sabato 3 marzo 2018

Il Fatto 3.3.18
Cronache dal caos da urne: mille nodi, ma zero risposte
di Antonio Padellaro


Idieci lettori di questo diario mi chiedono cosa può succedere il 5 marzo, ma uno in particolare sostiene di saperlo già. E mi manda “i probabili dati delle elezioni che è stato possibile simulare con nuovi algoritmi e software di terza generazione (metodo Wedelmann-Luschke)” (?). Questi: “M5S 26,3. Pd 20,9. Forza Italia 17,17. Lega 16,64. FdI 6,05. LeU 7,6. Seguono formazioni con valori oscillanti tra lo 0,8 e l’1,9”. Poiché sono cifre che non si discostano troppo dagli ultimi sondaggi pubblicati a metà febbraio (anche se non è escluso che, in extremis, il M5S possa toccare e perfino superare la soglia del 30% mentre il Pd potrebbe scendere ancora a vantaggio della lista +Europa di Emma Bonino) proviamo a considerarli sufficientemente credibili (consapevole di espormi alle legittime pernacchie nel caso fossero stravolti dai dati ufficiali: incerti del mestiere). Dopodiché, ecco le possibili conseguenze.
Primo. Con questo demenziale Rosatellum i voti in percentuale sono una cosa, i seggi attribuiti un’altra. Infatti, per avere il risultato complessivo delle elezioni politiche 2018 bisognerà prima stabilire chi ha vinto nei 232 collegi uninominali della Camera e nei 116 del Senato dove, per essere eletti potrebbe teoricamente essere sufficiente un solo voto in più rispetto agli avversari. Poiché i collegi cosiddetti “contendibili” sarebbero 113 (78 alla Camera e 35 al Senato) ecco che anche con un possibile complessivo 40% il cartello del centrodestra potrebbe non ottenere la maggioranza assoluta, se non conquistasse nel contempo circa il 70% dei seggi dell’uninominale. Non impossibile ma complicato.
Secondo. Nel bombardamento di numeri e percentuali che scatterà alle ore 23 di domenica 4 marzo, potremmo trovarci di fronte a due possibili autodichiarati vincitori. Il M5S, come partito di maggioranza relativa. E la coalizione del centrodestra. Senza escludere l’ipotesi di un Pd che, sommandosi ai cespugli del centrosinistra, possa reclamare un posto sul podio.
Terzo. Per definire il quadro delle forze (e delle debolezze) in Parlamento bisognerà attendere la costituzione dei gruppi parlamentari. Per valutare, principalmente, la consistenza degli eletti che aderiranno al gruppo misto, possibile ago della bilancia per ogni maggioranza futura. Cosa faranno, per esempio, i candidati cinquestelle preventivamente espulsi dal Movimento, se risultassero eletti? E quanti saranno? E si può escludere che nella Lega di Matteo Salvini qualcuno (sulla scia di Roberto Maroni) si faccia prendere da improvviso mal di pancia, per dare manforte a una possibile grande coalizione (che rinnegata prima potrebbe spuntare fuori dopo)? E che qualcosa di simile possa accadere nella sinistra guidata da Pietro Grasso (ma non soltanto da lui)? E se a Silvio Berlusconi mancassero un pugno di voti per dare l’assalto a Palazzo Chigi (per interposto Antonio Tajani) siamo certi che non cederebbe al solito vizietto della solita campagna acquisti per rastrellare il solito manipolo di “Responsabili”? E se il Pd finisse davvero intorno a un disastroso 20% (cinque punti sotto la tanto derisa “non vittoria” del 2013 di Pier Luigi Bersani) si può davvero pensare che Matteo Renzi possa restarsene tranquillo e sereno al Nazareno come se niente fosse? E quanto durerà il regolamento di conti interno? E quale esito avrà?
Quarto. In questo possibile (probabile) gran casino, con quale criterio saranno attribuite le presidenze di Camera e Senato? Dice Alessandro Di Battista che sarebbe cosa buona e giusta se una andasse alla maggioranza e l’altra all’opposizione. Ma chi sarà maggioranza? E chi opposizione?
Quinto. Con questi chiari di luna è inutile illudersi. Nella migliore delle ipotesi non avremo un governo prima di un mese. O forse anche due. O forse anche mai nella 18ª legislatura che, nelle previsioni più cupe, potrebbe essere brevissima. In questo fermo immagine resterà comunque al suo posto per gli affari correnti Paolo Gentiloni: non a caso detto “er moviola”.
Basta. Mi scuso per aver ulteriormente confuso le idee ai poveri dieci lettori con troppe domande e poche risposte, ma non ne ho tutte le colpe. Buon voto.

Il Fatto 3.3.18
Cosa può succedere dal 5 marzo: tutti gli scenari possibili
L’elenco - Dal governissimo alle larghe intese, dall’esecutivo di minoranza M5S all’impasse che tiene Gentiloni a Palazzo Chigi
di Marco Palombi


Dire cosa accadrà da lunedì in poi non è ovviamente possibile. Le elezioni sono d’altronde, ha detto il capo dello Stato, “una pagina bianca”. Quel che si può fare fin d’ora, però, è indicare gli scenari possibili che tengano conto del tipo di legge elettorale, dei programmi reali dei singoli partiti e dei trend dei consensi per come li conosciamo dalle ultime settimane. Il giochino del candidato premier, in questo senso, è irrilevante: con un sistema a base proporzionale il governo si costruisce dopo il voto. Non solo: con un sistema proporzionale, in un contesto con almeno tre poli, è quasi impossibile che qualcuno ottenga nelle urne la maggioranza dei seggi nel prossimo Parlamento. Per comodità, in ogni caso, partiremo da questa ipotesi del terzo tipo che, in buona sostanza, è a disposizione del solo centrodestra.
Governo B, Salvini e soci, anche detto “del gatto in autostrada”. Per avere questa opzione si dovrebbe immaginare un (a oggi impensabile) trionfo del centrodestra anche nei collegi del Sud: Raffaele Fitto, nel suo “fuorionda” con Salvini e Meloni, teme anzi il tracollo. Se pure, però, la coalizione di Berlusconi si aggiudicasse il 40% dei voti proporzionali e due terzi abbondanti dei collegi uninominali produrrebbe al massimo un governo la cui durata si misurerebbe in mesi. La distanza tra i punti qualificanti dei vari partiti è davvero enorme e, per capirci, basti ricordare il primo governo Berlusconi, quello del 1994: nato da un’alleanza a geometria variabile (Forza Italia con la Lega al Nord e con Alleanza Nazionale al Sud) resse pochi mesi finendo per cadere sul no della Lega alla riforma delle pensioni e su altri dissidi interni. Istruttivo anche il seguito: Berlusconi indicò il suo ministro Dini come premier di un governo di larghe intese (FI alla fine decise di astenersi); la riforma delle pensioni poi la fece Dini.
Il governissimo ovvero “tutti dentro”. Ci si riferisce al “governo del presidente” di cui ha parlato per primo Massimo D’Alema e su una cui variante è inciampato ultimamente anche Pietro Grasso (LeU è disponibile a un esecutivo “di scopo” per fare la legge elettorale, che peraltro non è materia del governo, “se ce lo chiede il capo dello Stato”). Per far nascere un dicastero di questo genere serve una maggioranza amplissima, in genere raccolta attorno a un programma minimo che riporti il Paese al voto entro pochi mesi: come si sa, però, non c’è niente di più duraturo del provvisorio e le maggioranze del presidente fanno presto a diventare politiche.
Larghe intese vale a dire “il ritorno di Renzusconi”. È il progetto attorno a cui è nata questa legge elettorale, il Rosatellum, progetto messo però in crisi dal tracollo nei sondaggi del Partito democratico. Si tratterebbe di formare una maggioranza “moderata”, “europeista”, “responsabile” per “non lasciare il Paese nell’emergenza”, onorare “i nostri impegni coi partner Ue” e ovviamente “continuare il percorso di riforme”. Per fare questo, però, c’è bisogno che i due partiti perno – cioè il Pd e Forza Italia – ottengano buoni risultati alle urne e che lo stesso facciano le liste di contorno (tipo Noi con l’Italia – cioè Fitto, Cesa e soci – che però non pare destinata a superare la soglia di sbarramento del 3%). Un modello di coalizione che potrebbe essere alimentato, nel tempo, anche da transfughi dei partiti che ne resteranno fuori: attenzionati sono gli eventuali eletti al Sud di Salvini e i cosiddetti “maroniani” oltre ovviamente ai nuovi eletti 5Stelle (il Movimento, peraltro, ha già “cacciato” una quindicina di candidati, alcuni dei quali sicuramente eletti).
L’alleanza populista, cioè il governo M5S, Lega, FdI. Anche questa è un’ipotesi del terzo tipo anche se, a stare alle intenzioni di voto di questi mesi, con più chance numeriche dell’eventuale Renzusconi. Questo tipo di governo è l’incubo di un gran pezzo dell’establishment italiano, eppure tanto le liste dei 5Stelle che i ministri presentati da Luigi Di Maio spingono il Movimento più in direzione di un asse con la sinistra moderata che verso un’intesa, pure di massima, con partiti euroscettici come la Lega. Non è un caso che molti – dentro LeU e persino dentro al Pd (sponda Michele Emiliano) – parlino di appoggio a un governo dei 5Stelle in opposizione alla destra e al ritorno del Caimano.
Il governo Di Maio di minoranza, ovvero “Giggino a bagnomaria”. Con questa legge, come forse si sarà capito, il Movimento 5 Stelle non ha speranza di ottenere la maggioranza dei seggi, anche se facesse “il botto”: avrà comunque bisogno di trovare altri voti in Parlamento. D’altra parte se i grillini saranno abbondantemente sopra il 30% le altre coalizioni ne saranno indebolite e Luigi Di Maio potrebbe trovarsi a ricevere un incarico esplorativo da Sergio Mattarella. Rimanendo fedele ai principi enunciati (nessuna trattativa sulle poltrone, ma un programma di pochi punti da sottoporre agli altri gruppi), il candidato premier dei 5Stelle potrebbe dar vita a un esecutivo di minoranza con l’appoggio esterno di qualcuno (più probabile, come detto, che il soccorso arrivi da sinistra): anche lui durerebbe “come un gatto in autostrada”, ma nel frattempo i grillini perderebbero la verginità politica, che a oggi è il loro principale atout.
Gentiloni ovvero “la stabilità del coma”. È uno scenario non improbabile quello di una completa impasse in cui il nuovo Parlamento non riesce a formare alcun governo: andasse così resterebbero al suo posto Paolo Gentiloni e soci, in carica per l’ordinaria amministrazione, mentre le Camere potrebbero tentare di modificare la legge elettorale prima di riconvocare le elezioni. Vale anche per il lentissimo passaggio del “moviola” quanto detto per il governissimo: si inizia per stare qualche mese e poi si vede, tenendo presente che – come da nota citazione di Victor Hugo – “c’è gente che pagherebbe per vendersi”.

Il Fatto 3.3.18
Quando Emma a Strasburgo era alleata con Le Pen e la destra
+Europa - La lista di Bonino (e Tabacci) sarà la sorpresa delle urne secondo molti analisti
Quando Emma a Strasburgo era alleata con Le Pen e la destra
di Tommaso Rodano


La camaleontica carriera di Emma Bonino è stata ampiamente documentata durante questa campagna elettorale. Undici legislature dal 1976: 8 in Italia e 3 in Europa. Innumerevoli incarichi di governo, alleanze variabili (da Berlusconi a Prodi) e soluzioni ardite: ora per saltare la raccolta firme si è appoggiata all’ex Dc Bruno Tabacci. C’è però un episodio rimasto fuori dai ritratti politici. Nel 1999 nel Parlamento di Strasburgo Bonino e i suoi hanno seduto a fianco dei 5 eletti del Front National di Le Pen. Non la “moderata” Marine, ma l’assai più radicale (non in senso boniniano) papà Jean-Marie. La madrina di +Europa con gli euroscettici post fascisti. La collaborazione col Front National nasceva da un’esigenza tecnica: riuscire a formare un gruppo parlamentare autonomo. Il “Gruppo tecnico dei deputati indipendenti” in cui confluirono i 7 eletti della Lista Bonino (tra cui, oltre Emma, il promotore di +Europa Benedetto Della Vedova) ha ospitato anche 3 eurodeputati della Lega Nord e uno del Msi-Fiamma Tricolore. Dal Belgio, inoltre, vennero a dare manforte due parlamentari del Vlaams Blok, il Blocco Fiammingo, un movimento di estrema destra sciolto pochi anni dopo (nel 2004) a causa di alcune condanne per violazione della legge sul razzismo e per xenofobia. Il “gruppo tecnico” – ribattezzato dai giornali “Bonino-Le Pen” è stato sciolto dopo pochi mesi perché illegittimo (non c’era “affinità politica”), primo e unico caso nella storia del Parlamento europeo. L’assemblea era presieduta da Giorgio Napolitano.

