prezzo drammatico ai fuggitivi da fame, povertà e guerre, trattati come animali nelle carceri libiche.
IL RENZISMO, CHE INIZIALMENTE aveva creato speranze e conquistato consenso si è autodistrutto con il referendum costituzionale. Che ci ha portato in dote il governo Gentiloni. Ma è sulle politiche del lavoro e sociali che il Pd ha perso sostegno provocando altre fratture alla sua sinistra e con i sindacati. Il Pd di Renzi ci ha regalato diritti civili e una precarietà feroce. A ben vedere un programma da destra liberale, più Lib che Lab. Dove l’eroe laburista sarebbe il ministro montiano Carlo Calenda che, non per caso ma per profonda sintonia, vota Bonino.
QUESTO PD HA LASCIATO I GRILLINI parlare da soli di corruzione e mafie, spara i fuochi artificiali anche sull’occupazione femminile che è al 48% quando la media europea tocca il 61%, peggio di noi solo la Grecia. Ora Renzi chiede il voto promettendo miliardi alle politiche per la famiglia, una specie di bis degli 80 euro. Chiacchiere, altri bonus, nemmeno l’ombra di un welfare che annulli le discriminazioni di genere. Sul piano della rivoluzione ambientalista, all’ordine del giorno per la vita del pianeta, questo governo presenta un pessimo bilancio. Dal referendum sulle trivelle al consumo di suolo fino alla mancata attuazione delle leggi europee sull’inquinamento atmosferico, con il rischio di pagare salate penali. Sulla scuola si fanno paurosi salti all’indietro, sia sul diritto allo studio che sulla svalorizzazione economica e culturale di quella che una volta si chiamava università di massa. Oggi di massa sembra esser rimasto l’esodo dei (pochi) laureati.
E DUNQUE QUESTE ELEZIONI sono l’occasione per portare in parlamento una sinistra in rappresentanza di lotte, battaglie, visioni del mondo. In quelle francesi, tedesche, inglesi, e americane la sinistra radicale è stata votata da milioni di persone. Con qualche tono eccessivamente pessimista, recentemente Pablo Iglesias, il leader di Podemos (oggi intorno al 19%) diceva che gli faceva un po’ tristezza vedere che in Italia non c’è una sinistra forte abbastanza da competere nella sfida del governo. Ma è vero che dopo cinque anni di legislatura, con tre governi espressione della ricetta renziana alla crisi (una linea politica che una volta si sarebbe definita anti-operaia), la rabbia popolare non ha trovato la sinistra capace di ascoltarla.
CI RITROVIAMO CON UNA DESTRA molto forte e probabilmente vincente, aggressiva e retriva, cresciuta a corruzione e violenza, incarnata da un ottuagenario pregiudicato, da un bullo xenofobo e da una seguace di Orban. A contendergli lo scettro della vittoria non sarà il Pd di Renzi, ma il partito-movimento dei 5Stelle, non una piccola cosa bensì il primo partito italiano, dove il cittadino “occupa” il parlamento ma il governo è affare del capo politico che ha già scelto. Un partito con un elettorato al 40% di giovani, che dice di voler ripristinare l’articolo 18, cancellare il job act, e modificare la legge Fornero. Un movimento anfibio, con una gestione politica spregiudicata, poco trasparente, con il boomerang giustizialista che ha colpito come birilli i candidati fast-food. Con la lista dei ministri i 5Stelle hanno azzeccato gli ultimi giorni di propaganda, e, a giudicare dai nomi, si tratta di persone che guardano a sinistra, scelte tutte all’esterno, un “governo dei professori”. Sintomo non già di un ritorno al “montismo”, ma al mito delle competenza senza una storia politica, nomi esterni all’organizzazione, da poter bruciare se non rispettano il crono-programma benedetto sull’altare del direttorio.
QUESTO SCENARIO CI DICE GIÀ tutto sulle difficoltà della sinistra in questo confronto elettorale. Una sinistra che chiede il voto ma è divisa tra un tentativo unitario (Liberi e Uguali) e uno identitario (Potere al popolo). Liberi e Uguali ha il merito di raccogliere la scelta di Bersani e D’Alema di lasciare il partito, uno strappo sonoro, un segno di autocritica, l’abbandono dei renziani e degli alleati-satelliti ulivisti e radicali. Non si tratta di un percorso né facile, né scontato, perché chi si è speso nell’impresa di proporre oggi una lista per farnedomani un partito, a cominciare dai due presidenti di camera e senato, Grasso e Boldrini, non lo ha certo fatto per la poltrona. Potere al popolo, l’altra lista a sinistra del Pd, non fa parte di questo processo unitario. Raccoglie movimenti e giovani che lavorano nelle nostre periferie sociali, dove organizzano lotte su welfare e accoglienza con filiere solidaristiche, come a Napoli. Una lista con Rifondazione comunista che partecipa alla competizione elettorale cimentandosi nell’arduo compito di non disperde i voti e fare testimonianza.
C’È CHI SCEGLIERÀ DI USARE la prima scheda per votare Liberi e Uguali e la seconda scheda per votare Potere al Popolo (unico voto disgiunto possibile). Ma è evidente che se la lista di Grasso riuscisse a raggiungere un risultato apprezzabile, il 5 di marzo i discorsi sul futuro della sinistra, anche in Italia, potrebbero contare su una solida base di partenza (la Linke alle ultime elezioni tedesche ha raggiunto il 9,2%). Diversamente, nel caso di risicate percentuali, avremo due risultati che confinano la sinistra in una modesta enclave. Tutto sarebbe più difficile e il discorso sulla sinistra rinviato a improbabili tempi migliori. Il battesimo politico del presidente del senato è stata una scommessa, e non è detto che quel che gli si imputa (non avere la stoffa del campaigner) non si riveli invece, come fu per l’impacciato Prodi nella sfida con Berlusconi, una freccia in più nell’urna, insieme a quella rappresentata da Laura Boldrini.
INUTILE NASCONDERE IL PESO della disillusione per non essere riusciti a superare le divisioni (spesso personalistiche e ideologiche) e tutto si può dire tranne che le elettrici e gli elettori andranno alle urne sereni e contenti. L’animo e le intenzioni di chi andrà al seggio sono attraversati più da cattivi presagi che da convinte speranze. Del resto, quando ci si presenta alle elezioni non si può poi sfuggire alla dura replica dei fatti, in questo caso alla conta dei voti. E, a sinistra, l’astensionismo peserà. Per questo domani i voti utili saranno due. Il primo consiste nell’andare a votare. Il secondo è il voto a sinistra per cambiare il paese.

il manifesto 4.3.18
Per l’alleanza Modello Lazio è una battaglia all’ultimo voto
Regionali. La mission impossible di Zingaretti, il presidente dem che può vincere mentre il Pd perde. Fa sognare gli anti Renzi, ma si tiene alla larga dalle polemiche. Delude la M5S Lombardi
di Daniela Preziosi