Il manifesto 3.3.18
Ma senza centrosinistra la Toscana rossa rischia di ritirarsi nella fortezza Firenze
Democrack/ Le amministrative di primavera. I malumori già circolano: «Se non cambiamo strategia rischiamo di perdere anche Pisa, Siena e Massa»
di Daniela Preziosi


Comunque vada domenica 4 marzo, Renzi non farà un passo indietro anzi resterà almeno fino a scadenza naturale del suo mandato: «Resterò segretario fino al 2021, sono le primarie a decidere il segretario del Pd», ha detto il segretario del Pd ieri mattina a Omnibus (La7). Nelle ore della vigilia, e nella giornata della chiusura della campagna elettorale, dal Pd non vola una mosca a commento delle dichiarazioni del segretario. Ma l’avviso ai naviganti dem è chiaro: sistemarsi ai blocchi per «la corsa alla dichiarazione del 5 marzo» – la definizione è di un dirigente Pd – è tempo perso.
AL NAZARENO l’asticella oltre la quale si potrebbe persino parlare di «successo» è il 25 per cento, ovvero la «quota Bersani 2013». Tanto più dopo una scissione.
In ogni caso, qualsiasi risultato avrà il Pd, i numeri degli organismi interni sono tutti a schiacciante maggioranza a favore di Renzi. E così sarà anche nei futuri gruppi parlamentari grazie alle liste ’ripulite’ (quasi del tutto) dai non allineati. Anche se il risultato del 4 marzo dovesse essere negativo come alcuni di quelli che si leggono nei sondaggi degli ultimi giorni e che per legge non possono essere riferiti. Anzi a maggior ragione se il risultato dovesse esserlo.
RENZI ANNUNCIA quindi che non si muoverà. Eppure qualcosa dovrà cambiare. È anche presto. È quello di cui si ragionava ieri proprio nella Firenze dove il segretario ha concluso la sua campagna elettorale. Perché in primavera, e cioè domani, si celebrerà una nuova tornata di amministrative. Ottocento comuni medio-piccoli, sulla carta una tornata ’minore’. Ma neanche tanto: si vota in un capoluogo di regione, Ancona, e in diciannove capoluoghi di provincia. Fra cui però tre città toscane: Massa, Pisa e Siena. Nel Pd toscano è già allarme rosso. La sequenza delle città perse nella regione un tempo monocolore sono tante, un elenco sconfortante: a Livorno e Carrara oggi governano i 5 stelle, a Arezzo, Grosseto e Pistoia la destra.
SE IL PD NON SCEGLIERÀ la strategia delle alleanze anche le prossime tre città al voto sarebbero a rischio. «Significherebbe che la Toscana rossa si ritira nella roccaforte di Firenze», spiega un dirigente locale, «e che il Pd tosco-emiliano, l’ultima certezza del partito di Renzi, resterebbe esclusivamente emiliano». Un’altra sconfitta ’storica’ la cui responsabilità ricadrebbe, ancora una volta, sulle spalle di Renzi. E dopo un eventuale ’uno-due’ di questa entità (débâcle alle politiche e poi alle amministrative in sequenza rapida), sarà possibile ripetere ancora una volta «resterò segretario fino al 2021»?
IL RAGIONAMENTO CIRCOLA fra i dirigenti locali, e non solo della minoranza. Ma è simile a quello del presidente della Toscana Enrico Rossi, uscito dal Pd prima dell’ultimo congresso, a cui era anche candidato, e fondatore di Mdp. La regione tornerà al voto nel 2020. E anche qui varrà lo stesso discorso delle amministrative di primavera. «Non abbiamo mai perso un numero così alto di città qui da noi. Il genio che doveva portarci alla vittoria invece ha prodotto un sequenza di sconfitte impressionanti», si sfoga. «Ora però bisogna cambiare marcia. Noi di Leu subito dopo il voto dobbiamo lanciare il partito della sinistra per dare un approdo ai delusi del Pd e alla sinistra che sta a casa. E poi aprire un dialogo per costruire un’alleanza sociale e democratica e riunire le forze del centrosinistra». Per farlo però «ci vuole un Pd che fa apertamente la scelta di allearsi con noi».
BASTEREBBE per fermare l’emorragia di voti? «No. Tutto il centrosinistra deve riaprire il dialogo con la società toscana, i suoi corpi intermedi. Il Pd da cui mi sono allontanato si è avvitato nel governo e nel comando, e tutto questo ormai non funziona più neanche in una regione come la Toscana. Se non faremo così siamo destinati a perdere, anche qui».

il manifesto 3.3.18
Grasso nella sua Palermo punta «sull’orgoglio dei delusi dal Pd»
di Alfredo Marsala


PALERMO Grasso chiude la campagna elettorale di LeU a Palermo in una piazza che non gli regala il bagno di folla che ci si aspettava nella città natale dell’ex procuratore nazionale antimafia. Tutt’altro. La delusione per la risposta della città c’è stata, anche se gli organizzatori alla fine, cercando di tenere su il morale, parlano di una piazza con oltre un migliaio di persone. Il voto delle urne, ovvio è un’altra storia.
Si punta all’orgoglio di un elettorato di sinistra in cerca di approdo perché rimasto nell’ombra e sui delusi dal Pd di Renzi che, in Sicilia ma anche in altre regioni, ha fatto piazza pulita del dissenso interno confezionando le candidature al Nazareno.
Rimangono i vuoti di una piazza del teatro Massimo riempita invece alle regionali di novembre da Beppe Grillo, che poi però perse inesorabilmente le elezioni regionali, con l’isola passata alla restaurazione del centrodestra di Gianfranco Miccichè, degli ex cuffariani e di Raffaele Lombardo. La passeggiata di Grasso, lungo l’asse piazza Politeama- piazza Verdi, prima di raggiungere piazza del comizio, si è svolta senza alcuna emozione e qualche selfie. Una chiusura in sordina che Grasso ha tentato di smorzare: «Ho incontrato una persona che mi ha detto: ‘Io sono uno che è uscito dal bosco’. Ecco, questo ci dà la forza di andare avanti».
Dal palco accanto al Teatro Massimo, dove intervengono anche Anna Falcone, Nicola Fratoianni, Roberto Speranza e Rossella Muroni, Grasso ripete il refrain della sua campagna elettorale: «Per impedire un governo Renzi-Berlusconi e non consegnare il Paese alla destra o al M5S l’unico voto utile è quello per Liberi e Uguali, una forza politica in grado di costruire la sinistra e il centrosinistra in Italia». Perché «noi siamo un argine alla destra».
Aggiungendo che se il 5 marzo «non ci sarà una maggioranza siamo pronti a sederci a un tavolo, in Parlamento, per la riforma della legge elettorale e tornare a votare: solo a questo siamo disponibili». E promette che all’indomani «saremo tutti impegnati a costruire il nuovo partito».
I 5stelle? «Non volevano alleanze con nessuno, ora le vogliono con tutti ma alle loro condizioni: non è così che si fanno le alleanze, noi siamo fermi e non ci alleeremo mai con la destra perché ancorati ai principi della sinistra», sbotta Grasso.
E ancora: «Il M5S ha temi incompatibili con LeU, penso all’Europa, ai diritti civili e altro». Insomma, niente inciuci con Berlusconi.
Per il resto, invece qualche spiraglio.
Anche se a Di Maio rimprovera la fuga in avanti: «I governi devono essere fatti dopo che il presidente della Repubblica dà l’incarico al presidente del Consiglio, farlo prima è solo una mossa propagandistica: bisogna aspettare i risultati». Lui, «gioca al fantagoverno come al fantacalcio», mentre, osserva Grasso, «Berlusconi continua nelle sue menzogne come fa da 25 anni». «Bugie e propaganda su cose irrealizzabili» che per Grasso «hanno fatto cadere nel nulla i programmi elettorali, anche le nostre proposte non hanno trovato spazio nella comunicazione, è questo è un grave danno per i cittadini».
«Ho servito il Paese senza mai abdicare e smettere di cercare la verità – ha detto dal palco il leader di LeU – L’ho fatto anche quando era difficile, anche quando sembra che fosse finito tutto, ho ancora nella mente le parole di Caponnetto», che pronunciò dopo la strage di via D’Amelio, dove furono assassinati Paolo Borsellino e gli agenti di polizia della sua scorta. Grasso quindi ha ribadito gli impegni assunti in campagna elettorale: «Era così importante levare l’art.18? Noi lo rimetteremo. Ci è chiaro come creare lavoro, un grande piano verde, contiamo nella riconversione ecologica della grande industria senza ricatti».
E ha assicurato «più asili nido», perché «non è possibile che 25 mila mamme abbiano dovuto abbandonare il lavoro», la cancellazione della ‘buona scuola’ e l’abolizione della le tasse universitarie.
«La legge sullo Ius soli – ha garantito Grasso – sarà la prima battaglia che affronteremo nella prossima legislatura». Quindi la stoccata a Renzi. «Non lascia se perde le elezioni? È un problema del Pd, non so se sia una promessa o una minaccia».

La Stampa 3.3.18
Pietro Grasso
“Noi unico voto utile”
L’ultimo appello è ai delusi di sinistra
di Andrea Carugati


«L’unico voto utile è per Liberi e Uguali, per ricostruire la sinistra e il centrosinistra in Italia». Pietro Grasso chiude la campagna elettorale in piazza nella sua Palermo. Si rivolge ai giovani, agli indecisi, ai delusi dal Pd: «Ai giovani dico votate seguendo i vostri ideali e i vostri valori. I miei li conoscete». Per la prima volta prende le distanze in modo netto dal M5S: «Hanno dei temi assolutamente incompatibili con i nostri: immigrazione, Europa, euro, diritti civili. Non si possono trovare punti di contatto». Il presidente del Senato spiega che il voto a LeU è l’unica strada «per impedire un governo Renzi-Berlusconi e per non consegnare il Paese alla destra o ai 5 Stelle». E ironizza su Di Maio: «Gioca con i nomi dei ministri come se fosse al fantacalcio». Prima di lui sul palco alcuni big come Roberto Speranza, Nicola Fratoianni, Rossella Muroni. Grasso ripete i cavalli di battaglia: sì all’articolo 18, no alla Buona Scuola e alla legge Fornero sulle pensioni, Università gratis e 150 mila nuovi posti nido. «Lo Ius soli sarà la nostra prima battaglia in Parlamento». E assicura: «Siamo solo all’inizio, dopo il 5 marzo costruiremo un grande partito della sinistra e della Costituzione». Mostra anche la sua fatica per questo mese di comizi full time: «Ho la coscienza a posto, la stanchezza sarà ripagata dai risultati».

La Stampa 3.3.18
Bersani
“Matteo ha rimesso le macchioline all’eterno giaguaro Berlusconi”
L’ex segretario Pd: “Dopo il voto mi auguro una riflessione radicale tra i dem
C’è un tentativo di nascondere Renzi spingendo Gentiloni, ma non basta”
intervista di Andrea Carugati


«La legislatura si è chiusa esattamente come temevo quando nel 2013 rifiutai di guidare un governo con Berlusconi: di fronte al messaggio di disagio degli elettori, il sistema politico ha cercato di chiudere la valvola della pentola a pressione, il M5S si è chiuso a monade e ora siamo qui: i problemi di 5 anni fa si sono aggravati, e si è innestata sul malessere anche una destra regressiva». Pier Luigi Bersani, ex leader Pd e ora tra i fondatori di Liberi e uguali, ha un giudizio durissimo sui governi del suo ex partito: «Invece di dare risposte riformiste e radicali alla crisi, la legislatura ha preso la piega del Nazareno: il risultato è stato rimettere le macchioline al giaguaro Berlusconi».
Non le pare di essere troppo severo? Non salva nulla?
«Ci sono state alcune singole cose positive, come le unioni civili, ma il messaggio di fondo è che il centrosinistra ha segato il ramo su cui era seduto. L’obiettivo grosso, accorciare le diseguaglianze, è stato mancato. I problemi si sono lasciati alla destra e al M5S, mentre il Pd si beava in un mondo dell’irrealtà: invece di proteggere i ceti più deboli si è preferito vendere successi».
E ora? Se le forze del centrosinistra perdessero le elezioni, e fossero insieme all’opposizione, ci sono margini per una ricostruzione?
«Noi siamo già partiti, le possibilità di ricostruire dipendono dal risultato che avrà LeU: se sarà incoraggiante ci consentirà di diventare una forza politica vera, e di innescare un meccanismo in un campo più ampio. Ma l’altra condizione è che ci sia una riflessione profonda e radicale nel Pd. Il problema dopo il 4 marzo non è fare un governo, meno che mai con la destra, ma capire qual è la temperatura e il malessere del Paese: LeU è nata per creare una piattaforma e un progetto del tutto nuovi, una sinistra capace di “consegnare la merce” alle persone, cioè dare risposte concrete a chi soffre».
Veltroni ha detto mai governi politici con Berlusconi e ha esortato il Pd a tornare tra i più deboli. Concorda?
«A Walter come ad altri dico: non servono piccoli movimenti del gruppo dirigente, ma qualcosa di molto netto. Di 45 padri fondatori del Pd ne sono rimasti solo 19, c’è stata una scissione nel profondo».
Basterebbero le dimissioni di Renzi per farvi ripartire insieme?
«Per me i nomi sono l’ultimo tra i temi. Se arriva un altro che ripete ‘fin qui si è fatto bene ma si può migliorare’, può anche essere il Padreterno ma non funziona».
Prodi, Letta e anche Veltroni puntano su Gentiloni, aggirando il fatto che Renzi è il leader del Pd.
«C’è un evidente tentativo di nasconderlo. Ma questi sono solo giochi sulle increspature. Sotto c’è un’onda molto più profonda che nessuno di loro sembra vedere».
Gentiloni ha detto che il voto per voi equivale a una ripicca che rischia di portare a una svolta populista al governo.
«Siamo fuori dal mondo, con la storia del voto utile sono arrivati alla sfacciataggine. Gentiloni ha messo 8 voti di fiducia per una legge elettorale fatta con l’avallo della Lega e che la avvantaggia moltissimo. Il sistema è proporzionale e lo travestono da maggioritario. E poi sventolano il babau del populismo per tentare di ricattare gli elettori perché non riescono a convincerli».
Lei descrive un’Italia invasa da sentimenti di frustrazione e protesta. Crede che Leu abbia intercettato questa domanda? Dagli ultimi sondaggi pubblicati non sembra.
«Quei sondaggi parlano di circa 2 milioni di voti, mica bruscolini. Siamo giovani, per far conoscere un simbolo ci vuole tempo, ma tra la gente vedo una reazione positiva, migliore di quella che immaginavo alcuni mesi fa».
Rischiate di recuperare un po’ di voto ex Ds in fuga, ma non sfondate tra i “forgotten men”.
«Prevalentemente c’è un recupero di elettori che si erano dispersi, ma a macchia di leopardo vedo delle risposte positive anche tra i giovani. Poi non è un mistero che c’è una egemonia della destra sulla massa del disagio. Lo dico da anni, la famosa mucca nel corridoio che nel Pd nessuno ha voluto vedere».

Repubblica 3.3.18
Liberi e Uguali
L’ultimo appello dei leader di Leu ai delusi di sinistra Grasso: “Con noi tornate a casa”
Il generale Pappalardo tenta di “arrestare” la presidente Boldrini al comizio di chiusura Lei: “ Non mi fate paura”
di Giovanna Casadio


Roma «Ho appena incontrato un elettore che mi ha detto: sono uscito dal bosco ». La metafora è bersaniana, sta a significare che Liberi e uguali può riuscire nella sua mission: convincere i delusi della sinistra, e della politica, a tornare a votare. La usa Pietro Grasso, poco prima di salire sul palco di Palermo per il comizio finale. Ma la completa: uscire dal bosco e a tornare a casa, nella sinistra di Leu. Questa è la scommessa che, nel complicato ultimo miglio della campagna elettorale, la nuova sinistra di ex dem, vendoliani e di Pippo Civati ripete come un mantra: riconquistare quelli che il Pd non vogliono più votarlo e si sarebbero arroccati nell’astensione.
L’impresa è difficile. Ai leader Grasso, Pierluigi Bersani, Roberto Speranza, Massimo D’Alema, Nicola Fratoianni, Laura Boldrini e Civati, non sfugge affatto. Il rush finale di Leu è stato un percorso minato, perché la nuova sinistra è stretta tra il pressing del Pd per il voto utile e i 5Stelle che raccolgono e interpretano la rabbia dell’elettorato. In più ha la spina nel fianco sinistro di Potere al popolo. A tal punto ne sono consapevoli che lo stesso Bersani, che ha chiuso la campagna elettorale ieri a Bologna con Vasco Errani, ipotizza: « Avremo un risultato a macchia di leopardo in giro per il paese, ma ci abbiamo preso » . Nei collegi, infatti, la campagna elettorale vecchio stile, porta a porta, con la mobilitazione dei militanti, si prevede incasserà consensi.
Molti sono stati i malumori in Leu, anche per il fraintendimento provocato talvolta dalle parole di Grasso, ex procuratore antimafia e presidente del Senato, incoronato capo di Leu proprio perché uomo delle istituzioni ed esempio di patriottismo civile. Però un “non politico”. Sulle alleanze, ad esempio, Grasso in tv sembrava avesse aperto a un governo di scopo con Renzi e Berlusconi. Falso. Nel comizio finale il leader è intransigente: «Mai, mai con la destra, mai con Berlusconi ». E per spiegare meglio il concetto: « Se non c’è una maggioranza noi siamo pronti a sederci a un tavolo parlamentare per fare una legge elettorale che possa far tornare al voto gli italiani. Solo questo siamo disponibili a fare».
Chiarezza anche sui 5Stelle, a cui Grasso e Bersani si erano rivolti, ma Boldrini aveva chiuso. Altra fibrillazione. Nel comizio conclusivo, Grasso sgombra il campo: « Il M5S ha temi assolutamente incompatibili con Leu come la posizione su immigrazione, euro, Europa. Quindi non si possono trovare con loro dei punti di contatto». Attacca i grillini che « giocano al fantagoverno » . E Renzi? Gelo: « Renzi ha consapevolmente portato il Pd lontano dalla sinistra. Non è un caso che Verdini abbia dichiarato che voterà per lui e rievocato il patto del Nazareno » . Da Bologna anche Bersani attacca: «Cosa occorre per ricostruire il centrosinistra? Può venire anche Che Guevara a propormi il Jobs Act o la Buona scuola ma per noi non c’è nulla da discutere, devono cambiare le politiche » . E sul voto utile: «È il babau inventato dal Pd ma non funziona».
Boldrini chiude a Milano con Francesco Laforgia. Al comizio irrompe il generale Antonio Pappalardo ( Liberazione Italia), con l’intenzione di “arrestare” la presidente della Camera, come ha già cercato di fare con altri politici. Lei gli chiede di non essere interrotta. E va avanti imperterrita a parlare di futuro: «Non ho paura. Il voto utile è a Leu per costruire un nuovo partito della sinistra». Poi, quando l’ex generale viene allontanato, aggiunge: « Non ha ancora capito che cos’è la democrazia. Non ha capito che qui non c’è trippa per gatti».

il manifesto 3.3.18
Potere al popolo: indietro non si torna
Sinistra. La lista chiude a Napoli, dove Renzi ha dato forfait e Berlusconi torna oggi per sfidare il silenzio elettorale. Con l'occhio alla soglia di sbarramento ma già un programma per il futuro. «Abbiamo messo in connessione le lotte dei territori|, dice Viola Carofalo
di Adriana Pollice


NAPOLI Sul palco montato in piazza Dante, Viola Carofalo sale per dire che il 4 marzo, comunque andrà, sarà solo una tappa: «Indietro non si torna, la strada è lunga, la gente che abbiamo incontrato ci ha detto che di Potere al popolo c’è bisogno, nessun passo indietro». La lista nata dall’Ex Opg Je so’ pazzo chiude la campagna elettorale a Napoli. La line up della serata è una dichiarazioni d’intenti politica.
APRONO LE DANZE i grandi vecchi del combat folk, ’E Zezi, il gruppo operaio di Pomigliano d’Arco nato dalle lotte in fabbrica. Poi la satira della giornalista Francesca Fornario quindi musica con Francesco Di Bella, ex frontman dei 24 Grana, re della scena Indie impastata nel «napulegno». C’è Sabina Guzzanti e gli attivisti di Pap sperano che faccia l’imitazione di Viola. Gran finale con Franco Ricciardi. L’artista che ha portato a sintesi l’anima neomelodica e la tradizione rock partenopea, si schiera a modo suo: «Io sto col popolo». Alle 21 la piazza comincia a riempirsi, tra il pubblico le bandiere della Palestina e una folta comunità di rifugiati e richiedenti asilo con la spilla di Pap. Sono tra gli utenti dell’ambulatorio popolare e dello sportello legale. Si fermano per la foto ricordo con il logo di Potere al popolo.
NEL 2013 IL PDL SCELSE di chiudere la campagna elettorale a Napoli: Silvio Berlusconi era atteso alla Mostra d’Oltremare gremita di giornalisti e sostenitori, recapitati in pullman formato gita organizzata. Esploso lo scandalo «cene eleganti», c’erano pesino le telecamere internazionali dalla Germania, Svizzera, Norvegia, Francia e Giappone, l’intervento saltò «causa uveite», sostituito da un collegamento video. Un mese prima Nicola Cosentino era scappato con le liste elettorali campane, da cui era stato depennato, inseguito da Nitto Palma e Denis Verdini.
Anche il Pd aveva chiuso la campagna elettorale a Napoli con l’allora segretario Pierluigi Bersani in una semideserta piazza del Plebiscito. Cinque anni dopo Berlusconi ha cancellato lo show in teatro, la scorsa settimana, sostituito da una pizza oggi sul lungomare. L’attuale segretario dem, Matteo Renzi, aveva deciso di sfidare il nemico in casa presentandosi a Pomigliano, città di Luigi Di Maio, ma il rischio flop lo ha tenuto lontano.
POTERE AL POPOLO HA SCELTO la piazza: «È stata tutta una pazzia – racconta Viola – ma chiudere tra la gente era la conclusione più logica. Siamo andati porta a porta, distribuito volantini, siamo stati nelle strade, abbiamo fatto politica come si faceva una volta, resta il fatto che averci emarginato in tv ci penalizzerà. Chi già ci conosce ci apprezza, il problema è raggiungere chi vive in zone dove non arriviamo con il nostro impegno. Quelle rare volte in cui sono stata invitata nei salotti televisivi ho scoperto che i politici di centrodestra e centrosinistra, quando non sono inquadrati, hanno una genuina simpatia gli uni per gli altri. Io invece li detesto, sono completamente scollegati dalla realtà».
LA CAMPAGNA ELETTORALE è però servita: «Il precipitato più importante è stato aver federato le lotte, aver messo in connessione i territori – conclude Viola -. Al Sud sappiamo cosa succede a Roma o al Nord perché lo raccontano i mezzi d’informazione, al Centro Nord invece non conoscono il Sud. In una delle ultime trasmissioni in cui sono stata mi è scappato un uagliu’, i compagni mi hanno subito scritto ’abbiamo appena perso uno 0,5% sulla media nazionale’».
PER PAP IL METODO è importante: «Siamo stati invitati a molti dibattiti con altri partiti – racconta Chiara Capretti -, di solito i nostri competitor volevano intervenire per primi e poi andare via, non facevano neppure finta di ascoltare cosa aveva da dire chi aveva organizzato l’incontro. Per noi intervenire per ultimi è un’opportunità per ascoltare e imparare. Giriamo nei quartieri, tra i lavoratori, e ci domandiamo dove siano i politici di professione. Poi scopri che nel centro storico, a una settimana dal voto, aprono sedi elettorali che poi spariranno».
Potere al popolo non ha aperto una sede elettorale ma occupato una chiesa del Cinquecento abbandonata per dare ospitalità ai senza tetto: «Non abbandoneremo mai le nostre pratiche, neppure se dovessimo entrare in parlamento. In quella chiesa adesso vivono una ventina di persone che autogestiscono lo spazio. Una donna ucraina era finita per strada perché aveva perso il lavoro, l’abbiamo aiutata e adesso vive con una connazionale. A un ragazzo tossicodipendente abbiamo trovato un posto in comunità; un altro ragazzo e il suo compagno adesso hanno una casa. La nostra idea non è creare dei megadormitori dove fare assistenza ma aiutare chi ha bisogno a emanciparsi».

Il Fatto 3.3.18
Non è un delitto andare a votare scheda bianca
di Giovanni Valentini


“C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino, e consiste nel togliergli la voglia di votare”
(Robert Savatier, Parigi 1923-Boulogne-Billancourt 2012)
Abbiamo dovuto assistere in questa campagna elettorale, certamente la più brutta nella storia della Repubblica, alla sarabanda delle promesse mirabolanti; al festival delle candidature improponibili o impresentabili; alla presentazione di coalizioni fittizie o posticce. E da ultimo, con tutto il rispetto che si deve alla persona e al ruolo istituzionale, abbiamo dovuto sentire anche l’anatema del presidente della Corte costituzionale, il quale ha sentenziato nella sua relazione annuale che “l’astensione è eticamente inaccettabile” e che “andare a votare è un dovere morale”. Una dichiarazione tanto più discutibile perché il voto è un diritto e come tale può essere esercitato o meno.
Se non vogliamo parlare di astensione in senso stretto, cioè di assenza o di rifiuto, parliamo allora di scheda bianca. Vale a dire una forma di partecipazione al voto che presuppone l’impegno a uscire di casa per recarsi al seggio, ritirare la scheda e lasciarla vuota, o meglio ancora annullarla con una croce per evitare brogli o manipolazioni. Una scelta consapevole e volontaria, quindi, che può servire a esprimere disagio e protesta in termini di responsabilità.
C’è infatti una differenza sostanziale fra l’astensione e la scheda bianca. L’astensione, anche questa lecita, è una rinuncia a votare; la scheda bianca, invece, è un’esplicita manifestazione di dissenso, in un preciso momento politico e rispetto a un determinato ceto politico. Basti pensare a che cosa accadrebbe se le schede bianche, anziché essere diluite nel calderone delle astensioni ai fini del calcolo delle percentuali di voto, fossero conteggiate a parte: ove raggiungessero il 51%, sarebbe una chiara delegittimazione del nuovo Parlamento.
Ha un bel dire Matteo Renzi che “chi non vota per il Pd di fatto aiuta solo il M5S”, come ha dichiarato con l’abituale sicumera in un’intervista al Messaggero che rischia di trasformarsi per lui in un altro boomerang. Farebbe meglio piuttosto a interrogarsi su se stesso, sui propri errori di strategia e di comunicazione, sulle candidature-civetta che ha proposto o imposto, riuscendo a deludere perfino chi aveva investito sulla sua “scossa” riformatrice e coltivato iniziali simpatie nei suoi confronti. La scheda bianca può essere, dunque, anche un voto contro l’autolesionismo di quella “sinistra masochista”, come la battezzò Massimo D’Alema, una sinistra storicamente incline a litigare e a dividersi, incapace di superare gli steccati ideologici e di elaborare una moderna cultura di governo.
Ma al di là del PdR, il partito di Renzi, per il resto l’astensione consapevole è il rigetto di una politica autoreferenziale, cinica e utilitaristica, avara di slanci e di passioni. Una politica che, da una parte, propugna l’ideologia del “conflitto d’interessi” incarnato a vita da Silvio Berlusconi e, dall’altra, vagheggia un cambio di sistema all’insegna dell’impreparazione, dell’improvvisazione e del velleitarismo, come dimostra il flop della giunta Raggi a Roma, insieme alla rimborsopoli grillina e al tourbillon delle candidature pentastellate.
La scheda bianca infine non è irreversibile, al contrario della delega in bianco che un’infausta legge elettorale ci costringe ad affidare alle “coalizioni invisibili”, destinate verosimilmente a formarsi dopo il voto. E perciò può essere anche una sollecitazione o uno stimolo a cambiarla, per tornare quanto prima alle urne.

Il Fatto 3.3.18
Alle urne con quello che passa il convento
di Gianfranco Pasquino