È una doppia scommessa quella di Nicola Zingaretti, presidente del Lazio che oggi tenta la seconda volta. La prima può sembrare banale e non lo è: essere riconfermato in una regione che dall’elezione diretta del presidente (1995) non ha mai scelto gli uscenti. È già quasi un record quello di aver portato a compimento per intero il mandato. Prima di lui non ci riuscirono Piero Marrazzo, indipendente di centrosinistra, travolto nel 2009 da uno scandalo poi risultato una montatura ai suoi danni, e Renata Polverini, dell’allora Popolo delle libertà, la cui giunta fu abbattuta nel 2013 dall’emersione di un sistema di uso privato dei fondi dei gruppi della sua maggioranza.
L’ALTRA SFIDA, quella vera è provare a vincere mentre nel resto del paese il suo partito si prepara a gestire la sconfitta. E farlo, con una alleanza diversa a quella che il suo partito presenta a livello nazionale. Il ‘modello Lazio’ è l’esatto opposto del ‘modello Nazareno’, quello del Pd e tre nanetti: un classico centrosinistra che aggrega gli ex Pd di Liberi e uguali ma anche di quella Sel passata all’opposizione nel corso della legislatura. A destra (si fa per dire) la lista Centro solidale, guidata da Paolo Ciani, della Comunità di Sant’Egidio. In mezzo, la lista Pd , che ha dovuto inserire nel simbolo il nome del presidente per rimpolpare i consensi; poi la Lista Civica per Zingaretti guidata dal giornalista Carlo Picozza; i radicali di +Europa, rientrati nell’alleanza dopo la rottura con Marco Pannella nel 2013; infine i Verdi-Socialisti. Fuori la scheggia del centrodestra alfaniano, la «Civica popolare» della ministra Lorenzin, invece è alleata Pd invece alle politiche.
QUESTO FA DI ZINGARETTI l’uomo più invocato ed evocato fra gli oppositori interni di Renzi. Nella minoranza dem c’è chi vagheggia, in caso di sconfitta del Pd, ovvero un risultato intorno al 20 per cento, il congresso anticipato, nonostante Renzi abbia promesso di restare fino al 2021. «E se Zingaretti vince nello stesso giorno in cui il Pd perde le politiche…».
SPERANZE MAL RIPOSTE, che riemergono ciclicamente in coincidenza con le crisi interne al Pd. Zingaretti per tutta la campagna elettorale si è tenuto a distanza di sicurezza dalle polemiche interne. E anche un po’ dal suo segretario, che gli ha ricambiato la cortesia. Vantando gli indubbi risultati della sua giunta, e
LA VITTORIA NEL LAZIO del resto è possibile ma non scontata. I pronostici favorevoli dell’inizio si sono raffreddati via via che lo sfidante di centrodestra Stefano Parisi, già perdente a Milano, ha rimesso insieme i cocci del centrodestra, che si spartisce con Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice e candidato di una civica a trazione leghista. Dietro di loro, la candidata M5S Roberta Lombardi: al vertice di una classifica di Amnesty international per l’uso di espressioni razziste, seconda al candidato di Casapound.
DALLE DUE DEL POMERIGGIO di lunedì, e cioè dall’inizio dello scrutinio, il comitato Zingaretti aprirà le porte del Tempio di Adriano, nel cuore della Capitale, in attesa di vedere se il miracolo si compie. Anche se è già un miracolo politico l’aver riunito il centrosinistra. Al punto che un ambientalista molto radicale come Paolo Cento (ala sinistra di Sinistra italiana), spiega: «Il Lazio può diventare un nuovo laboratorio politico. Da una parte il Pd di Renzi, liberista più che liberale nel lavoro e non solo, dall’altra una coalizione dove la sinistra è elemento di cambiamento e discontinuità». Come esempio cita «la decisione i di riacquisire il patrimonio ospedaliero».
MA A SINISTRA i consensi sono contesi dalla lista di Potere al Popolo che schiera Lisa Canitano, battagliera ginecologa e storica femminista, che attacca sul nervo scoperto della sanità.
Se Zingaretti rivendica di aver portato la sanità regionale all’uscita dal commissariamento, quindi allo sblocco delle assunzioni del personale sanitario , Canitano replica «che la sanità laziale è diventata un super mercato in cui i cittadini si aggirano senza poter capire cosa, come e quando fare, con la mano in tasca, bombardati da super offerte, assicurazioni, case di cura convenzionate, sanità privata, mentre si è fatto scadere appositamente il gradimento della sanità pubblica per consentire al profitto di dominare le cure». Con lei in lista alcune storiche «anime» della sinistra, come il giornalista Sandro Medici, amato ex presidente di municipio, amministratore da sempre vicino ai movimenti.

Repubblica 4.3.18
Le Regionaliin Lazio e Lombardia
Uniti si vince, o forse no
Gli strafavoriti Zingaretti e Fontana destinati a un finale da batticuore
Se l’alleanza in Lazio dovesse perdere, sarebbe una sconfitta seria per chi immagina domani il ritorno di una sinistra unita.
di Paolo Griseri


All’inizio della campagna elettorale sembrava vero. Il 13 gennaio, nell’approvazione generale, Pietro Grasso, in una delle prime uscite politiche, aveva annunciato con la sua inevitabile solennità: «Con Nicola Zingaretti ci sono tutte le condizioni per costruire un’alleanza di sinistra».
Applausi e anche una ritrovata sicurezza nel centrosinistra. Forte dell’appoggio di Leu, il governatore del Lazio uscente era dato per quasi sicuro vincente.
Destinato a battere un record storico: essere il primo presidente del Lazio a succedere a se stesso.
Prima di lui tutti sono stati abbattuti al secondo tentativo: o dagli elettori o da se medesimi con scandali di vario tipo.
Mai come in quei giorni di metà gennaio era lampante la distanza politica tra Roma e Milano. Anche la Lombardia va al voto regionale ma qui la rottura a sinistra è stata fin dall’inizio considerata inevitabile. A sancirla, nonostante gli inviti contrari di Grasso e Boldrini, l’accesa assemblea di Leu a Cinisello Balsamo. Una specie di Pontida dell’orgoglio della sinistra in cui convengono militanti fin da Brescia, da Varese, da Sondrio. Per applaudire Nicola Fratoianni che taglia corto: «Andremo da soli. Gli appelli alla responsabilità non bastano. Conta il giudizio politico». Perché a Roma sì e in Lombardia no? «In Lazio il centrosinistra è nettamente alternativo alla destra, in Lombardia meno», è la sentenza di Bersani. Traduzione: Zingaretti è di sinistra, Gori molto meno. Il sindaco di Bergamo paga ancora oggi il peccato originale di aver lavorato per Mediaset e di aver portato in Italia il format del Grande fratello. E poi, tre mesi fa chi poteva immaginare che Maroni avrebbe lasciato? Perché con un centrodestra molto forte, si ragionava al tempo, ci si può permettere il lusso di sperimentare, di contare il peso della sinistra radicale per utilizzarlo all’indomani delle elezioni politiche.
Tre mesi dopo, lo scenario appare molto diverso. Nelle due principali elezioni regionali italiane i favoriti della vigilia sembrano aver avuto qualche difficoltà a mantenere il vantaggio. Nonostante una serie di indubbie situazioni a loro favorevoli. Nel Lazio il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, ricopre per il centrodestra lo stesso ruolo che Leu si è inevitabilmente intestato in Lombardia: quello del guastafeste. Stando ai sondaggi che sono stati pubblicati fino a quando la legge lo ha consentito, Pirozzi potrebbe essere decisivo per accoltellare il candidato del centrodestra, Stefano Parisi. Più delle ironie del centrosinistra sul fatto che «Parisi è uno che arriva con la valigia da Milano», conterà quanti voti gli sottrarrà il fuoco amico di Amatrice. Parisi comunque sembra avere dalla sua il poderoso vento di destra che Lega e Fratelli d’Italia soffiano nelle vele della coalizione. La Lega incassa la conversione nazionalista: da due anni a Tor Pignattara Mario Borghezio guida cortei con lo slogan «Europa ladrona». Il vento soffia e Parisi sale nonostante la sua fama di ”milanese” e la zavorra di Pirozzi.
Tanto che venerdì sera anche Zingaretti ha scelto di concludere la campagna elettorale a Latina, tradizionale feudo del centrodestra nonostante il recente endorsement del sindaco per il centrosinistra.
Su, a Milano, dall’altra parte del Frecciarossa, il favorito Attilio Fontana, accantonata la difesa «della razza bianca a rischio», cerca di vendere un’immagine più rassicurante di leghista dal volto umano. Ma deve incassare l’effetto Salvini. Che premia nei quartieri popolari ma spaventa la buona borghesia, non così convinta di tirare su muri in Europa applicando le ricette protezioniste. Gori ha guadagnato posizioni più del previsto, appoggiato dagli artefici del miracolo a Milano: Giuliano Pisapia e Giuseppe Sala. Così il candidato del Pd può oggi chiedere, con qualche elemento di fondatezza, «un voto a noi per battere Salvini». Appello rivolto soprattutto «agli elettori di Leu» suggerendo loro di «evitare il tafazzismo» e di concentrarsi sul voto utile.
Così, in tre mesi, le parti a sinistra tra Roma e Milano si sono quasi invertite. Con Gori che guadagna posizioni nonostante il fuoco amico di Leu e la gioiosa macchina da guerra di Zingaretti costretta a difendere il primato.

Repubblica 4.3.18
L’album del Rosatellum
Una campagna elettorale di desolante quasi comico nulla
Mai come questa volta è andata in scena la grande regressione del potere, la fine di ogni cultura politica Viene da chiedersi cosa resterà nella memoria collettiva dei rimborsi della grillina Sarti e del suo ex, del fantoccio bruciato della Boldrini, del maiale dei Casamonica
di Filippo Ceccarelli


Una campagna elettorale di buffa desolazione: e non c’è il benché minimo barlume d’incompatibilità fra prenderla a ridere e starci male, salvo scoprire, quest’ultima domenica, il richiamo del nulla, il brivido del vuoto, la potenza dello zero.
Si perdoni qui, se possibile, l’irritante tono oracolare. Ma in termini più pedestri è pur vero che, appena iniziata la sarabanda, s’è capito che l’articolato che doveva disciplinarla, l’ingegnosissimo Rosatellum, era sbagliato, donde il beau geste di un democristiano (Tabacci) che ha inglobato una radicale (Bonino), fino a scomparire; e già questo era un segno dei tempi.
Un altro, se si vuole, filtrava dai nomi dei grandi esclusi, nolenti o respinti che fossero: Albano, Tremonti, il “Viperetta” Ferrero, Elisabetta Gregoraci, Di Pietro, Toto Cotugno. La formazione delle liste ha pure crudelmente sacrificato il senatore Razzi: “Nessuno mi ha detto niente, ci vorrebbe un po’ di educazione, ho lavorato tanto per il bene degli italiani”.
In Sicilia, alla riunione finale sulle candidature un dirigente del Pd si è presentato con una clava giocattolo. Mentre al Nazareno, dopo la notte delle scelte, l’onorevole Guerini ha dovuto negare che il ministro Orlando avesse cercato di entrare a spallate nella sua stanza (qualche metro più in là, Renzi non corre di questi pericoli disponendo di una porta blindata con videocitofono).
Per cui davvero, e ancora una volta in linea con i due generi nazionali della commedia e del melodramma, c’è stato da ridere e al tempo avvilirsi, da soffocare le risa e insieme da preoccuparsi dinanzi agli occhi lucidi di Giorgia Meloni richiamata a sorpresa ai suoi doveri di mamma, ché la piccola Ginevra non la vedeva più tanto, come pure di fronte alla solenne motivazione con cui l’aspirante premier Di Maio, col suo «bel musino da tv» (secondo Berlusconi), ha investito la criminologa Giannetakis nientemeno che alla guida del ministero dell’Interno: «Perché ha un carattere tosto».
A un certo punto da più parti si è sollevato un caso Orietta Berti, ma sul serio, nel senso che in qualche trasmissione la cantante aveva espresso le sue preferenze per i cinque stelle, pure soffermandosi sull’abbronzatura del loro leader («sembra un mulatto»); e Berlusconi ha dato l’allarme su un incontro tra Grillo e il giudice Davigo, in quel caso anche sceneggiando la doppia e rinforzata stretta di mano fra i due; e Salvini, nel nome di Dio invano, ha cacciato di tasca il rosario e siccome non bastava ha pure giurato sul Vangelo; mentre per mettere fine all’angosciosa diatriba sulla titolarità della gloriosa Margherita, la ministra Lorenzin s’è prodotta in una perifrasi di una canzone di Sergio Endrigo su semi e alberi per concludere che il simbolo che aveva alle spalle, fino a poco prima coperto sotto un velo, era un fiore «petaloso e giallo come il sole» - e tra smorfiette e sorrisini sembrava un saggio di prima media.
Ora, a smontarli e a rimontarli a freddo, i dispositivi degli spettacoli, specie quelli politici per cui non si paga il biglietto, paiono perfino rassicuranti.
Uno pensa, con un sospiro: che s’ha da fa’ per acchiappare voti, e passa ad altro. Ma stavolta l’espediente dell’interpretazione drammaturgica zoppicava, ansimava, sbandava come sotto un peso maggiore. Gli «italiani rincoglioniti» (Dibba), la «razza bianca» (Fontana), il fantoccio di Boldrini bruciato in piazza, il maiale dei Casamonica postato dai Fratelli d’Italia, l’ipotetica lesbica dei cartoni animati, il cane sul podio di Brambilla, ecco che nel gran caos di vero circo e cimitero virtuale, chiacchiere e strilli, scemenze e cose pericolose, beh, mai come stavolta il paesaggio elettorale ha proiettato all’orizzonte la grande regressione del potere, il compiuto disfacimento di ogni residua cultura politica, la scorciatoia verso l’insignificanza.
È troppo? E sarà anche eccessivo, ma se l’archeologia è davvero una via d’accesso al presente, la crisi del discorso pubblico è cominciata nei primissimi anni 90, e cinque lustri sembrano aver consumato non solo l’attenzione, ma anche il buonsenso.
Grillo ha pubblicato un video in cui parla con una statua (Rousseau); l’altro giorno il generale Pappalardo voleva arrestare la presidente della Camera; e dopo aver disposto una specie di festosa coreografia davanti alle telecamere l’81enne Berlusconi, immemore di valutazioni olgettinesche sulla compattezza dei glutei, ha piazzato lì: «Chi mi sta toccando il culo?». Eh, saperlo!
Il presidente Grasso preteso moroso col Pd; il suo creditore-accusatore Bonifazi mezzo nudo su un divano, pure lui con cani; il governatore De Luca poggia le braccia sul collo dei due figli; quando la Procura gliene ha toccato uno, eccolo subito in tv rabbioso: «Siamo alla barbarie», promette «la resistenza», si dichiara «partigiano».
Tutto sembra precipitato in basso, senza più distinzioni gerarchiche, di passione, di speranza, di decoro, di gravità, di niente. Vaccini, scontrini, Traini.
L’eccesso di vaniloquio fa sì che i talk show risultino ormai muti, calamitando lo sguardo sui volti attoniti dei figuranti. Silvione ha rifirmato il Contratto chiamandolo Impegno, ha rifatto lo spiritoso sui capelli e promesso un posto a Vespa. La direzione artistica di Porta a porta, d’altra parte, ha consentito a Giorgia Meloni di portarsi in trasmissione la mamma di Pamela. Ma la definitiva centralità di Barbara D’Urso ha forzato e aggiornato i rituali di consacrazione televisiva con siglette soft, applauso di benvenuto, passeggiata piaciona dell’ospite con bacetto alla taccutissima conduttrice: «Mi avevano detto che eri un bel giovane – così a Di Battista – ma sei anche molto alto».
In compenso parlano, anzi rimbombano le foto, con l’energia di visioni provvisorie e stralunatissime. Sgarbi sulla tazza del cesso. Salvini con un fucile in braccio. Boschi al Carnevale tirolese. Casini sotto l’altarino del riformismo. Le nonne di Renzi garantiscono la bontà del nipote, ci mancherebbe.
Nei giorni furibondi della campagna elettorale la società civile ha finito per adeguarsi.
Un turista francese – quasi un presagio - ha fatto la pipì dentro una fioriera di Montecitorio; la testimone delle cene eleganti Ambra Battilana, ora decisiva in #MeToo made in Usa, vuol fare un film; e per qualche ragione l’altra settimana è anche esploso il ristorante di pesce di Walterino Lavitola.
Fra stupore e malinconia, viene da chiedersi che cosa resterà nella memoria collettiva dell’ex fidanzato rumeno che faceva i rimborsi all’onorevole cinque stelle Giulia Sarti; se sarà eletta la misteriosa Marta Fascetta candidata berlusconiana in quota Milan-Pascale; e quali altri fastidi sarà costretta a patire la signora De Falco – giù le mani, czz - cui Gigino Di Maio ha portato la sua problematica solidarietà.
Tutto scorre, in fondo, tutto se lo porteranno via le urne, tutto forse vale la pena di prenderlo come viene-viene in questo tempo interminabile di sconsolata buffoneria.

il manifesto 4.3.18
Crescono le reazioni contro il linciaggio della maestra precaria Lavinia Flavia Cassaro
Il caso. Decise prese di posizione di Usb, Cobas e del movimento femminista «Non una di Meno». I giuristi democratici: illegittima la richiesta di «licenziamento» avanzata da Renzi in diretta Tv
di Roberto Ciccarelli


Il linciaggio mediatico e sui social network a cui è stata sottoposta la maestra precaria Lavinia Flavia Cassaro – ripresa dalla telecamere di Matrix mentre inveiva contro le forze dell’ordine schierate a difesa di un comizio elettorale di Casa Pound, a Torino – sta producendo una fitta serie di prese di posizione a suo favore. «Non la conosciamo di persona – scrive in una nota il sindacato di base Usb – ma riconosciamo la sua incontenibile rabbia contro poliziotti che proteggono i fascisti, ammessi a partecipare alle elezioni in un paese la cui Costituzione lo vieta espressamente». Il sindacato critica la scelta di «proteggere fascisti e leghisti» con una polizia «impegnata con zelo nelle cariche a chi contesta i vari Di Stefano, Fiore, Meloni e Salvini». L’attacco «a Lavinia è un preciso avvertimento rivolto alla categoria dei docenti – conclude Usb – un monito a tenere la testa bassa. Lavinia non era in servizio, un episodio della sua vita privata è usato per mettere in discussione il suo lavoro, il suo stipendio, la sua professione».
«Ignobile e delirante linciaggio». Così Piero Bernocchi definisce gli attacchi giornalistici e politici subìti dalla donna. L’obiettivo della polemica è l’agghiacciante uscita padronale di Renzi a Matrix. Per il segretario del Pd, Cassaro dovrebbe essere «licenziata». E la ministra piddina Fedeli ha avviato un’indagine ministeriale sul suo comportamento – non in classe, ma in una manifestazione pubblica. »è un’uscita da squallida campagna elettorale – commenta Bernocchi – Si è buoni o cattivi maestri per il lavoro in classe, non per i comportamenti e i pensieri espressi fuori dalla scuola». I Cobas mettono gratuitamente a disposizione della maestra i loro legali. Bernocchi valorizza il comunicato del collettivo delle «Cattive Maestre» a sostegno di Lavinia Flavia Cassaro che ha avuto un’importante ed efficace circolazione in rete ed è stato attaccato in Tv e sui social.
Molto forte è l’intervento del movimento femminista «Non una di meno» che scenderà in piazza per lo sciopero dell’8 marzo: «Attaccando questa maestra si ribadisce un modello di scuola patriarcale e sessista a cui le insegnanti, come missionarie, dovrebbero aderire in ogni momento della propria vita. Siamo solidali con lei e tutte le insegnanti che si vorrebbe ridurre al silenzio sotto il ricatto di un lavoro sottopagato e precario. Questo è un attacco a tutti i lavoratori pubblici. Li vogliono avvisare: quanto fanno nella vita extra-lavorativa peserà nella valutazione del loro lavoro».
A smontare l’autoritaria e incostituzionale posizione di Renzi hanno pensato i giuristi democratici che hanno sottolineato l’illegittimità di una richiesta di licenziamento. «Il lavoratore – spiegano – non vende più se stesso ma solo le attività indicate nel contratto e nell’orario di lavoro, restando irrilevante la sua vita extra-lavorativa. Se verrà rilevato un elemento giuridicamente rilevante nella condotta di Cassaro, ne risponderà, Ma licenziarla ora significherebbe solo segnare un’equidistanza tra fascismo e antifascismo, tra chi spara e chi grida a volto scoperto e mani nude, e questo non è accettabile». «Un licenziamento in tronco di una dipendente pubblica da parte del segretario del partito di governo in diretta televisiva non si era mai visto. Per lo meno in democrazia» ha scritto Marco Revelli su «Doppiozero».
Il coro dell’intolleranza è stato rotto anche da un appello congiunto firmato dalle redazioni dei siti EuroNomade e Effimera che denunciano il tentativo di «neutralizzare lo spazio democratico aperto dal corteo di Macerata in poi che ha rivelato una nuova vitalità dell’antifascismo non istituzionale come pratica concreta dell’antirazzismo e dell’antisessismo».