Quello che ha passato il convento, anzi le conventicole partitiche e movimentiste, nella campagna elettorale, non è stato granché e, tuttavia, dal punto di vista delle offerte di programmi e di persone, è stato abbastanza variegato, più di un passato che molti hanno dimenticato o non vissuto. Abbiamo rivisto un po’ di usato, nient’affatto sicuro, ma ripetitivo e costantemente mendace (Berlusconi); abbiamo ascoltato molte promesse che non potranno essere mantenute, talvolta condite con persistente, incomprimibile arroganza; abbiamo notato pochissimo nuovo che avanza con passo di gambero (il Movimento 5 Stelle); abbiamo sentito una sgradevole insistita richiesta di voto utile (Renzi).
Difficile dire se tutto questo è risultato attraente per l’elettorato. Neppure il mal posto paragone con le elezioni del 1948 che si svolsero in condizioni irripetibili: in piena Guerra fredda e con una vera competizione bipolare per il governo del Paese, può essere mobilitante.
Gli italiani che conosciamo sanno che il loro voto è sempre utile sia quando premia un partito o un candidato sia quando intende punire candidati e partiti (e molti la punizione se la meritano, eccome). Sanno che il loro voto serve anche a esprimere chi sono, con quali amici si rapportano, che società e che politica desidererebbero. Sono consapevoli che non otterranno tutto questo, ma saranno contenti di averci provato, di avere rinsaldato i loro legami con chi ha votato in maniera simile, di essersi riconquistato il diritto di criticare che cosa i politici, i parlamentari, i partiti, i governi faranno, non faranno, faranno male. Gli elettori italiani sanno che non hanno praticamente nessuna influenza diretta sulla formazione del governo, e se ne dolgono. Non servirà a nulla ascoltare e/o leggere le parole di un pur autorevole professore, anche emerito, di scienza politica, che spiega loro che nelle democrazie parlamentari i governi si fanno, si disfanno, si rifanno in Parlamento.
Gli elettori che andranno a votare vorrebbero che almeno fosse detto loro con chiarezza e senza sicumera per quali ragioni nascono quei governi e come formulano il programma della coalizione che dovrà impegnarsi a sostenerlo e ad attuarlo. Certo, quel professore di scienza politica continuerà imperterrito a sostenere, perché lo ha letto nella Costituzione (il cui impianto lui ha contribuito a salvare con un rotondissimo No al referendum), che il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questi, i ministri. Tuttavia, i partiti non fanno nessuno sbrego alla Costituzione quando mettono “in campo” i nomi dei loro candidati alla carica sia di capo del governo sia di ministro. È un’indicazione aggiuntiva che può servire all’elettorato a farsi un’idea di che cosa ci si può aspettare da quel partito poiché da tempo sappiamo che le idee camminano sulle gambe degli uomini e delle donne (abbiano ricevuto o no endorsement più o meno autorevoli). Un po’ di chiarezza su chi attuerà concretamente un programma concordato fra più protagonisti e su quali saranno le priorità è certamente utile.
Non viviamo nel migliore dei mondi, ma neanche nel peggiore. Quando avremo contato il numero dei seggi conquistati dai partiti e dalle coalizioni, avremo la certezza che alcune delle ipotesi accanitamente e noiosamente discusse non sono numericamente praticabili. Il centrodestra non avrà ottenuto la maggioranza assoluta di seggi e non sarà in grado da solo di conseguire il voto di fiducia. La somma dei seggi del Partito democratico più quelli di Forza Italia non supererà l’indispensabile soglia del 50%: addio alle non sufficientemente larghe intese. Forse, nonostante la generosità di Berlusconi, non ci saranno abbastanza parlamentari già insoddisfatti al momento del loro ingresso a Montecitorio e Palazzo Madama per “puntellare” in cambio di qualche carica una coalizione che contenga Berlusconi e tutto o parte del suo centrodestra.
Evitando gli ormai stucchevoli piagnistei sul referendum perduto e sull’Italicum caduto e le critiche, pur doverose, alla pessima legge Rosato (che, però, avrà probabilmente salvato il seggio del suo relatore, di un’indispensabile sottosegretaria, dell’ex presidente della Commissione Banche e della new entry Piero Fassino), smettendo di pettinare le bambole e rimboccandosi le maniche ai parlamentari spetterà il compito di dare vita a un governo, di scopo, per l’appunto lo scopo di governare una società frammentata, corporativa, egoista, ma talvolta anche capace di impennate di innovazione, di impegno, purché chi si pone alla guida sia competente e, soprattutto, credibile.
Con un po’ di fortuna e molta virtù, si può fare. The best is yet to come.

Il Fatto 3.3.18
Sui migranti i partiti si smentiscono da soli
Promesse - I numeri veri li dà il Parlamento
di Tommaso Rodano


Ironia: bugie e omissioni dei partiti sull’immigrazione sono svelate dai partiti stessi. Nella passata legislatura i lavori della commissione parlamentare sul sistema d’accoglienza hanno prodotto una relazione finale documentata e preziosa. Che infatti non è mai stata approvata definitivamente, forse perché smonta alcune delle parole d’ordine della propaganda elettorale degli stessi partiti che l’hanno scritta.
“Oggi in Italia si contano almeno 630 mila migranti. Solo 30 mila hanno diritto di restare” (Silvio Berlusconi, 4 febbraio) – “Rimpatrio di tutti i clandestini” (programma elettorale del centrodestra)
La cifra di Berlusconi sui migranti irregolari è bizzarra, la promessa di rimpatriarli tutti è inattuabile. Lo dicono i numeri. Il Viminale ha fornito quelli degli stranieri irregolari rintracciati negli ultimi tre anni: sono 114.632. Nel 2015 sono stati individuati 34.107 irregolari e ne sono stati espulsi 15.979 (di cui solo 5.505 rimpatriati). Nel 2016 su 41.473 irregolari ne sono stati espulsi 18.664 (di cui rimpatriati 5.817); nel 2017, su 39.052 clandestini ne sono stati allontanati 17.163 (di cui rimpatriati 5.278). Le percentuali delle espulsioni sono basse: il 46% nel 2015, il 45% nel 2016 e il 43,9% nel 2017. Quelle dei rimpatri sono infime: 16%, 14% e 13,5%.
“L’emergenza migranti è colpa della sinistra che ha firmato il trattato di Dublino” (Silvio Berlusconi, 14 gennaio)
L’ex Cavaliere si riferisce all’ultima versione del regolamento (Dublino III), firmata dal governo italiano nel 2013, quando il presidente del Consiglio era Enrico Letta. Per gli accordi di Dublino lo Stato membro che si deve fare carico dell’esame di una domanda d’asilo è il primo Stato d’ingresso del richiedente. Una norma che penalizza l’Italia. Il meccanismo però è stato ereditato nella precedente versione del regolamento (Dublino II), firmato nel 2002. Il premier era proprio Silvio Berlusconi.
Il superamento di Dublino è nei programmi di Pd, centrodestra e M5S. A novembre il Parlamento europeo ha dato il suo via libera all’apertura dei negoziati con Consiglio e Commissione sulla revisione di Dublino III. Gli eurodeputati della Lega si sono astenuti, M5S ha votato contro.
“I nuovi Cie non avranno nulla a che fare con quelli del passato. Punto” (Marco Minniti, 5 gennaio)
La riforma Minniti sulla carta ha cancellato i Cie, centri di identificazione ed espulsione (“luoghi orribili, in cui si violano con frequenza i diritti della persona”, secondo la Commissione diritti umani del Senato). Sono sostituiti dai Cpr, “Centri di permanenza per i rimpatri”. La legge prevede un “ampliamento della rete dei centri in modo da garantirne una distribuzione omogenea sul territorio nazionale”. Minniti le ha presentate così: strutture “più piccole”, “lontane dai centri abitati”, “una in ogni Regione”, che avrebbero ospitato circa 1600 persone in tutto. Nulla di tutto ciò è stato realizzato. Scrive la Commissione: “Alla funzione di Cpr, nonostante la previsione legislativa, non sono stati adibiti nuovi centri ma solo riconvertiti ex Cie (…). Quelli di Brindisi, Caltanissetta, Roma e Torino, per una capienza effettiva di 374 posti e presenze pari a 376”. Briciole.
“Le Commissioni territoriali devono essere potenziate (…). Al fine di velocizzare le procedure per il riconoscimento e ridurne i costi, riteniamo fondamentale​ la videoregistrazione dei colloqui con i richiedenti asilo” (programma elettorale del M5S)
Le Commissioni territoriali (che giudicano le richieste di protezione internazionale) sono già state potenziate dalla riforma Minniti con le “assunzioni di 250 unità di personale specializzato”. La stessa riforma ha già introdotto anche la videoregistrazione dei colloqui. Sulla cui utilità la Commissione è scettica: “È del tutto da verificare (…) che comporti un effettivo risparmio di tempo rispetto alla celebrazione di un’udienza in cui il giudice formula al ricorrente specifiche e mirate domande”.
“Va costruito un sistema di accoglienza rigoroso, diffuso e integrato, sulla base del modello Sprar” (programma elettorale di Liberi e Uguali)
Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) dovrebbe garantire un’accoglienza “di qualità”, caratterizzata da progetti di inserimento e integrazione, contrapposta alla gestione emergenziale dei centri temporanei. I numeri però sanciscono il fallimento di questo modello. “A fronte di ben 31.270 posti finanziati – scrive la Commissione – gli enti locali aderenti sono stati 661 con 775 progetti presentati per un totale di 24.972 posti.” Tradotto: Comuni e Regioni non partecipano ai bandi. Così si sprecano oltre 6mila posti Sprar per i quali erano già stati stanziati fondi pubblici.

il manifesto 3.3.18
Le suore contro lo sfruttamento del lavoro gratis per preti e vescovi
Il caso. La denuncia sull'Osservatore Romano ricorda quelle contro il lavoro gratuito e le lotte femministe. Le religiose auspicano che la denuncia della povertà e della sottomissione a cui sono indotte sia «un’occasione per una riflessione sul potere» clericale e patriarcale nella chiesa
di Roberto Ciccarelli


Il numero di marzo del mensile dell’Osservatore Romano, «Donne Chiesa Mondo» contiene una strepitosa inchiesta sullo sfruttamento delle suore «al servizio di uomini di Chiesa»: preti, cardinali, maschi. L’inchiesta, firmata da Marie-Lucile Kubacki, raccoglie le testimonianze – di grande livello politico – fatte da tre suore a cui è stato cambiato il nome: Suor Marie, Suor Paule e Suor Cécile.
Sotto forma di anonimato ci guidano alla scoperta del lato più invisibile della forza lavoro: quello di cura, fatto al servizio di preti, nel mondo parallelo e intangibile delle gerarchie ecclesiastiche. Sono storie di donne provenienti dall’Africa nera, ad esempio, che servono nelle case di alti prelati romani, altre lavorano in cucina in strutture della chiesa. Altre ancora insegnano o svolgono compiti di catechesi.
La loro denuncia è chiara: contro il lavoro gratuito, o quasi, a cui sono costrette. Non esiste orario di lavoro preciso e regolamentato. La retribuzione, quando esiste, è aleatoria. Su questa denuncia pesa la realtà dello sfruttamento del lavoro femminile e la sua invisibilizzazione causata dal patriarcato e, in questo caso, dal «clericalismo». Ovvero: «il prete è tutto mentre la suora non è niente nella chiesa». Valutare l’entità del valore del «lavoro gratuito» delle religiose è difficile, come altrove nel capitalismo contemporaneo. (Si vedano queste inchieste: qui, qui, qui e qui)
A tal fine sarebbe utile stipulare «un contratto o una convenzione con i vescovi e le parrocchie» e stabilire una paga dignitosa per chi è occupata nelle scuole, negli ambulatori, nel lavoro pastorale, nelle cucine e nei lavori domestici. Così com’è importante prevedere fondi per la formazione religiosa, professionale e la cura di suore malate o invalidate dall’età.
Queste rivendicazioni, chiare e nette, sono accompagnate da un’analisi che ricorda molto da vicino quelle condotte sin dagli anni Settanta dal movimento femminista italiano che lottava per il «salario domestico» e, oggi, afferma il diritto al «reddito di auto-determinazione» con il movimento «Non una di meno» che si sta preparando per lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo.
Rivendicazioni presenti nel >piano femminista contro la violenza maschile, 57 pagine di rilevante impatto politico, stabilite dal movimento. «Le suore di vita attiva – sostiene Suor Cécile – sono vittime di una confusione sui concetti di servizio e gratuità. Sono viste come volontarie di cui si può disporre a piacere, il che dà luogo a abusi di potere».
Si tratta della denuncia di quella che Cristina Morini, nei saggi sulla «femminilizzazione del lavoro», ha definito la «logica adattativa/sacrificale/oblativa», portato culturale dell’esperienza storica femminile. Le religiose auspicano che la denuncia della povertà e della sottomissione a cui sono indotte sia «un’occasione per una riflessione sul potere» nella chiesa.
E, va aggiunto, anche fuori.

Corriere 3.3.18
Carmen Sammut La presidente delle madri superiore: sì, sono femminista In Vaticano non veniamo mai consultate, l’unico è stato papa Francesco
di Stefano Lorenzetto