Corriere La Lettura 4.3.18
Società Truffatori e diritto
La scienza in tribunale come capro espiatorio
di Chiara Lalli


Che cosa succede quando la scienza entra in un tribunale? O quando il Parlamento deve legiferare su argomenti scientifici? In sintesi: un disastro. Per una risposta più articolata — ma non meno allarmante — si può leggere il libro di Luca Simonetti La scienza in tribunale (Fandango Libri, pagine 296, e 18). Per delineare il contesto, basta ricordare alcuni casi che hanno attirato trasmissioni di intrattenimento con ambizioni giornalistiche come Le Iene (Stamina) o si sono dimostrati resistenti a qualsiasi smentita (vaccini-autismo).
Certo, quando due discipline diverse si incontrano, il dialogo può essere difficile e, scrive Simonetti, gli strumenti del diritto sono nati quando la scienza era primitiva. Non solo: diritto e scienza hanno linguaggi diversi e lo sviluppo di quest’ultima ha suscitato problemi complessi. Oggi è inammissibile che il diritto non sia consapevole delle controversie causate da tecnologie prima inesistenti. Ma, soprattutto, la scienza ha messo in crisi concetti chiave del diritto: volontà, responsabilità, causalità, coscienza.
La questione è complicata da una tendenza molto umana: il complottismo. Quando osserviamo fenomeni, soprattutto se gravi e senza rimedio, dobbiamo trovare per forza un responsabile, un capro espiatorio: è quanto accaduto nel caso vaccini-autismo, nel processo horror dell’Aquila e nel caso Xylella (una vicenda metà Kafka metà Fantozzi, che giustamente Simonetti definisce un «abominio giudiziario» e uno «sfregio alla Costituzione»). Oppure un salvatore, un mago: pensiamo, di nuovo, a Stamina o al cosiddetto metodo Di Bella per «curare» il cancro. Davanti alle novità, invece, tendiamo a ritirarci spaventati. E allora gli Ogm sono pericolosissimi e il progresso tecnologico è sempre accompagnato da un’ombra minacciosa.
Se gli errori giudiziari accadono spesso e per varie ragioni, una mediocre cultura scientifica in chi deve giudicare (o legiferare) non può che peggiorare l’esito di un processo (o di un disegno di legge). Così come i ciarlatani sono sempre esistiti e sempre esisteranno: il rimedio è riconoscerli e renderli meno dannosi. La fortuna è che si somigliano tutti, come si somigliano le loro storie. È ovvio che, a seconda dei casi, le domande saranno diverse: quali sono i criteri per somministrare gratuitamente farmaci o trattamenti in un sistema di sanità pubblica e di risorse limitate? Quali prodotti uno Stato dovrebbe vietare? Esiste la libertà di ingannare? O (è una domanda ricorrente) perché Wanna Marchi è andata in prigione e Davide Vannoni no? Ma il metodo per cercare la risposta è lo stesso. Ci sono anche dei casi eccellenti e memorabili, come il giudice Vincenzo Ciocchetti del tribunale di Torino che nel 2014 ha firmato un’ordinanza esemplare su Stamina. Per rendere norma le eccezioni, l’educazione scientifica dovrebbe essere una condizione necessaria anche nel mondo giuridico. Perché il guaio non è tanto il ciarlatano, ma un contesto incapace di espellerlo.

il manifesto 4.3.18
Ucraina sempre più nel caos: «Shaakashvili boys» e nazi contro la polizia
Ucraina. E proprio ieri Gazprom ha comunicato di aver «iniziato la procedura di cancellazione dei contratti con Naftogaz Ucraina» per il prossimo biennio
di Yurii Colombo


Ieri mattina mentre una bufera di neve si abbatteva su Kiev, manifestanti sostenitori di Michail Shaakashvili (l’ex presidente georgiano oppositore di Poroshenko, ora in «esilio» in Polonia) provenienti da tutte le provincie ucraine e sostenuti anche da militanti dell’estrema destra della capitale, hanno attaccato la polizia che si trova a protezione del Parlamento.
SI È TRATTATO DI UN ASSALTO in piena regola: i manifestanti armati di bastoni e scudi di ferro hanno eretto barricate e bruciato automobili, impegnando la polizia in scontri che sono durati per oltre due ore.
La polizia è riuscita alla fine a respingere l’attacco. Sono rimasti feriti durante gli incidenti 50 persone mentre altre 40 sono stati arrestati.
In alcune delle tende approntate all’alba dagli assalitori sono state poi ritrovate non solo bottiglie molotov ma anche 9 bombe a mano modello RGD-5 e 5 fucili lancia-lacrimogeni.
L’UCRAINA È ORMAI NEL CAOS. Proprio ieri Gazprom ha comunicato di aver «iniziato la procedura di cancellazione dei contratti con Naftogaz Ucraina» per il prossimo biennio.
La Russia intende così sin da subito non far più transitare sul suolo ucraino, visto che «Turkish Stream», la pipeline che porterà l’«oro blu» ad Ankara è ormai in avanzatissimo stato di costruzione.
Per l’Ucraina, dicono gli esperti, si tratterà di una perdita di 2 due miliardi di dollari l’anno, una cifra di tutto rispetto per un paese da tempo al collasso economico.
Già da venerdì Gazprom ha smesso di fornire gas a Kiev lasciando famiglie e imprese ucraine senza riscaldamento.
Ieri mattina in Tv il presidente Poroshenko ha cercato di rassicurare la popolazione: «il deficit energetico è stato risolto. Abbiamo fatto richiesta di gas a Polonia, Ungheria e Slovacchia ed entro 10-20 ore la situazione tornerà alla normalità».
ANCHE GLI USA sono intervenuti nella contesa tra i due paesi slavi. Heather Nautert portavoce del dipartimento di Stato ha sostenuto che «la fornitura e il transito di gas non deve mai essere un’arma politica. La Russia dimostri di essere un fornitore di energia credibile».
Ma a Mosca non sono disposti a fare sconti: «l’Ucraina provveda a pagare il debito di 4,6 miliardi di dollari e poi ne riparleremo» hanno replicato da Gazprom.

La Stampa 4.3.18
Mimmo Cándito, un inviato
davvero speciale
Morto a 77 anni. Ha raccontato perLa Stampai conflitti che hanno segnato il nostro tempo, dal Libano alla Somalia, dalle Falkland al Golfo, senza scivolare nel cinismo
di Cesare Martinetti


Di inviati ce ne sono tanti, di veramente speciali ce ne sono sempre stati pochi. E invece basta pronunciare queste due semplici parole, Mimmo e Cándito, che il riflesso viene istintivo e si riempie di vita: «inviato speciale». Dove? In tutte le guerre, in ogni parte del mondo. Nell’emozione e - scusate - nella commozione, andiamo a memoria: non c’è stato conflitto significativo negli ultimi quarant’anni che Mimmo non abbia respirato, osservato, misurato a passi e bracciate e infine raccontato per i lettori della Stampa. Dal Libano alla Somalia, dalle Falkland al Golfo, dall’Irlanda all’Afghanistan, al deserto iracheno, alla Libia del dopo Gheddafi.
E anche il suo personale e drammatico conflitto è diventato un racconto, quello contro il cancro, che alla fine l’ha sconfitto. Ma che guerra, quante battaglie in questi tredici anni, combattute con la ragione e la volontà. E l’illusione di aver vinto, ma anche questa appartiene alla ragione, o all’elaborazione di una difesa necessaria per vivere. Così aveva scritto lui stesso, tre anni fa, nel libro dedicato alla malattia: «Guerra o tumore sono la stessa cosa, devi averne paura ma anche devi saperci lottare per salvare la pelle. E quello che conta, soprattutto, è la testa, la volontà, la capacità di ricominciare senza darsi sconfitti e nuotare fino a 55 vasche o anche più».
Quelle «vasche» erano diventate titolo del suo racconto (pubblicato da Rizzoli nel 2015) e paradigma della volontà di vivere, dopo l’intervento chirurgico, durante la chemio e tutto l’alterno corredo di terapie e stati d’animo che si accompagnano e si susseguono in queste battaglie.
Ma in che cosa era «speciale» il lavoro da inviato di Mimmo? In quella che è - o dovrebbe essere - la normalità della professione di giornalista, che nella sua essenza si riduce a essere un testimone di avvenimenti per conto del lettore. Si può esserlo nell’angolo più sperduto della Terra o nella periferia della propria città. Quello che conta è il modo in cui si guardano i fatti e si ascoltano i protagonisti di quei fatti. Conta avvicinarsi il più possibile a essi, immergervisi, andarci senza pregiudizi, che non vuol dire senza giudizio, e cioè ben informati di che cosa si sta raccontando e del perché. L’obiettività, nel giornalismo, è un mito astratto; l’onestà del racconto è invece un dovere di cui chiedere conto.
Ryszard Kapuscinski, un altro grande «speciale» tra gli inviati, polacco e giramondo, ha costruito la sua memoria professionale sul detto che «il cinico non è adatto a questo mestiere». Ed è una definizione che si calca perfettamente nella biografia di Mimmo Cándito. Nessun sentimento gli era più estraneo del cinismo. Anche l’osservazione della morte e la sua elaborazione appartenevano alla sua quota di professionalità. Vivere e condividere le circostanze più atroci, come una strage di bambini per effetto di armi chimiche in un quartiere di Damasco, o lo «spettacolo» della lapidazione di un’adultera allo stadio di Kabul.
Per far bene tutto questo ci vuole un candore del tutto speciale, come può essere quello di uno che aveva avuto in sorte di chiamarsi Cándito e sembrava un hidalgo fuori del tempo, con un fisico e una pelle, persino, che appariva la corazza più appropriata per uno che doveva attraversare il pianeta, scarponcini o sandali ai piedi, non importa, giacca a vento o una «candida» e mimetica djellaba
h indosso.
Nulla sembrava sproporzionato in Mimmo, perché tutto era già fuori di misura: la sua statura, la mole di giornali e di ritagli che accumulava prima di partire per un reportage, l’ambizione della meta, l’ostinazione nel cercare e ricercare un testimone, nel verificare una fonte, la generosità con i colleghi, l’incapacità di cedere a facili compromessi per strappare un titolo in prima pagina.
Anche quel vezzo hemingwayano nella scrittura apparteneva a un’etica giornalistica che rovescia il luogo comune redazionale: non è la verità a rovinare una bella storia, semmai il contrario. L’esercizio retorico diventa stucchevole quando ripetuto, superficiale, gratuito: letteratura senza letteratura. Nei reportage di Mimmo ogni immagine invece si giustificava sul fondo del lavoro di ricerca che l’aveva germinata, plasticamente aderente alle notizie, rifletteva come uno specchio lo stato d’animo con cui lui guardava a quei fatti.
Reporter di guerra, è stato il suo lavoro e cioè la sua vita, era la sua anima, negli ultimi anni trasmessa ai ragazzi dell’università di Torino, alla guida della sezione italiana di «Reporters sans frontières» e anche nella passione (non hobby) della lettura che lo aveva portato a dirigere il mensile di libri e letteratura L’Indice.
Ma la seconda guerra del Golfo aveva cambiato il suo sguardo. La prevalenza di informazione raccolta su Internet, per lui che nel ’91 aveva respirato il fumo avvelenato dalle bombe sui pozzi di petrolio nel deserto tra Kuwait e Iraq, rappresentava un’amara eresia.
Gli inviati ci sono ancora ed esisteranno sempre, ma per essere «speciali» ci vuole il coraggio e l’umanità di Mimmo Cándito. È stato un privilegio per noi lavorare con lui. E per i lettori della Stampa leggere i suoi articoli.

Corriere 4.3.18
Riscoperte A Creta per rapire il generale La piccola Odissea del 1944
L’impresa sull’isola occupata dai nazisti narrata in un libro del 1950 ora tradotto in italiano per Adelphi
Il diario di William Stanley Moss, ufficiale inglese e futuro scrittore
di Corrado Stajano


Potrebbe sembrare uno dei tanti romanzi d’avventura, questo libro di W. Stanley Moss pubblicato ora da Adelphi. Già il titolo, Brutti incontri al chiaro di luna , è poeticamente deviante. È infatti un diario di guerra, la storia di un’impresa inimmaginabile. Due ufficiali inglesi, agenti del Soe, lo Special operations executive, i servizi operativi più sofisticati dell’epoca, la Seconda guerra mondiale, approdano segretamente a Creta dove le truppe tedesche, per l’importanza strategica dell’isola mediterranea, sono numerose e vigili in ogni angolo.
Dopo un’infinità di vicende rischiose — sembra che la vita non conti nulla — portano a buon fine quel che si prefiggevano di fare riuscendo a rapire in un’imboscata, con l’aiuto dei partigiani cretesi, il comandante della 22ª divisione Panzergrenadier generale Heinrich Kreipe e, senza torcergli un capello, lo conducono su una motolancia in Egitto, a Marsa Matruh e poi al Cairo. È un libro insolito, che prende il lettore per la limpida bellezza della sua scrittura, un diario unico senza modelli, tra bombe, fughe, agguati. Il tono del racconto va al di là dell’ understatement britannico, smorza, sorride, canta, protagonista una giovinezza appassionata vissuta con naturale coraggio, in nome della lotta per la libertà.
La storia si dipana tra l’aprile e il maggio 1944. L’autore del diario, Stanley Moss, detto Billy, è un giovane capitano di 22 anni. L’altro protagonista, il maggiore Patrick Leigh Fermor, detto Paddy, poco più anziano, è sempre presente nelle pagine che il compagno scrive, con la difficoltà di tenere un diario: nei momenti di sosta del lungo camminare, in qualche grotta, in una spelonca, in un ovile, vicino a un dirupo, davanti al mare di Omero, «color del vino». Billy — diventerà uno scrittore noto — deve sapere che l’eroe dell’ Odissea , nel suo viaggio a Troia, passò da Creta, dove lo spinse «la forza del vento».
L’impresa è impervia. I due ufficiali, che indossano l’uniforme tedesca, devono imparare a conoscere accuratamente i luoghi, i paesi e i paesani, il terreno, studiare un piano fattibile, prendere di mira l’automobile del generale quando ogni sera si muove dal suo comando per andare nella villa dove vive, neutralizzare la scorta, nella speranza che non ci siano sanguinose rappresaglie dei tedeschi contro la popolazione civile.
Moss è un giovane colto, si identifica con Jim Hawkins, il ragazzo avventuroso e piratesco dell’ Isola del tesoro di Stevenson. I richiami culturali, letterari soprattutto, sono numerosi, infilati nelle righe: il grasso e spiritoso cavaliere shakespeariano Sir John Falstaff, Picasso, Stavrogin, il personaggio dei Demoni di Dostoevskij, e poi François Villon, Erich von Stroheim, John Donne, Baudelaire, Eliot e anche Lucrezia de’ Medici, l’ Ultima duchessa della poesia di Robert Browning. Sa persino di moda, Moss, scrive di una guida che porta un berretto di lana sul capo e lo porta con eleganza, «come fosse un turbante di Elsa Schiaparelli».
La società dei contadini e dei pastori dell’isola, il più delle volte povera, si prodiga generosa per aiutare gli inglesi e i partigiani, gli andartes, e, appena può, privandosene, porta in dono cibo, vino, acqua.
Moss racconta deliziato di un pranzo nel giorno della Pasqua ortodossa: carne d’agnello e di montone, piatti di lenticchie, latte di capra, uova sode dipinte, formaggio mizithra, lumache arrosto, bottiglie di raki, anfore di vino a profusione. Prova solo orrore davanti agli occhi di agnello e ai genitali bolliti considerati dai cretesi la gran leccornia. (Sembra di ritornare nell’ Odissea , nel suo paesaggio incantato popolato di antichi pastori e, con loro, Afrodite, Calipso, i fantasmi di una storia antica di secoli all’ombra del monte Ida).
Ma non è facile per quegli uomini camminare per ore, vincere la stanchezza, nascondersi al primo rumore in qualche anfratto perché le pattuglie tedesche sanno degli inglesi e dei partigiani sulle montagne e possono spuntare all’improvviso. E poi devono studiare e ristudiare il piano dell’imboscata: percorrerà la strada che d’abitudine fa, Kreipe, la sera fissata per l’agguato? Lascerà alla stessa ora il quartier generale per recarsi all’alloggio di villa Ariadne sulla strada che conduce a Heraklion? E poi che cosa potrà accadere in un’isola presidiata da una guarnigione nazista di 10 mila uomini?
Il diario di Moss è minuzioso. Pubblicato nel dopoguerra, tradotto solo ora in italiano (da Gianni Pannofino), è un documento umanamente e storicamente importante. (Il film del 1957, diretto da Michael Powell e Emeric Pressburger, Colpo di mano a Creta , con Dirk Bogarde, riesce a rendere l’atmosfera di quell’avventura di guerra in modo realistico, ma assai meno fascinoso).
Gli uomini del Soe sono bene addestrati, sanno quel che fanno, non sono mai imprudenti, adusi alla fatica. Provano e riprovano il piano. Il 27 aprile 1944. «Ecco, lo abbiamo fatto»: «Ist dies das General’s Wagen?», «Ja, ja». (...) «Abbiamo spalancato le portiere e con la torcia abbiamo illuminato l’interno dell’auto: l’espressione sgomenta del generale, lo sguardo terrorizzato dell’autista». Tutto qui. Comincia la marcia di ritorno. Una motobarca deve arrivare alla spiaggia per caricare gli uomini dell’agguato e il generale. Di nuovo cammina cammina. Il generale è seccato per aver perso il berretto indossato ora da Paddy e soprattutto la croce di ferro che aveva al collo. Piagnucola, ma non fa storie. Conosce persino il greco antico. È anche lui una persona umana.
La reazione nazista è feroce: «Ieri sera il generale tedesco Kreipe è stato rapito da banditi. Si trova ora sulle montagne, a Creta, e il suo nascondiglio non può essere ignoto alla popolazione. Se il generale non sarà liberato nel giro di tre giorni, tutti i villaggi ribelli del distretto di Heraklion saranno rasi al suolo, e verranno adottate le più severe rappresaglie nei confronti della popolazione».
I tedeschi, non soltanto per il sequestro del generale, incendiano e fanno saltare in aria tutte le case di Anogia e bombardano a tappeto il paese. «Spesso — scrive Moss — non è raro che i civili vengano gettati vivi dentro le loro case. (...) La brutalità tedesca a Creta assumeva quasi sempre la forma del semplice sistematico massacro. Mancava del tutto l’artistica sottigliezza che ci permette, a volte, di nutrire un’inconfessata ammirazione per i Borgia, per i duchi di Milano, per i Malatesta di questo mondo. Era una violenza plateale e rozza».
Ma è finita. Anche il generale, zoppicando — in Egitto gli verranno resi gli onori delle armi — è riuscito ad arrivare alla spiaggia. I pastori, i partigiani cretesi che in quelle settimane hanno vissuto con gli inglesi in comunione fraterna, al momento dell’addio sono commossi.
«La falce della luna sembra un neonato candido adagiato sulla volta traslucida del cielo. (...) Il rumore dei nostri stivali sul terreno riecheggiava come se stessimo camminando su un deserto. (...) L’intera isola è svanita come una crosta di pane».