La leggendaria papessa Giovanna voleva governare tutta la Chiesa. Trascorsi quasi 12 secoli, la maltese suor Carmen Sammut si accontenta di guidare le 670.320 religiose professe dei cinque continenti, 12 volte più numerose dei consacrati non sacerdoti e quasi il doppio dei 466.215 fra vescovi, preti e diaconi. È la presidente dell’Uisg, l’Unione internazionale superiore generali, la prima in carica per due mandati.
Dalle finestre del suo ufficio romano, di fronte a Castel Sant’Angelo, il Cupolone appare vicinissimo. Ma così non è, tanto che suor Sammut nel suo ultimo incontro con Jorge Mario Bergoglio è stata costretta a una garbata protesta. «Papa Francesco, vi ho mandato quattro lettere», gli ha detto, facendo tremolare le dita della mano destra dall’indice al mignolo. «Non le ho mai ricevute», si è stupito l’illustre interlocutore. «Lo sospettavo», ha replicato lei, e gli ha porto lesta una fotocopia dell’ultima missiva sparita. Il Pontefice ha letto pensieroso, ha piegato il foglio prima in due, poi in quattro, e l’ha infilato nella tasca della talare, battendoci sopra due volte la mano, come a dire «adesso è al sicuro». L’indomani un commesso vaticano ha recapitato nella sede dell’Uisg un biglietto di risposta scritto di proprio pugno dal Papa.
Il gesto non si spiega soltanto con la predilezione di Francesco per gli ultimi. È vero che madre Carmen è la superiora generale delle appena 600 suore missionarie di Nostra Signora d’Africa (tre sole italiane), un nulla nella galassia cattolica. Ma rappresenta anche le 1.970 superiore generali di altrettante congregazioni femminili.
Le suore sono in calo o in crescita?
«Siamo 51.615 in meno rispetto a cinque anni fa. Calano in Europa e negli Stati Uniti. Crescono in Vietnam e nelle Filippine. In Africa sono aumentate del 7,8 per cento».
Come si giustifica la crisi?
«La Chiesa non riesce a spiegare Dio al mondo postmoderno. Eppure i giovani restano quelli di sempre: generosi. In Olanda ci sono ragazzi atei che vanno ad assistere le nostre suore anziane».
Non tocca a voi spiegare Dio?
«I preti hanno l’omelia. Ma noi? Come facciamo a comunicare il bene?».
Vedrà che Francesco vi concederà di predicare durante la messa.
«Sono già attrezzata. Ho studiato omiletica dai gesuiti nel Galles».
«Quelle del Terzo mondo sono “boccazioni”», mi ha detto un alto prelato.
«Vale anche per i preti. I figli dei poveri venivano mandati in seminario affinché mangiassero e studiassero. Fino al Novecento per le suore di vita attiva il convento rappresentava un riscatto sociale e una possibilità di carriera».
Mi racconti della sua vocazione.
«La prima è stata per l’Africa, bagnata dal mare di Malta. A 12 anni sono venute le suore in classe e mi hanno lasciato una carta geografica del Continente nero. A 19 ho deciso che dovevo consacrargli la vita».
In pratica che cosa fa la superiora delle superiore generali?
«Confusione». (Ride). «Cerco di far sapere che cosa facciamo di buono».
Sentiamo.
«Per esempio fra Agrigento, Caltanissetta e Ramacca una dozzina di consorelle assiste i profughi sbarcati in Sicilia. Talitha kum, una rete contro la tratta di esseri umani, collabora con le polizie, dà accoglienza e formazione agli schiavi che riusciamo a liberare. Molte religiose africane psicologhe assistono i bambini di strada abusati sessualmente».
Lei lamenta che anche le suore siano quasi ridotte in schiavitù nella Chiesa.
«In Vaticano non ci consultano mai. Il primo a farlo è stato Francesco. Siamo andate da lui in più di mille. Non c’era neanche un cardinale. Ci avevano chiesto di presentare in anticipo e per iscritto le domande che avremmo posto al Santo Padre. Una suora non ha avuto il coraggio di leggere fino in fondo il suo quesito sulle religiose che fanno le colf per i preti senza ricevere neppure un compenso. Il Papa l’ha tolta dall’imbarazzo: “Anche se la domanda era incompleta, voglio rispondere lo stesso. Io, voi, noi siamo al servizio dei poveri. Ma il servizio non è servitù”. Da lì è nata la commissione composta da sei maschi e sei femmine che sta affrontando la questione del diaconato alle donne».
Mi risulta che vi siate immerse nello studio del diritto canonico.
«Non può essere una privativa dei preti, che credono di essere Chiesa solo loro. È una faccenda di potere, di denaro. Certi vescovi vorrebbero annettersi le nostre abitazioni, sostengono che rientrano nel patrimonio ecclesiastico. L’Uisg ha dovuto promuovere un’assemblea mondiale delle poche suore canoniste per poter contare su una rete di difesa efficace».
In compenso lei è stata ammessa al Sinodo sulla famiglia.
«Nell’ultimo banco, sì. Andammo in otto dal cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi. Fummo accettate in tre».
Il Papa deve cancellare il celibato?
«Per i religiosi no: la loro dedizione agli altri dev’essere totale. Ma il celibato sacerdotale è solo una legge della Chiesa latina. Infatti dalla Romania all’Egitto la Chiesa cattolica di rito orientale ordina preti anche uomini sposati».
Non le dispiacerebbe poter celebrare messa, confessi.
«Non ho questo desiderio. Ma rispetto le donne che lo avvertono».
Nel suo recente viaggio in Perù, papa Francesco ha detto alle suore di clausura di Lima: «Sapete che cosa è la religiosa pettegola? È una terrorista. Peggio di quelli di Ayacucho di anni fa». Lei conosce molte terroriste?
«Non molte. Alcune. Però nella mia congregazione ho avviato una riflessione collettiva: che cosa vi dite su Whats-App?».
Come fa una suora di clausura a spettegolare, se non parla con nessuno?
(Ride). «Di quanto tempo dispone?».
Tutto quello che vuole.
«Sono andata in ritiro per otto giorni in un convento di clausura. Le monache venivano in processione da me: ci ci ci, ci ci ci... Poi, al mea culpa serale, tutte pentite».
Francesco il 2 febbraio ha regalato una primula a ogni religiosa che lavora in Vaticano. Lusingata?
«Non lavoro in Vaticano».
Ma lei è stipendiata?
«Da chi?».
Se ha necessità di qualcosa, come fa?
«Abbiamo un budget. E una lista dei bisogni. Quelli eccessivi si discutono. A volte è il contrario: devo spronare io una suora a comprarsi almeno un libro».
Mi indichi un bisogno eccessivo.
«Un viaggio. Volevo portare mia madre Maria, 92 anni, a Lourdes».
Ha pagato tutto la congregazione?
«No, la mamma».
Lei ha vissuto a lungo in Malawi, Algeria, Mauritania e Tunisia. Come la trattavano i musulmani?
«Mi rispettavano. Ho insegnato a lungo con una consorella in una scuola di Bechar, a 1.100 chilometri da Algeri. Ci dicevano: “Siete discepole di Gesù? Allora aiutateci”. E ci affidavano i bambini più difficili. Un inverno fece molto freddo. Una giovane operaia, vedendo che non avevo i guanti, se ne tolse uno dei suoi e me lo offrì».
Fratel Charles de Foucauld, ora beato, scrisse all’amico René Bazin nel 1916: «I musulmani possono diventare dei veri francesi? Eccezionalmente sì, ma in generale no. Molti dogmi fondamentali dell’islam si oppongono ai nostri principi». Parlava come Matteo Salvini.
«Francesi e cristiani non sono sinonimi».
E aggiunse: «Verrà il Mahdi che proclamerà una guerra santa per stabilire l’islam su tutta la terra, dopo aver sterminato o soggiogato tutti i non musulmani». In quello stesso anno fu ucciso dai senussiti.
«Gli islamici estremisti sono una piccola minoranza, glielo garantisco».
Cesare Mazzolari, vescovo in Sud Sudan, nel 2004 mi confidò piangendo: «Il momento del martirio è vicino. Molti cristiani saranno uccisi per la loro fede».
«Migliaia di musulmani, e tanti imam, già oggi vengono ammazzati dai jihadisti in Siria perché si rifiutano di combattere».
Come regolerebbe l’immigrazione dal Nord Africa verso l’Italia?
«Cercherei di scoprire quali sono gli interessi della mafia in questi traffici».
Perché a Malta non sbarca nessuno?
(Sfrega pollice e indice).
Il governo del suo Paese ha pagato?
«Immagino di sì».
Lei non diventerà vescovo, cardinale, papa. La vive come un’ingiustizia?
«Non invidio queste cariche. Sogno una vita semplice, nel deserto».
Però Pietro Parolin non ha escluso che una donna possa prendere il suo posto come segretario di Stato vaticano.
«Sarebbe già tanto se il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita non fosse presieduto da un cardinale. O se nel C9, il Consiglio istituito da papa Francesco per aiutare il pontefice nel governo della Chiesa, sedesse una donna».
Si sente una suora femminista?
«In che senso?».
Nel senso dello «Zingarelli»: «Chi sostiene e favorisce il femminismo».
«Allora sì».
Ma le avanza del tempo per pregare?
«Certo».
Quante ore al giorno?
«Tutte».

La Stampa 3.3.18
Eva Cantarella e le donne tra storia, diritto e molestie
di Chiara Beria Di Argentine


«Chi uccide queste povere donne sono uomini italiani. Mariti e fidanzati italiani. Altro che paura degli stranieri», sottolinea la giurista e storica Eva Cantarella. «Questo atteggiamento del maschio proprietario e predatorio ha radici profonde e lontane nell’antica Grecia e a Roma. Gli uomini greci avevano il terrore della sessualità femminile; la violenza sessuale non era punita, se volevano una donna la possedevano punto e basta magari travestendosi da cigno: Zeus era un vero molestatore seriale! A Roma stupro non significava violenza ma un rapporto sessuale illecito ovvero per la donna avere rapporti prima di sposarsi, o da adultera o da vedova. Questa la storia. Oggi non credo che il femminicidio sia un problema solo giuridico - però è ora di smettere di sottovalutare allarmi e denunce - ma un dramma sociale aggravato dalla crisi tremenda che stanno vivendo i maschi».
Milleottocentosettanta donne vittime in 10 anni. Prima ancora della strage di Cisterna di Latina avevo cercato Eva Cantarella, donna sempre affascinante nei suoi dichiarati 81 anni («Trovo patetico toglierseli, meglio farmi dire che non li dimostro. Cosa faccio? Molto dipende dai geni. Mia madre Maria è morta a 80 anni senza una ruga»), celebre docente d’istituzioni di diritto romano e di diritto greco antico in diverse università italiane e a Austin in Texas e alla New York University Law School. Eva autrice di una quindicina di fortunati libri di storia tradotti in diverse lingue su donne, famiglia e sessualità (dal celebre «L’ambiguo malanno, la donna nell’antichità greca e romana» pubblicato nel 1981 a «Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi», Feltrinelli 2017) non aveva commentato #Me Too la campagna virale contro le molestie sessuali nata a Hollywood e rimbalzata in tutto il mondo tra documenti di solidarietà, denunce, distinguo e polemiche anche fra le donne.
Vedova dal 2012 del sociologo Guido Martinotti (nel 1963 lo seguì a Berkeley condividendo quell’appassionante stagione americana) e ormai in pensione («Faccio esattamente tutto come prima salvo il corso di lezioni») Cantarella sta scrivendo un nuovo libro. «Vorrei intitolarlo “L’amore degli altri”. Chi sono? Quelli che riteniamo diversi. Per i greci tutti gli stranieri erano barbari e con l’editto di Pericle la cittadinanza veniva data solo a chi nasceva da padre e madre ateniesi. L’economia però si reggeva sul lavoro degli schiavi e dei meteci che pagavano persino una tassa, il metoikion, ma non ebbero mai la cittadinanza. Quanto a Pericle aveva una concubina straniera e dei figli da lei. Atene durò molto meno del più inclusivo Impero Romano...». Altra lezione della storia.
Ma veniamo a oggi. Cosa pensi di #Me Too? «Sinceramente penso che ci sia una grande confusione tra stupro e molestie. Sullo stupro non c’è da discutere. E’ un crimine orrendo che va punito pesantemente però come tutti i crimini non bastano le pene ci vuole prevenzione, educazione. Quanto alle molestie cerchiamo di capire, distinguere. Noi europei siamo diversi dagli americani. Dolce stil novo, donna angelicata: nella nostra storia c’è il corteggiamento, una pratica molto importante per il rapporto tra sessi. Quello che non mi piace di #Me Too è rappresentare uomini e donne come categorie diverse: gli uomini necessariamente maiali e le donne tutte angioletti. No. Un conto è l’attrice che rischia una parte altro la commessa con 7 figli che rischia il posto. Vivendo in Usa dai racconti delle mie studentesse ho imparato che non esiste il flirt. Da loro è tutto codificato. Per i primi appuntamenti usano i termini del baseball: 1st base un bacio, 2nd petting e così via. Poi c’è il «One night stand» (rapporto sessuale occasionale ndr) e per non avere problemi non chiedono neanche il nome al partner.
E ancora. Un giorno alla Nyu il preside chiese a un mio collega d’indossare occhiali da sole alla lezione perché una sua allieva sosteneva che lui la guardava. L’uomo predatore è sempre esistito e purtroppo esisterà però credo che questo clima di diffidenza e divisione non solo sia controproducente ma anche pericoloso per i rapporti tra sessi e in particolare per noi donne».

il manifesto 3.3.18
Benvenuti nel «capitalocene»
Economia. Viviamo ormai nell’era della distruzione deliberata della vita sul pianeta
di Paolo Cacciari


Davvero emblematica, per svariati aspetti, la notizia che Alfonso Gianni ci racconta su il manifesto del 1 marzo: una multinazionale cinese, grazie a processi produttivi automatizzati spinti, produrrà negli Stati Uniti 23 milioni di t-shirt all’anno, una ogni 26 secondi, al prezzo di 33 centesimi di dollaro.
Ma, se indaghiamo bene, ciò avviene sempre più frequentemente in ogni parte del mondo per l’intera gamma dei prodotti di largo consumo.
È l’effetto della quarta o quinta – in realtà permanente – rivoluzione industriale che decuplica la produttività dei macchinari sempre più complessi, intelligenti, evoluti.
Potremmo esserne contenti: chi non vorrebbe lasciare ai fantomatici robot i lavori più gravosi e ripetitivi e trovare al supermercato prodotti sempre più economici? Dove stanno i problemi, allora? Proviamo a segnalarne qualcuno.
Quelle t-shirt, quelle scarpe pressofuse, quegli schermi piatti a stampo, quei giocattoli tecnologici, quegli innumerevoli oggetti a (relativo) basso costo di cui ci contorniamo e che ci fanno sentire così simili ai nostri simili, hanno bisogno di essere «assorbiti» nei mercati in grandi quantità.
Ma come trovare compratori solvibili (va bene anche se indebitati) se la platea dei potenziali acquirenti diminuisce perché si riduce il volume del reddito generato dal lavoro retribuito a causa proprio dei processi produttivi labour saving, a risparmio di forza lavoro?
Non è un equilibrio facile da trovare tra «distruzione» e «creazione» di posti di lavoro, nelle diverse aree geografiche, tra le varie qualifiche e classi di lavori.
Non c’è solo un problema di distribuzione (possibilmente equa) della ricchezza socialmente prodotta.
Per far «girare l’economia» sempre più vorticosamente serve alimentare la macchina produttiva con flussi di energia e di materie estratte dai corpi naturali sempre maggiori. Leggo e traduco dall’ultimo (2016) rapporto disponibile dell’International Resource Panel (Unep): «La quantità di materie prime estratte dalla Terra è passata da 22 miliardi di tonnellate nel 1970 a ben 70 miliardi di tonnellate nel 2010 (…) entro il 2050 i nove miliardi di persone del pianeta richiederebbero 180 miliardi di tonnellate di materiale ogni anno (…) quasi tre volte l’ammontare di oggi».
Al vertice della classifica dell’uso di materiali pro-capite sono, ovviamente, il Nord America e l’Europa (25 e 20 tonnellate rispettivamente). La Cina ne ha 14. L’America Latina 10. L’Africa 3.
Sto facendo, evidentemente, un discorso molto grezzo: un conto è estrarre dalle viscere della Terra ferro e carbone, un altro legname, un altro ancora litio, cobalto, antimonio, tantalio, tungstenio, berillio, neodimio … Ne sanno qualcosa in Congo dove (leggo su Nigrizia) 100 gruppi armati per conto delle imprese minerarie straniere si contendono il controllo delle risorse minerarie.
So bene che bisognerebbe anche fare un bilancio accurato dei flussi di materia in uscita sotto forma di rifiuti, residui, emissioni.
Scopriremmo, inevitabilmente, che nonostante la crisi e i bei proclami («economia circolare», «efficientizzazione», «disaccoppiamento», «smaterializzazione», ecc.), le emissioni di gas climalteranti (generati dall’uso di combustibili fossili, dagli allevamenti intensivi, dai disboscamenti ecc.) continuano a macinare record: siamo giunti lo scorso anno a 403,3 parti per milione di CO2.
Abbiamo modificato la composizione chimica dell’atmosfera com’era qualche milione di anni fa, peccato che allora i livelli dei mari fossero di 10 o 20 metri superiori. Il Cnr ha calcolato che nella mia città, Venezia, il livello medio del mare si alza di 5,6 millimetri ogni anno: 12,3 centimetri negli ultimi 22 anni.
Non è sbagliato affermare che il «capitalocene» è l’era della distruzione deliberata delle strutture vitali e funzionali del pianeta.
Chiediamoci allora a cosa ci servono i 23 milioni di t-shirt cinoamericane o, per fare un altro esempio vicino a noi, i 19 milioni di smartphone immessi sul mercato l’anno scorso in Italia (durata media 3 anni).
Non c’è solo il problema di quanti e quanto e dove andiamo a lavorare per quanti soldi in busta paga.
C’è un problema ancora più grande, squisitamente politico, non solo redistributivo, di chi decide cosa produciamo, per soddisfare quali esigenze.