il manifesto 4.3.18
Il carburante oscuro dell’Universo
Astronomia. L'espansione del cosmo è molto più veloce di quel che si pensava fino ad oggi. Il nuovo valore della costante di Hubble prevede nel tempo un allontanamento di pianeti e galassie: attraverso l’osservazione di otto Cefeidi, «astri faro», si è misurata una accelerazione maggiore
di Piergiorgio Pescali


Da quando nel 1929 l’astronomo Edwin Hubble scoprì il redshift, lo spostamento verso il rosso della radiazione emessa dalle galassie, si è a conoscenza che l’Universo si sta espandendo. Gli astrofisici hanno cercato di quantificare la misura di questa dilatazione tentando di rispondere a due domande: l’Universo si espande con la stessa velocità o, invece, sta rallentando? Nel 1998 gli studi di Adam Riess, Brian Schmidt e Paul Perlmutter replicarono alle questioni con una terza, del tutto inaspettata, risposta: l’Universo continuava ad espandersi, ma con una accelerazione in costante aumento. La scoperta valse ai tre scienziati il premio Nobel per la fisica nel 2011.
PER INTERPRETARE coerentemente la nuova teoria si introdusse, oltre alla materia ordinaria e alla materia oscura, una terza componente, una sorta di carburante che consentirebbe all’Universo di espandersi: la cosiddetta energia oscura. Questa nuova grandezza rappresenterebbe circa il 68,3% della materia che compone l’Universo (secondo la teoria della relatività di Einstein, energia e materia sono strettamente correlate e la massa non è altro che una forma di energia). Il restante 31,7% sarebbe composto dalla materia oscura (26,8%) e da quella barionica (4,9%), la materia che noi «vediamo» e con cui i nostri sensi interagiscono ogni giorno.
Nessuno ha una risposta su cosa sia energia e materia oscura. Sebbene illustri ricercatori come David L. Wiltshire dell’università neozelandese di Canterbury o Alexander Kashlinsky del centro di voli spaziali Goddard della Nasa, abbiano ancora perplessità in merito all’espansione, la gran parte del mondo scientifico avvalora la tesi secondo cui la dilatazione dell’Universo sia causata da un’energia la cui origine rimane sconosciuta e della cui entità è responsabile quella che viene chiamata costante di Hubble. Il valore della costante stabilisce la velocità di recessione delle galassie nel cosmo, ma il suo numero non è mai stato determinato con precisione. Sino a pochi giorni fa si assumeva che questo fosse 67,15 chilometri al secondo per ogni Megaparsec di distanza (km/s/Mps).
PER CAPIRE QUESTA UNITÀ di misura astronomica occorre spiegare che il Megaparsec corrisponde a 3,26 x 106 anni luce (3.260.000 anni luce) e, dunque, una galassia che dista dalla Terra 1 Megaparsec di allontana da noi alla velocità di 65 chilometri al secondo. L’unità di misura della costante di Hubble (km/s/Mps) implica che la velocità di allontanamento di un oggetto aumenta con l’aumentare della distanza dall’osservatore: una galassia distante 10 Megaparsec si allontanerà ad una velocità 10 volte maggiore rispetto a quella che si trova a 1 Megaparsec da noi ed una distante 100 Megaparsec si sposterà ad una velocità 100 volte maggiore.
Recentemente lo stesso Adam Riess che nel 1998 aveva condotto la ricerca sull’accelerazione dell’espansione del cosmo, ha annunciato i risultati di un nuovo studio durato quattro anni effettuato con il telescopio di Hubble della Nasa e l’osservatorio spaziale Gaia dell’Esa, l’Agenzia Spaziale Europea. Per tutta la durata delle osservazioni e a distanza di sei mesi l’una dall’altra, Riess e la sua equipe dello Space Telescope Science Institute (STScI) e della Johns Hopkins University, di cui fa parte anche l’italiano Stefano Casertano, hanno misurato Variabili Cefeidi, stelle pulsanti la cui luminosità massima e minima varia in un tempo costante secondo periodi stabiliti. Grazie al telescopio di Hubble, Riess è riuscito a osservare Cefeidi nella Via Lattea distanti tra i 6.000 e i 12.000 anni luce dalla Terra, una distanza dieci volte superiore a quella misurata sino ad oggi. Una scommessa azzardata, visto che le oscillazioni luminose di Cefeidi così lontane equivalgono ad appena 1/100 di differenza di luminosità di un pixel di una macchina fotografica.
PER VINCERE QUESTA SFIDA la squadra di ricercatori ha sviluppato un metodo di scannerizzazione che «fotografava» la posizione della stella migliaia di volte al minuto ogni sei mesi, per i successivi quattro anni paragonandone la luce emessa con otto Cefeidi più vicine a noi. Osservando le stelle «faro» in diversi periodi dell’anno e da diversi punti dell’orbita terrestre, l’equipe è riuscita a tracciare una precisa misura della parallasse stellare che lascia adito a ben pochi dubbi: la costante di Hubble, risulta essere 73.45 ± 1.66 km/s/Mpc, un valore circa il 9% maggiore a quella misurata nel 2015 con il satellite Planck, dell’Agenzia Spaziale Europea. La differenza, è macroscopica in termini scientifici perché pone le basi per una revisione della fisica del nostro Universo.
LA PRIMA CONSTATAZIONE che è possibile dedurre è che la forza che lancerebbe le galassie lontano le une dalle altre espandendo così l’Universo, non sarebbe costante, ma assumerebbe valori diversi nel tempo. Questo ha portato i fisici e gli astronomi a congetturare nuove ipotesi sulla composizione del cosmo e sul suo destino futuro e finale.
Il nuovo valore della costante di Hubble segna un punto a favore della tesi del Big Rip (Grande Strappo) secondo cui l’accelerazione con cui il nostro Universo si dilata porterebbe, con il tempo, ad allontanare le galassie, le stelle e i pianeti gli uni dagli altri sino a rendere il nostro spazio completamente scuro e freddo. In un Universo del genere, in cui sarebbe impossibile osservare anche il minimo residuo di spostamento verso il rosso (redshift) derivato dal Big Bang, l’energia oscura sarebbe così elevata da prevalere su ogni altra forza riuscendo alla fine a strappare (Rip) la materia ordinaria nelle sue particelle elementari (fermioni, leptoni, bosoni).
NEL CAMPO DELLA RICERCA più strettamente legata al nostro mondo, la scoperta del team di Riess aprirebbe nuove idee su come possa essere definite la materia e l’energia oscura. Una possibile ipotesi è che, così come la materia ordinaria interagisce con la radiazione elettromagnetica, la materia oscura potrebbe essere soggetta a interazioni con particelle a noi invisibili come la radiazione oscura. Questa, a differenza delle parallele radiazioni elettromagnetiche ordinarie, interagirebbe solo con la gravità mediante nuovi tipi di particelle battezzate neutrini sterili per distinguerle dai neutrini attivi conosciuti nel Modello Standard, i quali, invece, interagiscono con le forze deboli.
Si potrebbe anche ipotizzare che la materia oscura, che ad oggi si pensa non abbia alcuna interazione con quella ordinaria, possa invece influenzare le particelle elementari del Modello Standard per creare un tessuto connettivo strettamente correlato che garantirebbe la vita dell’Universo.
Tutte queste ipotesi hanno già aperto le porte a nuove strade di ricerca scientifica che potrebbe portare a nuove e più profonde deduzioni nei modelli sino ad oggi approntati sino a rivedere scenari passati e futuri della vita del nostro Universo.
SCHEDA
Quando il gesuita e astronomo belga Georges Lemaitre espose, durante il Convegno di Solvay del 1927 a Bruxelles, la sua idea dell’atomo primigenio ad Albert Einstein, questi la considerò un’idea abominevole. In seguito lo stesso fisico tedesco si ravvide dell’errore quando Hubble dimostrò che le galassie si allontanano causando il famoso redshift, o spostamento verso il rosso. Oggi sappiamo che il nostro Universo, dal Big Bang è invecchiato di 13,8 miliardi di anni. Pochi istanti dopo il Big Bang si vennero a formare le particelle elementari, gluoni e quark e le quattro forze che comandano l’attuale Universo (interazione forte, debole, gravitazione e elettromagnetica) si separano. I primi atomi di idrogeno e elio cominciarono ad apparire dopo 380.000 anni, ma si dovette attendere un altro miliardo di anni perché questi atomi si unissero per formare le prime galassie e le prime stelle. Quando queste esaurirono il loro combustibile nucleare, vennero a prodursi gli elementi pesanti che permisero la formazione di pianeti. Ma come evolverà il nostro Universo? Le decine di ipotesi proposte dai ricercatori si possono grosso modo suddividere in tre soluzioni, anche se altre possibilità non si possono escludere a priori. Il Big Crunch prevede che, quando la forza di espansione dovuta al Big Bang si esaurirà, il cosmo subirà una contrazione che lo vedrebbe collassare in una singolarità a cui potrebbe seguire un nuovo Big Bang.
Il Big Freeze e il Big Rip contemplano un Universo in continua espansione sino a raffreddarsi a tal punto che, per il primo modello, tutta la materia verrebbe assorbita in buchi neri per evaporare nella radiazione di Hawking, mentre per il secondo l’energia oscura dilanierebbe tutta la materia sino a riportarla allo stato di particelle elementari. Vi sono anche teorie che prevedono spin-off dei precedenti modelli per presentare singoli Multiversi generati dai buchi bianchi di Hawking o frattali collegati tra loro da stringhe o brani in cui ogni Multiverso sarebbe governato da leggi fisiche differenti.