Repubblica 3.3.18
Cosa pensano all’estero
L’estremismo che fa paura
di Nadia Urbinati


L’opinione estera occidentale guarda al nostro Paese con straordinaria attenzione. Poco informato delle beghe tra e nei partiti e delle questioni sociali che affaticano gli italiani, dal lavoro alla sanità fino alla scuola, chi ci osserva da fuori vede essenzialmente due cose: la sperimentazione pentastellata e il fascismo di ritorno. Il Movimento 5 Stelle incuriosisce come un esperimento in laboratorio; e contribuisce a dare al nostro Paese lo scettro dell’innovazione politica nel caotico panorama della democrazia del dopo partiti di massa, ormai confinante con il populismo che conquista i governi. E quindi, la galassia della destra nuova che si radica su quella vecchia è l’oggetto di un interesse che preoccupa.
Il 5 marzo, quanto vicina sarà l’Italia all’Austria e alla Polonia? Paesi cattolicissimi che stanno cercando di cambiare i rapporti della democrazia con il liberalismo, non quello del mercato con il quale hanno un’ottima intesa, ma quello dei diritti, della tolleranza, del rispetto della diversità. La coalizione guidata da Forza Italia ha in sé una non piccola contraddizione a questo riguardo: mentre cerca di attirare i voti della destra più estrema e fascista senza infingimenti, incorona come leader Antonio Tajani, un politico belusconiano che si è conquistato una patente europea di tutto rispetto. Come il Ppe potrà accettare che un suo partito governi un Paese membro insieme a una destra anti europea e fortemente razzista? Sono contraddizioni non piccole.
Altrettanto evidenti sono quelle di un Silvio Berlusconi che si atteggia a moderatore degli estremisti di destra, ma non disdegna di fare l’occhiolino agli xenofobi; per competere con la Lega sullo stesso bacino elettorale e rafforzarsi a sue spese: come leggere sennò la sua proposta di espellere seicentomila profughi in reazione alla sparatoria di Macerata? Al di là della prevedibile radicalizzazione populista nel rush finale della campagna elettorale, vi è un filo che lega moderati o radicali di destra e che fa allertare i nostri osservatori: il fatto che appellarsi al fascismo sia diventato parte del loro linguaggio politico.
Cercare di relegarlo alla periferia dei partiti parlamentari ( magari con la retorica degli opposti estremismi) non funziona, se è vero che in parte gli estremisti di destra ricevono la patente di accettabilità nelle istituzioni proprio dal leader della coalizione che si candida a governare uno dei più importanti Paesi europei. Non è sufficiente che Berluconi assicuri di moderare Salvini e Meloni: la sua parola non convince, perché ha dimostrato di essere egli stesso disposto, quando gli conviene, a usare non meno bene di loro lo stesso loro linguaggio.

Repubblica 3.3.18
Intervista a Alice Weidel capogruppo e leader carismatica dell’Afd
“Il fascismo deve restare proibito La Ue sui migranti ha fallito e anche voi ne fate le spese”
di Tonia Mastrobuoni


BERLINO I sondaggi danno la destra populista tedesca ormai al secondo posto, davanti alla Spd. Alice Weidel, capogruppo e leader carismatica dell’Afd, non nasconde la sua soddisfazione. E in quest’intervista con La Repubblica, El Pais e Le Figaro spiega le traiettorie future del suo partito.
Weidel, che cosa si augura riguardo a domani, al risultato del referendum della Spd? Sì alla Grande coalizione o elezioni o governo di minoranza?
«Secondo i sondaggi abbiamo superato la Spd. Siamo secondi. È ancora un risultato sul filo, ma la tendenza è chiara. La nostra politica ha successo. Tornando alla domanda: è più interessante un governo di minoranza: con le sue maggioranze variabili restituirebbe un po’ di vivacità al Bundestag. E potremmo contribuire al voto, se la nostra posizione fosse rappresentata».
Voi sostenete di voler diventare una Volkspartei. Ma uno studio di Marcel Fratzscher (DIW) sostiene che avete successo soprattutto in zone rurali, tra persone più anziane e con redditi più deboli, insomma spesso tra chi si sente lasciato indietro. Non pensa che per diventare davvero un partito di massa dovreste essere meno radicali?
«Non siamo affatto radicali.
Abbiamo un programma liberal-conservatore. Siamo per il rispetto della legge e dell’ordine che vengono sistematicamente lesi dal governo. Anche al Bundestag cerchiamo di dimostrare che siamo un partito conservatore, liberale e borghese attraverso un’opposizione responsabile».
E che cosa pensa quando qualcuno nel suo partito usa il termine antisemita e pangermanico “völkisch”?
«Io non lo utilizzerei mai, è totalmente contaminato. Non andrebbe mai usato».
All’ultimo congresso l’Afd è scivolato ancora più a destra.
Lei non si sente sempre più isolata?
«È vero, sono l’ultima rappresentante dell’ala liberale ai vertici. Ma guardi che sulle politiche migratorie anche io ho la mia opinione chiarissima. E ho la mia maggioranza, al congresso ho incassato quasi il 70% del congresso».
Lei sostiene che la Germania e l’Islam siano incompatibili: milioni di musulmani vivono qui da decenni, pacificamente.
«È un connubio problematico. In Francia e Uk l’islamizzazione della società è avanzata, ma la Germania sta recuperando a causa delle frontiere aperte. Ormai da noi si osservano fenomeni ‘alla francese’, che di solito accadono solo nelle banlieue, come gli attacchi agli ebrei. Ciò sta già provocando un’immigrazione ebraica dalla Francia. Noi siamo contro l’Islam politico, non contro i musulmani moderati».
Voi volete zero migranti. Ma la Bundesbank ha detto che senza 200mila migranti ogni anno l’economia tedesca comincerà a frenare sotto il 2%.
«Non abbiamo bisogno di flussi migratori incontrollati, di gente che approfitta del nostro sistema sociale. Il nostro Stato sostiene anche famiglie in cui le donne formano degli harem. Si è scoperto di recente che un siriano, il cui diritto di asilo è stato respinto, ha fatto ricorso e ha vinto. È analfabeta e ora viene in Germania con due mogli e una terza sta per arrivare e sei figli. E chi paga? Il contribuente. Arriva gente totalmente estranea dal punto di vista culturale che si sdraia nella nostra ‘amaca sociale’. E lo sa che cosa ha detto quell’uomo? ‘Non voglio lavorare, se non devo.
Preferisco occuparmi dei miei bambini’. Non mi fraintenda: non lo biasimo. Però ritengo il governo responsabile per questo totale fallimento».
A proposito di Europa. Merkel e Macron vogliono riformare l’eurozona, creare un ministro delle Finanze e un Fondo monetario europeo. Voi che ne pensate?
«Siamo totalmente contrari».
È ancora convinta che la Germania dovrebbe abbandonare l’euro?
«Sì. L’euro fallirà comunque. È destinato a fallire. Tutti i tentativi di unioni monetarie sono falliti. Per quello che in economia si chiama il problema di Allmende: ognuno approfitta della stabilità della moneta senza che nessuno vi contribuisca. È successo coi criteri di Maastricht. Le regole del 3% di disavanzo, il 60% di debito sono stati sistematicamente ignorati e nessuno ha pagato sanzioni. È un fallimento».
In Italia si vota, domani.
Avete contatti con la Lega?
Come reagisce alla notizia che in Italia ci sono organizzazioni che si dichiarano fasciste o che un fascista ha sparato sui migranti a Macerata?
«Ha commesso un crimine. E se un partito è contro la legge, deve restare proibito. Non ho contatti con partiti italiani. Ad agosto sono stata a Ventimiglia - solo in quell’occasione ho preso contatti con la Lega. Ho visto anche un campo profughi illegale. Anche l’Italia ha i suoi problemi con i migranti africani. L’Italia è stata lasciata sola. Anche lì l’Europa ha fallito».
Secondo lei le sanzioni contro la Russia andrebbero tolte?
«Noi siamo totalmente contrari alle sanzioni. E non solo per la Russia, ma perché danneggiano l’economia tedesca, mentre le aziende americane sanno come aggirarle».
Pensa che la Germania abbia un problema con la rielaborazione della sua storia?
«Non lo credo affatto. È l’unico Paese che ha fatto intensamente i conti con la propria storia. Io non ho colpe, né mio padre, né i miei nonni. Mio padre è nato nel 1939.
Ha perso un fratello in guerra ed è stato cacciato dalla Slesia. Se non ho colpe, porto tuttavia la responsabilità che cose del genere non accadano più».
Ma lei condivide l’opinione del suo compagno di partito, Wolfgang Gedeon, che ha parlato di “dittatura della memoria” a proposito delle pietre dell’inciampo?
«Certo che no. Contro Gedeon c’è stato un processo di esclusione dal partito. È fallito solo per un errore formale. Tuttavia la cultura del ricordo è qualcosa di privato. E dovrebbe restare tale».

La Stampa 3.3.18
Giovani, riformisti ed eredi di Schröder
Al popolo dell’Spd le chiavi della Germania
Domani l’esito del voto degli iscritti socialdemocratici sul governo con Merkel
di Walter Rauhe


Per la loro ultima riunione di lavoro prima del tanto atteso verdetto della base di Partito sul destino della Grosse Koalition, i leader socialdemocratici si danno appuntamento oggi in una location piuttosto inconsueta. L’hotel «nhow» è uno dei principali e più frequentati hotspot della nuova Berlino, quella giovane, rampante e di successo composta dai tanti creativi della generazione 4.0 e dai giovani manager delle nuove start-up. Una cornice piuttosto azzardata per la «vecchia zia Spd», come viene soprannominato in Germania il partito socialdemocratico.
Una zia anzianotta, zoppicante e - a giudicare dagli ultimi esiti elettorali – anche fuori moda, ma che sotto la nuova leadership di Andrea Nahles ed Olaf Scholz tenta un radicale quanto improbabile rilancio. «Abbiamo capito» è lo slogan della futura presidente di partito designata dallo sfortunato Martin Schulz come candidata alla sua successione: 47 anni, cattolica ed ex esponente dell’ala sinistra dell’Spd, Andrea Nahles ha già ricoperto all’interno del Partito quasi ogni carica immaginabile. Leader dei giovani socialisti Jusos, capogruppo al Bundestag, ministra dell’Economia e del Lavoro, segretaria generale. «Definire proprio lei come áncora di salvezza e giovane promessa dell’Spd è come definire il Titanic come una nave sicura», scherza Kevin Kühnert, leader della gioventù socialdemocratica divenuto nelle ultime settimane il volto della rivolta interna contro la Grosse Koalition. Kühnert sogna una socialdemocrazia che riscopra le sue radici laburiste e popolari, torni su posizioni più marcatamente di sinistra e si rigeneri dalle ultime sconfitte elettorali sui banchi dell’opposizione e non su quelli del potere. Inizialmente Martin Schulz e i leader della vecchia «nomenklatura» socialdemocratica lo avevano deriso, ma al recente congresso straordinario a Bonn Kühnert è riuscito a riunire sotto la sua bandiera ben il 44% dei delegati rischiando di far naufragare la zattera della terza Grande coalizione guidata da Angela Merkel. Da allora è lui la giovane promessa dell’Spd, ma sul palco della Willy-Brandt-Haus domani non ci sarà. Saranno altri ad annunciare l’esito del referendum tra i 463mila iscritti socialdemocratici sul ritorno o meno del partito al tavolo di governo. Andrea Nahles, il futuro ministro delle Finanze e vice cancelliere Olaf Scholz, il nuovo segretario generale dell’Spd Lars Klingbeil, i grandi veterani Gerhard Schröder e il suo braccio destro Franz Müntefering, che nei giorni scorsi non si sono stancati di lanciare appelli e proclami a favore del «Sì» alla Grande coalizione.
Molti esperti prevedono una vittoria dei sì. Forse non più così ampia come quattro anni fa quando il 76% degli iscritti appoggiò un ritorno del partito al potere, ma sufficiente a risollevare le sorti e soprattutto gli umori della vecchia zia Spd. Tra i sostenitori della «GroKo» figurano nel frattempo anche esponenti che mesi fa erano loro fervidi avversari. Come la governatrice della Renania Palatinato Malu Dreyer (56 anni), alla guida nel Land di una coalizione giamaicana assieme a Verdi e Liberali ma che a livello federale appoggia un’alleanza con la Cdu pur di scongiurare un ritorno anticipato alle urne e un prevedibile tracollo elettorale. O quella del Mecclemburgo-Pommerania Manuela Schwesig (43 anni), considerata un tempo come nuovo astro nascente della sinistra Spd e sostenitrice di un’alleanza con l’Spd da quando nella regione sul Mar Baltico guida a sua volta un governo di Grande Coalizione. C’è chi definisce questi ribaltoni come opportunismo. Per altri si tratta invece di sano pragmatismo. Come per Reiner Hoffmann (62 anni), presidente del Dgb, laConfederazione die sindacati tedeschi, con sei milioni di iscritti la più grande organizzazione sindacale d’Europa. Hoffmann è iscritto al Partito socialdemocratico dal 1972, non è un grande estimatore di Angela Merkel ma è convinto al tempo stesso che all’interno dei governi di grande coalizione l’Spd sia riuscita a realizzare il massimo dei suoi obiettivi, mentre quando ha governato da sola sotto il cancelliere Schröder ha attuato una campagna di riforme e tagli al welfare e ai diritti dei lavoratori (l’ormai celebre Agenda 2010) senza eguali nella storia della Germania del dopoguerra.

La Stampa 3.3.18
Netanyahu interrogato
“Una caccia alle streghe”
di Rolla Scolari


È l’ottava volta che il premier israeliano Benjamin Netanyahu viene interrogato dalla polizia negli ultimi 14 mesi per sospetta corruzione. Questa volta, però, per la stampa israeliana il dossier numero 4000 rappresenta una reale minaccia al lungo potere del primo ministro. Gli inquirenti lo hanno ascoltato per cinque ore nella residenza ufficiale di Gerusalemme. Anche la moglie Sarah è stata interrogata dall’unità anti-corruzione, la Lehav 443, sempre sullo stesso caso.
Il sospetto è che il premier abbia elargito favori al maggior azionista della società di telecomunicazioni Bezeq – Shaul Elovitch – in cambio di una copertura favorevole da parte del popolare sito di informazione Walla!, di proprietà dello stesso.
Il caso è scoppiato la settimana scorsa con l’arresto di Elovitch, e di due consiglieri del primo ministro, uno dei quali, Shlomo Filber, è stato rilasciato dopo aver accettato di comparire come testimone dell’accusa.
Secondo la radio militare, ieri un altro funzionario dello stesso ministero sarebbe stato fermato, mentre la tv «Channel 10» ha rivelato che la polizia avrebbe in mano messaggi scritti dalla First Lady Sarah alla moglie di Elovitch che rafforzerebbero i sospetti di favori.
Per Netanyahu, che lunedì incontrerà Donald Trump a Washington, si tratta di una «caccia alle streghe». Subito dopo l’interrogatorio di 5 ore il premier con un video su Facebook ha ringraziato i cittadini che lo sostengono e garantito loro che nulla «verrà fuori» dall’inchiesta.
Il caso 4000 non è l’unico a minacciare il potere del leader israeliano, che conta sulla tenuta di una coalizione di governo compatta attorno a lui.
Nelle ultime settimane, la polizia ha consigliato alla magistratura di indagare su altri due casi di corruzione in cui Netanyahu è tra i sospettati. Il dossier 1000 riguarda un affare di regali, per quasi 300 mila euro in arrivo dal produttore di Hollywood Arnon Milchan e dal miliardario australiano James Packer in cambio di favori. Nel file numero 2000, Netanyahu è sospettato di aver cercato un accordo con Arnon Mozes, editore del quotidiano israeliano, «Yedioth Ahronoth»: una copertura mediatica favorevole in cambio dell’indebolimento del tabloid rivale Israel HaYom, di proprietà di un alleato del premier. Netanyahu è implicato indirettamente anche nel caso 3000: un affare di tangenti nella compravendita di sottomarini tedeschi. E sua moglie Sarah è sospettata di aver usato 100mila euro circa di danaro pubblico per cene alla residenza ufficiale.

Corriere 3.3.18
Bibi e la moglie interrogati per cinque ore


È durato cinque ore l’interrogatorio del premier Benjamin Netanyahu da parte della polizia nelle indagini sul «Caso 4000», quello relativo al sospetto di corruzione per vicende legate all’azienda di telecomunicazioni Bezeq. Mentre Netanyahu era interrogato nella residenza ufficiale a Gerusalemme, sua moglie Sarah è stata ascoltata, anche lei per lo stesso ammontare del tempo, per una deposizione sulla stessa vicenda. Gli investigatori, secondo i media, hanno chiesto a Netanyahu la sua versione dei fatti sulle accuse che il maggiore azionista della Bezeq Shaul Elovitch abbia goduto di benefici calcolati in 1 miliardo di shekel (420 milioni di euro circa) mentre Netanyahu era responsabile del ministero delle comunicazioni. Netanyahu si è detto «certo» che non verrà fuori nulla dall’indagine.

Il Fatto 3.3.18
Un’antica caserma romana sotto la Metro C
Lavori infiniti - Trovata la residenza del comandante risalente al Secondo secolo dopo Cristo
di Lorenzo Giarelli


Due edifici di epoca Romana, che comprendono un’area di servizio e 14 ambienti disposti attorno a un cortile con fontana e vasche. Risalgono al Secondo secolo dopo Cristo e sono venuti alla luce nei mesi scorsi durante gli scavi per la stazione di via Amba Aradam della Metro C, a Roma.
Ieri la Soprintendenza speciale di Roma Archeologia, Belle arti Paesaggio ha svelato le nuove scoperte alla stampa, in attesa che i ritrovamenti vengano messi in sicurezza e riproposti al pubblico quando saranno ultimati i lavori per la metropolitana. “Si tratta di edifici risalenti all’Età Adrianea – commenta Rossella Rea, funzionario archeologico del ministero dei Beni culturali – adiacenti al dormitorio della caserma romana emersa nella primavera del 2016. È una scoperta eccezionale, a Roma non è mai stata trovata una domus collegata alla caserma”.
Gli scavi, avvenuti a dodici metri di profondità, hanno riportato alla luce l’antica residenza del comandante della caserma, con pavimenti “di buona fattura in opus sectile (una tecnica che utilizza il taglio dei marmi, ndr) a quadrati di marmo bianco e ardesia grigia, a mosaico o in cocciopesto”, come racconta Simona Morretta, direttore scientifico dello scavo.
Al centro di uno dei pavimenti si trova il mosaico più suggestivo, in cui un satiro e un amorino lottano (o forse danzano) sotto a un tralcio d’uva. Appena più in là, un ambiente riscaldato – probabilmente termale – e un ampio cortile con una fontana al centro.
Non è la prima volta che gli scavi della metropolitana di Roma consentono scoperte del genere: “La Metro C – ricorda Francesco Prosperetti, direttore della Soprintendenza – fin dalla sua prima stazione a Pantano, nei pressi dell’antica città di Gabii, si è dimostrata uno strabiliante cantiere archeologico”. Due anni fa emersero i dormitori dei militari, ma negli anni scorsi gli scavi avevano permesso il ritrovamento, tra gli altri, di un grande bacino idrico a San Giovanni e dell’antico Auditorium di Adriano vicino a Piazza Venezia.
Accanto all’importanza archeologica delle scoperte c’è però la questione dei lavori per la Metro C, attiva in 21 stazioni ma ancora in attesa di completamento nell’ultimo tratto, dopo continui rinvii. L’ultimo è arrivato poche settimane fa, quando il Comune, la società Roma Metropolitane e il consorzio Metro C hanno dovuto rimandare l’inaugurazione della stazione di San Giovanni – punto di snodo con la linea della Metro A – inizialmente prevista per marzo.
Adesso, mentre la Procura contabile della Corte dei Conti chiede 221 milioni di euro di risarcimento a 25 ex dirigenti per l’aumento dei costi di costruzione della Metro C, la fine dei lavori tra San Giovanni e Fori Imperiali è prevista per il 2022. La data di consegna, promette Prosperetti, non verrà condizionata dai nuovi ritrovamenti: “Ne abbiamo parlato anche con Raffaele Cantone (presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, ndr) e abbiamo convenuto che il progetto può essere portato avanti senza significativi ritardi nella realizzazione dell’opera pubblica”.
Ancora pochi giorni e i ritrovamenti saranno infatti rimossi dal cantiere: “Tra un paio di settimane li metteremo in sicurezza dentro a container per conservarli al meglio, proprio come avvenuto per le caserme ritrovate due anni fa”. L’obiettivo è quello di restituire al pubblico tutte le scoperte: “Vogliamo che Amba Aradam ospiti questi ritrovamenti – assicura Prosperetti – che verranno riportati qui a gallerie completate. Sarà la stazione più bella del mondo”.

La Stampa 3.3.18
Per amare serve coraggio e Giasone ci aiuta a trovarlo
Il viaggio degli Argonauti è una bussola per orientarsi nel mare della vita non si potrà mai essere del tutto soli se si prova nostalgia per qualcuno
di Enzo Bianchi, priore di Bose


Un sostantivo e un aggettivo, se ben scelti, sono la via più semplice ed efficace per rendere conto fin dal titolo del contenuto di un libro. È stato così per il primo lavoro di Andrea Marcolongo, La lingua geniale, che ha saputo riassumere la sostanza di «9 ragioni per amare il greco». È così per la seconda opera della giovane scrittrice che – dopo aver smesso di fare il «fantasma» per conto terzi e «raccontare un mondo non suo, irreale» – ha iniziato a narrare ciò che più le sta a cuore: il titolo La misura eroica detta infatti il ritmo all’analisi del «coraggio che spinge gli uomini ad amare», seguendo miglia dopo miglia «il mito degli Argonauti». Accostare l’aggettivo «eroica» a «misura» potrebbe sembrare addirittura un ossimoro, abituati come siamo a considerare l’eroe come una persona che compie imprese straordinarie, «smisurate» rispetto ai normali gesti dei suoi contemporanei. Invece «da millenni eroe è chi decide la sua vita», giorno dopo giorno, scelta dopo scelta e «la sua misura sarà sempre grande perché sarà quella della sua felicità». Eroe, allora «è chi accetta la prova chiesta a ogni essere umano, quella di non tradirsi mai», così come «misura» non è mediocrità o bassa frequenza, ma conoscenza di se stessi, rispetto dei limiti, equilibrio nel «liberarsi da» per acquisire la «libertà di»… scegliere, partire, amare, viaggiare, tornare.
Così, salpata dalla nativa città portuale di Livorno, Andrea Marcolongo dedica il suo lavoro «A Sarajevo,/ che non ha mare,/ ma sa essere per me sempre porto» e prende come guida Giasone e i suoi compagni a bordo di Argo – «la prima nave costruita al mondo … non per una guerra ma solo per amore» – seguendo onda dopo onda la navigazione verso il Vello d’oro e il passaggio all’età adulta di quei mitici eroi. Se Seneca potrà affermare che «nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare», Giasone e i suoi amici ci mostrano che il porto può anche essere ignoto, a condizione che non lo sia la meta, cioè il «perché» dell’andare per il mare della vita.
Come ci ricorda l’autrice attraverso le parole di Pessoa, «in questo mondo, viviamo tutti a bordo di una nave salpata da un porto che non conosciamo, diretta a un porto che ignoriamo; dobbiamo avere per gli altri una amabilità da viaggio». Ed è allora con amabilità che Marcolongo narra degli Argonauti per narrare della vita di ciascuno di noi, una vita nella quale «la scelta della nostra misura è affidata a noi soli», una vita in cui peraltro «non si potrà mai essere del tutto soli, se si prova nostalgia per qualcuno».
Tre piani si intrecciano nel racconto della Marcolongo. Innanzitutto la vicenda della peregrinazione marina alla ricerca del Vello d’oro che solo consentirà a Giasone di liberare il padre e riconquistare il regno della nativa Iolco: qui la padronanza che l’autrice possiede dei significati più profondi della mitologia greca conduce il lettore a coglierne la valenza universale a partire da dettagli sui quali non si soffermerebbe perché ritenuti non particolarmente significativi. Da questo approccio letterale e letterario sgorga spontanea la «traduzione» nel nostro quotidiano di uomini e donne del terzo millennio, smarriti in viaggi di cui studiamo nei dettagli l’itinerario trascurandone lo scopo: attraverso un uso «misurato» e mai saccente dell’etimologia, Andrea Marcolongo ridà senso alle parole e all’uso che potremmo farne non solo nel nostro parlare ma ancor più nel nostro pensare noi stessi e la realtà attorno a noi. Infine, presente come in filigrana, vi è l’evocazione di un testo su «come abbandonare la nave», un manuale redatto ai tempi della seconda guerra mondiale da un ufficiale di marina sopravvissuto in modo rocambolesco all’affondamento della sua nave mercantile ad opera di un sottomarino tedesco. Sì, perché a un certo punto è possibile che le vicende della vita ci obblighino ad abbandonare la nave che ci ha condotto all’età adulta, ma esiste un modo per non voltarsi indietro custodendo tuttavia la gratitudine per il passato che ci ha plasmato.
Anche Giasone tornerà a casa assieme ai suoi compagni naufraghi superstiti – ma «colmi di gioia», come annota Apollonio Rodio in chiusura delle sue Argonautiche – e con Medea inciderà un motto che, attraversati secoli ed oceani, darà lustro all’ultima dimora del poeta cileno Pablo Neruda a Isla Negra: «Ho tanto navigato e ora sono tornato per costruire la mia allegria». In realtà però ormai il passaggio all’età adulta è compiuto e a tornare non saranno gli stessi. Lo aveva intuito un grande esperto del viaggio interiore, Dag Hammarskjöld, che verso la fine del suo Diario annoterà in un breve haiku: «Mai tornerai / Un altro uomo /troverà un’altra città». Sì, navigare tra le pagine di questo libro significa addentrarsi, con misura e amabilità, in un’unica realtà, riassumibile anch’essa in un sostantivo e un aggettivo: l’avventura umana.