Il Fatto 4.3.18
Salone del Libro di Torino, due milioni di debiti in più. E il marchio si svaluta ancora
La Fondazione deve 8 milioni di euro ai creditori. L’ex direttore Picchioni: “È strano. Qualcuno vuole affossare la Fiera”
di Massimo Novelli


Uno spettro si aggira, poco marxianamente, per Torino. È quello dei debiti, stimati in 8 e rotti milioni di euro, della Fondazione per il Libro, che fino allo scorso anno, prima di essere messa in liquidazione, aveva organizzato il Salone del Libro. Nata nel 1994, la Fondazione vedeva sedere nell’assemblea dei soci fondatori i rappresentanti del Comune di Torino, della Città Metropolitana, della Regione Piemonte, del ministero dei Beni Culturali, del ministero dell’Istruzione (poi defilatosi) e di Intesa Sanpaolo.
Lo spettro dei conti in rosso non è una novità. Tuttavia, secondo quanto trapela all’interno dello staff dirigenziale della kermesse del Lingotto, il passivo si aggirerebbe ora sugli 8 milioni di euro. Circa un paio di milioni in più, insomma, rispetto al passivo di 6 milioni che era emerso alla fine del 2017. Un bilancio disastroso, dunque, determinato dalle esposizioni con le banche, almeno 3,3 milioni, che avevano anticipato i fondi all’ente organizzatore di Librolandia, e poi dai 2,8 milioni da pagare ai fornitori delle ultime edizioni del Salone del Libro. Se si aggiungono, però, gli effetti sul bilancio derivanti dalle perdite del 2017, dalla individuazione di nuovi debiti con i fornitori e soprattutto dalla drastica riduzione del valore effettivo del marchio del Salone, allora, si può arrivare tranquillamente a toccare gli 8 milioni, e forse di più. E proprio di 8 milioni parlava qualche giorno fa un dirigente del Salone, conversando con alcuni addetti ai lavori alla Mole Antonelliana, durante la presentazione della fiera di quest’anno.
Ad avere aggravato i conti, in ogni caso, è stata anche la questione del marchio. In base alla perizia che era stata commissionata a Icm Advisor nel 2009 da Rolando Picchioni, per quindici anni alla guida di Librolandia, valeva quasi 2 milioni di euro. Uscito di scena Picchioni, la valutazione è stata riesaminata di recente dallo Studio Jacobacci & Partners, che lo ha ridotto di dieci volte, attestandolo fra i 160 mila e i 200 mila euro. Provocando così una nuova voragine nei conti dell’ente. Accantonato oltre due anni fa dal vertice della manifestazione, e indagato, con una trentina di persone, dalla Procura torinese che cerca di fare chiarezza sui presunti falsi in bilancio del Salone, Picchioni non nasconde l’amarezza e avanza qualche sospetto. “Evidentemente”, dice, “si vuole affossare il Salone. Mi domando come sia stato possibile che il marchio sia passato da una valutazione di due milioni a quella attuale di 200 mila ero.
Chi ha voluto tutto ciò? In giro per Torino se ne sentono tante, non so che cosa pensare. Si mormora, per esempio, che qualcuno abbia deciso di fare svalutare il marchio per prendersi il Salone quasi a costo zero”. Quel marchio, aggiunge l’ex timoniere della fiera libraria, “per cui GL Events, la società francese proprietaria del Lingotto, nel 2014 era disposta a versare 300 mila euro per acquisirne una quota del 20-25 per cento”. Ironia della sorte, ma non troppo, GL Events è tra i maggiori creditori della vecchia Fondazione, con 900 mila euro. Con quali fondi il liquidatore della Fondazione per il Libro potrà pagare i debiti? La sola speranza è che gli stessi soci fondatori, come Comune, Regione e ministeri, aprano i proverbiali cordoni della borsa, ovvero rispettino gli impegni.
Nel bilancio della defunta (o quasi) Fondazione per il Libro, infatti, sono inseriti crediti attivi per oltre 5 milioni di euro. Tra questi ci sono 4,5 milioni, che dovrebbero arrivare dalla Regione Piemonte (con 1,7 milioni), dal Comune di Torino (1,5 milioni), dal ministero dell’Istruzione (300 mila euro), dalle fondazioni bancarie e da altri soggetti. Perché il paradosso di questo pasticciaccio brutto subalpino, come faceva notare Ernesto Ferrero, a lungo direttore culturale del Salone, è che “i crediti della politica sono ancora ben al di là da essere pagati, e mi chiedo dove fossero, se non seduti al nostro tavolo, i rappresentanti di Comune e Regione”.

Repubblica 4.3.18
Antonio Albanse
Io sto con i migranti. Mi ricordano papà
Intervista di Anna Bandettini


Deve essergli piaciuta come “ missione impossibile”: l’idea di parlare del tema più controverso del momento, l’integrazione tra culture e popoli, con toni incoraggianti invece che ansiosi, per sorridere e non per drammatizzare, per farne non una storia triste, di dolori, violenze, rifiuti, ma di normalità. « Sono stanco di sentire sempre toni e reazioni esagerate quando si tocca un tema enorme come quello dei migranti», dice, «è vero che i problemi ci sono, non lo nego. Sono il primo che all’ennesimo venditore tiro dritto sul marciapiede col grugno in faccia, ma se si vuole affrontare il tema lo si può fare con un tocco leggero e un po’ di umanità».
Antonio Albanese lo ha fatto tornando regista al cinema dopo sedici anni, in una stagione che sta attraversando da ilare schiacciasassi: protagonista trionfale con Paola Cortellesi di Come un gatto in tangenziale autentico successo al botteghino, autore del folle ricettario di prelibatezze inesistenti, Lenticchie alla julienne (Feltrinelli), regista, appunto, del suo quarto film e in procinto di un altro, imminente ritorno, a fine aprile in Rai con un programma tutto suo, atteso dai tempi del fortunato Non c’è problema del 2003, che si intitolerà Topi, su Raitre. «Sto scoprendo il piacere di scrivere e dirigere: anzi spero di farlo più spesso, e per altri, senza stare in scena io stesso ».
Il quarto film si intitola Contromano, scritto con Andrea Salerno, Stefano Bises e Marco D’Ambrosio- Makkox, il disegnatore satirico, e uscirà nelle sale il 29 marzo con Fadango e Rai. Albanese è Mario Cavallaro, un signore un po’ come lui, un lombardo tranquillo, onesto, routinier, un po’ isolato («Io mondano? Preferisco una cenetta intima con pochi amici » , confessa di sé), il quale per liberarsi del senegalese che vende calze proprio davanti al suo negozio di calze, decide di riportarlo personalmente nel suo paese, in Senegal.
Ma da dove le è venuta un’idea così folle?
«Tra le mille cazzate che ho sentito dire sulla questione dei migranti, giuro, c’è anche questa: abbiamo tante macchine, li carichiamo su, li riportiamo in Africa e il problema è risolto... Come spunto per raccontare in modo paradossale una questione complessa, piena di contraddizioni e paure, mi è sembrato perfetto. Quel viaggio “ contromano” i protagonisti del film lo fanno davvero e sarà anche un viaggio nei sentimenti».
Il cambiamento può venire anche da cose così?
«Per il mio Mario ma anche per Oba, il senegalese interpretato da Alex Fondja, e Dalida, la sua compagna che è Aude Legastelois, originaria del Mali, esordiente bravissima, funziona. Perché ciò che conta è che, quando finalmente ci si confronta “noi” e “loro”, capiamo di essere tutti sulla stessa barca».
Oggi si vota: in questa campagna elettorale quello dei migranti è stato un tema centrale. Lei che ne pensa?
«Che molti lo usano in maniera furba. Personalmente mi danno fastidio quelli che hanno parole che nemmeno Cetto La Qualunque si sognerebbe o quelli che trovano le soluzioni facili, “ Mandiamoli a casa”, “ Blocchiamoli”... Ma cosa blocchi? Io da italiano mi sento orgoglioso di far parte di un Paese che ha accolto, facendo cambiare posizione anche all’Europa o almeno a una parte di essa. Per fare il film, con Alex e Aude, i due attori, abbiamo davvero fatto un viaggio verso la Mauritania. Ci siamo imbarcati a Genova nell’unica nave che dall’Europa va verso il Marocco e porta marocchini, tunisini con le auto cariche di masserizie da portare ai parenti. È qualcosa di toccante a vederlo, e a me ha fatto venire in mente i racconti di mio padre».
Cioè?
«Quando nel ’58 è salito dalla Sicilia al Nord e nessuno affittava casa ai meridionali. Io sono un po’ segnato da queste storie, da quel sentimento per cui migrare è un sacrificio oltre che un’opportunità. Però per questo sono felice che mio figlio Leonardo, il secondo di otto anni, a scuola possa stare con bambini di altre nazioni. Secondo me per l’Africa ci vorrebbe un piano Marshall come fu per l’Italia nel dopoguerra: finanziamenti a progetti per costruire lì e valorizzare il territorio. Altrimenti non c’è soluzione. Il mio Mario in fondo fa così, fa quello che ha realizzato Slow Food finanziando migliaia di orti in Africa, insegnando alla gente a coltivare e garantirsi i viveri. Da un Mario come il mio può scattare qualcosa di grosso».
Salverà Mario nella galleria dei suoi personaggi, Epifanio, Frengo, Alex Drastico...?
« Amo la sua onestà da personaggio un po’ vintage, un po’ stordito, come l’Occidente. Sì, forse potrebbe stare in quella galleria a cui sono affezionato perché credo che siano tutti personaggi ancora vivi, non invecchiati. Perché? Un po’ io li ho protetti rifiutando di inflazionarli in film, show, spettacoli, dicendo tanti no; un po’ perché, lo dico con presunzione, sono maschere della Commedia dell’Arte, i Pantalone, i Brighella di oggi».
Presto tra loro ci sarà anche il protagonista di “Topi”, la serie tv. Che storia è?
«Tempo fa mi è capitato di sentire in tv di un latitante che possedeva qualcosa come duecento milioni di euro ma viveva in un bunker mangiando tonno. Mi ha fatto così ridere che ci ho scritto sopra la storia di una famiglia di latitanti, una specie di Alex Drastico con moglie e figli che vivono nei sotterranei. Saranno sei puntate di trenta minuti l’una, storie comiche, da ridere. A cinquantatré anni il mio mestiere mi piace sempre di più, e la comicità è la sfida per raccontare il nostro presente complesso e incasinato senza retorica, vedendolo magari in modo più chiaro».
Eppure si ride sempre meno. In tv i comici sono spariti, la satira limitata a una o due presenze...
«Se è per questo mi hanno detto che il mio è l’unico libro comico delle migliaia di titoli pubblicati quest’anno. Un segno brutto, noi che veniamo dalla tradizione dei Benni, Serra... L’ironia è necessaria, rovescia pregiudizi, false verità, ti fa vedere un’altra realtà, infonde energia positiva e contrariamente a quello che si crede ti fa trovare la misura delle cose, non ti fa distrarre dalla notizia di un canguro che ha saltato la recinzione su Facebook... Ma come si può perdere tempo in quelle puttanate? Se si ride meno è anche colpa di questi Facebook e Twitter».
E perché?
«I social sono un virus che si è insinuato, anche nell’informazione: si prende sul serio tutto, ogni cazzata. C’è chi twitta per commentare negativamente quello che sta vedendo alla tv: ma allora esci, vai a berti una birra, dico io. E invece no, i social ti inducono a cercare nel mondo più malinconia di quanta nei hai tu. Altro che risate ».

Corriere 4.3.18
La notte delle stelle. Gli Oscar del Mereghetti
A contare le nomination «La forma dell’acqua» non dovrebbe avere rivali
Ma il peso «politico» del movimento #MeToo potrebbe stravolgere tutte le previsioni della vigilia
di Paolo Mereghetti


Mai fidarsi troppo della matematica. A contare le nomination il film favorito alla prossima edizione degli Oscar, la novantesima, dovrebbe essere La forma dell’acqua (ne ha collezionate 13), seguito da Dunkirk (8 nomination) e poi, con 7, Tre manifesti a Ebbing, Missouri . Ma come in certi consigli di amministrazione, le nomination è meglio pesarle che contarle. Così, sono in molti a dire che quelle del film di Martin McDonagh sono molto più pesanti di quelle del film di Guillermo del Toro, per non parlare delle cinque raccolte da Greta Gerwig e dal suo Lady Bird : sul piatto della sua bilancia potrebbe aggiungersi anche il peso politico del movimento #MeToo e travolgere le previsioni (e i valori in campo) come l’hanno scorso era successo con la protesta #SoWhite. Per questo ogni tentativo divinatorio è alquanto azzardato…
Film
I bookmaker danno favorito Tre manifesti a Ebbing, Missouri che accontenterebbe i sostenitori del cinema di genere, i fan del film-col-messaggio e gli antitrumpisti. Avessi io tutti i voti voterei per Il filo nascosto , ma non ne ho nemmeno uno…
Regista
Strana cinquina, dove non hanno trovato posto né Spielberg né il McDonagh dei Tre manifesti . Tutti dicono del Toro, io temo (per le ragioni di cui sopra) la Gerwig, che mi sembra francamente sopravvalutata. Anche se naturalmente voterei per Paul Thomas Anderson, ça va sans dire…
Protagonisti
Qui pare non ci siano dubbi: tutti dicono che Frances McDormand e Gary Oldman vinceranno la due statuette e non vedo perché non essere d’accordo: le loro prove, rispettivamente in Tre manifesti e L ’ora più buia , sono eccezionali (lei è meglio di John Wayne, lui sembra la copia di Churchill) e l’Oscar se lo meritano. Certo Meryl Streep e Daniel Day-Lewis sono bravissimi ma hanno già avuto molti (troppi?) riconoscimenti.
Non protagonisti
Anche qui i giochi sembrano già fatti. Sam Rockwell, il poliziotto razzista ma poi neanche tanto di Tre manifesti , non dovrebbe vedersi sfuggire il premio, così come Allison Janney, la terribile madre di Tonya . Se è difficile cercare un antagonista credibile per l’attore (Willem Dafoe, che concorre per Un sogno chiamato Florida non ha un ruolo così forte) si potrebbe forse tifare, tra le attrici non protagoniste, per Lesley Manville, la remissiva sorella del sarto di Il filo nascosto , ma anche qui mi sembra che l’incisività dell’interpretazione sia tutta a favore di Janney.
Sceneggiature
Ammettiamolo, anche tra le sceneggiature originali il premio non dovrebbe sfuggire a Martin McDonagh per Tre manifesti , il cui unico neo è forse di aver scritto dialoghi più teatrali che cinematografici. Io probabilmente premierei Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani per The Big Sick , ma è perché l’originalità mi affascina. E non credo che i membri dell’Academy la penseranno allo stesso modo. Anche per la sceneggiatura non originale non sembrano esserci dubbi: James Ivory (e non accreditato Luca Guadagnino) ha fatto il lavoro migliore con Chiamami col tuo nome . Incrociamo le dita…
Straniero
Io voterei il film cileno, Una donna fantastica , anche se quest’anno tutti i cinque film in gara sono decisamente notevoli e le previsioni vedono il libanese L’insulto leggermente favorito sugli altri.
Animazione
Sarà l’anno di L oving Vincent , il primo cartoon per adulti in una settore dominato dai film per ragazzi? Le previsioni dicono così, anche se per me Coco è quasi un capolavoro.
Sorprese
Per la prima volta nella storia degli Oscar è stata nominata una donna come miglior direttore della fotografia, Rachel Morrison per Mudbound : mi sa che sarà proprio lei a portarsi a casa la statuetta. E poi spero che tra i documentari vinca Visages, Villages dove Agnès Varda e il fotografo JR girano la Francia alla scoperta delle persone normali. Io tifo per loro!