Il Fatto 3.3.18
Gillo Dorfles, il centenario con la voglia di futuro
di Leonardo Coen


Lo straordinario e cosmopolita Gillo Dorfles – il Grande Testimone, il Maestro dell’Estetica, il Teorico dell’arte: fu tutto e di più – ci ha lasciato ieri mattina: i 108 anni lo aspettavano il 12 aprile. Era nato nel 1910. Il suo cuore ha smesso di battere, per usura del tempo. È morto come avrebbe voluto, nella sua abitazione milanese, bella, un piccolo museo di libri, quadri e oggetti che gli ricordavano luoghi e memorie della famiglia altoborghese, che aveva radici triestine, ma anche genovesi e lombarde. In una recente intervista al Corriere della Sera, ricordava ad Aldo Cazzullo d’aver giocato a bocce con Italo Svevo, di aver frequentato la libreria antiquaria di Umberto Saba. Suo padre, irredentista, era stato confinato a Vienna. La madre lo portò a Genova, non vide l’ingresso degli italiani a liberare la città. Tornò a Trieste e lì frequentò il liceo: fece amicizia con Linuccia, la figlia di Saba, che si fidanzò con Bobi Bazlen: sarebbe diventato il suo Virgilio letterario, gli fece scoprire Kafka, Proust, Joyce. E Freud. Però non fu per questo che si laureò in Medicina e Psichiatria: “Nonostante la passione per l’arte, mi sentivo obbligato a prendere una laurea seria…”. Iniziò a collaborare col Corriere, chiamato da Dino Buzzati. Frequentò il salotto di Olga Veneziani, proprietaria di una fabbrica di vernici sottomarine, dove conobbe il genero Ettore Schmitz (cioè Italo Svevo) e la giovane eccentrica pittrice Leonor Fini. La sua vita fu un continuo incontrare geni e grandi intellettuali. Quando sposò Lalla Gallignani – il cui tutore, dopo la morte del padre Giuseppe, un faentino legato a Verdi, fu Arturo Toscanini – il ricevimento di nozze venne fatto in via Durini, a casa del Maestro, e il viaggio di nozze all’Isolino, l’isola nel Lago Maggiore di sua proprietà.
È stato un cittadino della Mitteleuropa asburgica e dell’Italia che divenne fascista, che varò le leggi razziali, che si avviava al disastro della guerra e alla guerra civile. La modernità fu l’assillo di Dorfles. Spesso scherzava sul fatto che era coetaneo della Rivoluzione d’Ottobre, “ha aperto le porte a una nuova considerazione del rapporto tra uomo e nazione”, era amico di Lelio Basso, ma non “ho mai sognato che l’Europa divenisse comunista”. Quanto alla libertà d’espressione artistica, “oggi la relazione tra politica e arte è molto meno importante, l’arte ha raggiunto una propria autonomia, ed è un bene”. Il destino gli ha risparmiato il voto di domani, il cui esito probabilmente l’avrebbe addolorato: ha sempre disprezzato gli “ismi” e i suoi ignoranti condottieri, diceva che erano il male dei popoli. Figuriamoci uno come Salvini.
Odiava le frontiere, i muri. Amava vivere nel mondo: gli piacevano le grandi metropoli, “fucine del futuro”: visse a Roma, Parigi, New York, andava spesso a Tokyo, gli piaceva Chicago che preferiva all’insulsa Los Angeles. Lo videro a Mosca, a Istanbul, a Bilbao (museo Guggenheim), a Barcellona. Non perdeva i convegni se riguardavano i suoi infiniti interessi, un tempo voleva diventare anche pittore ma da critico severo si giudicò solo un velleitario dilettante. All’inizio degli anni Cinquanta, depose il pennello e si dedicò agli studi sull’estetica, la filosofia e la critica d’arte. Studiò “le oscillazioni del gusto”. Era pure un fior di polemista. L’analisi del costume contemporaneo, secondo Dorfles, poteva suscitare “irritazioni” (intitolò così un suo sapido saggio del 2010). Chi ha visto Dorfles negli ultimi giorni lo descrive ancora molto attivo, dedito ai suoi studi, ai suoi appunti, ai suoi progetti. Sì, progetti. Ne aveva, e appena poteva ne parlava in pubblico: l’ha fatto, l’ultima volta, all’inaugurazione di una mostra della Triennale, meno di due mesi fa. Certo, l’udito era un problema, ma gli riusciva lo stesso di continuare a essere un esploratore dell’arte e delle sue tendenze, dei suoi riti e quindi dei nuovi miti. Estetica e filosofia da Vico a Wittgenstein. Il made in Italy che ha in Milano la sua capitale, gli deve molto. La sua lunghissima vita ha accompagnato il divenire delle arti, del gusto, della moda. Fu lo sdoganatore del kitsch che pose dapprima in relazione alla cultura (1963) e poi, non a caso in pieno Sessantotto, con il saggio che fu una sorta di manifesto, Kitsch: antologia del cattivo gusto (Gabriele Mazzotta editore, 1968). Dieci anni dopo, con ironia, scrisse Le buone maniere (Mondadori). Il 5 aprile uscirà il suo ultimo libro: La mia America (Skyra), dove racconta gli incontri con i più noti studiosi di problemi estetici e critici d’arte. Una sorta di baedeker sulla società, la pittura, l’architettura, il design e l’estetica d’Oltreoceano. Ci mancherà, accidenti, l’avremmo voluto immortale.

Il Fatto 3.3.18
“Solitario senza essere solo. Ha portato le scienze nell’arte”
Collega e amico, aveva curato una mostra su di lui: “Era creativo e riflessivo allo stesso tempo”
di Stefano Caselli


“A volte scherzavamo sulla sua età: ‘Non esiste l’immortalità dell’arte, Gillo – gli dicevo –. Esiste l’immortalità della critica’. Lui sorrideva, viveva con molto pudore questa sua straordinaria longevità, 107 anni, un’età da record. Mai un’ombra di atteggiamento muscolare, sempre un grande rispetto. Mi colpisce molto la sua morte”. Così Achille Bonito Oliva, “collega” e amico, poco dopo aver appreso la notizia della morte di Gillo Dorfles.
Bonito Oliva, che cosa abbiamo perso?
Un intellettuale di profonda umanità. E se permette, non è affatto poco. Gillo Dorfles ha avuto il merito di portare nell’ambito della critica d’arte altre scienze, come la psicanalisi, lo studio del colore e della percezione visiva. Il tutto con un’apertura intellettuale inedita per l’epoca. Ha attraversato tutti i movimenti senza mai identificarsi con nessuno di questi, incarnando alla perfezione il disincanto dell’intellettuale mitteleuropeo nato a Trieste e medico.
Dorfles è stato una specie di irregolare?
Non era un irregolare, era assolutamente individuale, solitario. Non che rifiutasse il dialogo, per carità, aveva però una profonda autonomia intellettuale e politica e soprattutto aveva molte altre passioni, la musica per esempio.
Meglio il Dorfles critico o il Dorfles artista?
Nel suo lavoro di artista Dorfles riversava il suo furore creativo, con l’emotività dipingeva, scolpiva e lavorava la ceramica. Il sentimento che da critico teneva sottotraccia, partecipando però sempre al dibattito del proprio tempo. Un cosiddetto artista pensante. Ho avuto l’onore di curare la mostra a lui dedicata al Macro di Roma su tutto il suo itinerario creativo. Una mostra da cui si desumeva tutto il suo felice strabismo nell’essere creativo e riflessivo allo stesso tempo, con il riserbo tipico di un uomo schivo felicemente sottoposto ai colpi dell’arte.
Nel 1948, Dorfles fu tra i fondatori del Movimento per l’arte concreta. Quale eredità ci ha lasciato il MAC?
Ha ribadito il valore dell’autonomia dell’arte in anni in cui si identificavano fatalmente arte e politica. L’arte concreta ribadisce il valore della creazione che afferma se stessa con l’opera senza essere ancella di nessun altro pensiero. Un pensiero che si è tradotto in opera, la teoria non è mai rimasta sulla carta.
Dorfles viene spesso anche definito come “lo sdoganatore del kitsch”…
Sapeva passare agevolmente dal momento sintetico artistico a quello concettuale. Grazie al suo disincanto mitteleuropeo si fece lettore di una realtà storica che non si poteva ignorare: il cattivo gusto apparteneva ormai alla società di massa e lui, senza disprezzo e paternalismo, ha saputo analizzarlo in maniera profonda, senza il terrore di chi teme da questo la caduta o la perdita dell’aura.

Corriere 3.3.18
Figlio dell’impero asburgico Immerso nell’era digitale, preferiva la Milano del dopoguerra
un prometeo infinito
di Aldo Cazzullo


Pareva che Dio si fosse dimenticato di lui. Seduto in poltrona, la coperta sulle ginocchia, il profilo etrusco, stringeva un poco gli occhi arrossati e rivedeva tutti i ricordi della sua vita infinita: da Francesco Giuseppe allo smartphone, dalla Trieste asburgica in cui era nato alla Milano nevosa in cui si è spento ieri, oltre un secolo dopo.
Angelo «Gillo» Dorfles veniva da un altro mondo, e pareva impossibile che mangiasse e bevesse e respirasse come noi. Era nato austroungarico, suddito dell’imperatore. Aveva giocato a bocce con Italo Svevo, comprato libri da Umberto Saba, litigato con Eugenio Montale. Suo suocero era molto amico di Giuseppe Verdi. Aveva ascoltato la bisnonna raccontare le Cinque Giornate di Milano; era andato in barca sui Navigli. Sua moglie arrivò all’altare al braccio di Arturo Toscanini.
Non amava le domande sulla longevità. Non era solo un uomo molto vecchio; era uno dei protagonisti della cultura italiana. Eppure era inevitabile chiedergli come avesse potuto sopravvivere al proprio tempo così a lungo. Il segreto, diceva, era fare e mangiare solo le cose che gli piacevano: il pesce fritto, i fiori di zucca, i carciofi, gli gnocchi alla romana, il vino rosso. L’ultima volta andai a trovarlo tre settimane fa, a raccogliere per i lettori del «Corriere» il racconto della sua vita. Non ci sarei riuscito senza l’aiuto di suo nipote Piero.
I Dorfles sono una famiglia di origine austriaca, trasferita a Gorizia. Il nonno di Gillo era presidente del teatro Verdi, molto fiero di avervi portato Eleonora Duse. Lui era nato a Trieste il 12 aprile 1910. Ricordava la città pavesata di bandiere gialle e nere con le aquile, i colori dell’impero. Quasi ogni giorno usciva in passeggiata con la madre. Incontravano un pope barbuto, un prete greco, che lo vezzeggiava. E passavano dalla libreria antiquaria di via San Nicolò, gestita da un uomo burbero: «Cos’ti vol picio? No xe roba per ti!». Era Umberto Saba. Linuccia, la figlia, si fidanzò con un altro ragazzo che amava i libri, Bobi Bazlen: lui e Gillo andavano insieme a lezione da un professore che aveva conosciuto bene Joyce e spiegava l’ Ulisse , allora ignoto in Italia.
Il salotto della sua giovinezza era quello di Olga Veneziani, che aveva una fabbrica di vernici sottomarine: una signora dal carattere terribile, che mal tollerava le prove letterarie del genero, Ettore Schmitz, che nessuno conosceva ancora come Italo Svevo. Con lui Dorfles andava in gita sul Carso, beveva nelle locande. Il primo articolo sul «Corriere della Sera», chiestogli da Dino Buzzati, raccontava proprio casa Veneziani. C’era una giovane pittrice, Leonor Fini, eccentrica e vistosa: un professore li vide camminare a braccetto e telefonò alla madre di Gillo allarmatissimo: «Suo figlio si accompagna a donne di malaffare!». Ai bagni Savoia divenne amico di Leo Castelli, che avrebbe ritrovato a New York, diventato il più grande mercante d’arte del secolo.
Da bambino andava a Milano a trovare la bisnonna, che abitava in corso Venezia, nel palazzo con le quattro colonne al numero 34. La bisnonna era stata amica di Carducci e gli parlava del Risorgimento: lei c’era. Cent’anni fa Milano era ancora un borgo tranquillo, circondato da orti e cascine. Dorfles amava passeggiare lungo il naviglio che ora è via Senato, andava in barca nel laghetto di San Marco. Conobbe Adolfo Wildt e il suo allievo più brillante, Lucio Fontana, che ancora non tagliava le tele.
Amava l’arte ma si sentiva obbligato a prendere «una laurea seria», e si iscrisse a medicina. Voleva diventare psichiatra come Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettroshock. Ricordava ancora come si fa: «Si mettono due elettrodi alle tempie del paziente, la scossa elettrica gli fa perdere coscienza. Molto impressionante…». Dopo tre anni a Milano si trasferì a Roma, dove fu allievo e assistente di Cesare Frugoni. Interrogava i pazienti: un paranoico si credeva Gesù; un uomo raccontava di aver partorito quattro gemelli di dieci chili l’uno; un altro viveva in uno stato di priapismo continuo, e disegnava ovunque maialini. «Capii che il mio mestiere non era la medicina, ma l’estetica».
Alla Scala l’aveva portato per la prima volta lo zio Ernesto: era sordo, ma se sedeva in prima fila con la trombetta d’argento riusciva a sentire qualcosa. C’era Toscanini, dirigeva il Falstaff . Gillo era promesso sposo di Lalla Gallignani, figlia di Giuseppe, un faentino legato a Verdi che l’aveva portato a Milano per dirigere il conservatorio. Alla sua morte, Toscanini divenne il tutore di Lalla. Fu lui a portarla all’altare. Dorfles lo chiamava «Artù» e lo ricordava pieno di umanità, molto alla mano; innamorato delle donne, anche troppo. Suo figlio Walter fu testimone di nozze, il ricevimento lo fecero a casa Toscanini, in via Durini, e andarono in viaggio di nozze all’Isolino, l’isola nel Lago Maggiore di sua proprietà. Dopo la guerra Dorfles rivide «Artù» a New York. Era molto stanco, ma alle prove gli errori dell’orchestra lo rinvigorivano: «Corpo di una madonaccia!» urlava gettando la bacchetta.
Aveva fatto il militare nel Nizza Cavalleria. Preferiva il Savoia, per via delle divise, ma l’impiegato a cui si era fatto raccomandare si confuse. In cavalleria non era obbligatorio il saluto fascista, con suo grande sollievo, perché detestava il Duce. Allo scoppio della guerra non fu richiamato alle armi: aveva già compiuto trent’anni. «Un testimone mi parlò di piazzale Loreto: non riuscivano a fucilare Starace, catturato in pantofole, perché c’era troppa gente, per sparargli dovettero distenderlo sopra il corpo di Mussolini. L’anatomopatologo Cattabeni, amico e collega, mi disse che dall’autopsia emerse che il Duce stava benissimo, a parte le cicatrici di un’ulcera; le malattie che gli attribuivano erano leggende. Incontrai un ebreo livornese quindicenne, sopravvissuto a Dachau e a Buchenwald: mi raccontò che erano costretti a cibarsi dei compagni morti. E vidi passare la brigata ebraica, con la stella di David ostentata con baldanza». Ma la cosa più impressionante è che Dorfles raccontava la Seconda guerra mondiale come un ricordo recente.
Eugenio Montale, che chiamava per vezzo Eusebio, gliel’aveva presentato Bazlen a Trieste. Si erano rivisti a Milano, nella sua casa di via Bigli. «Stava con la Mosca, che in realtà si chiamava Drusilla Tanzi, ed era terribilmente gelosa di lui. Teneva mia moglie per ore al telefono per lamentarsi delle rivali, fino a quando Lalla osò dire: “Ma perché non lo lasci un po’ in pace?”. Da un giorno all’altro la mia amicizia con Montale finì. Recuperammo in parte solo dopo la morte della Mosca, nel ’63».
Dorfles non aveva il mito della Milano di oggi. Non vi trovava lo slancio degli anni del dopoguerra, in cui era diventata la capitale culturale d’Italia. La sua era la Milano del design, dell’arte, dell’editoria; di Munari, Anatasio Soldati, Vittorini, «che oltretutto era un uomo affabile, a differenza di Moravia, un po’ presuntuoso».
È stato lucido sino all’ultimo giorno. Si può dire di lui quel che un tempo si diceva pietosamente un po’ di tutti: è morto di vecchiaia, si è spento. Diceva sorridendo che l’elisir di lunga vita era il cannonau, regalatogli da certi produttori sardi. Ma il suo vero segreto era la curiosità per tutto quello che è umano, il bello e il brutto, l’elegante e il kitsch, l’armonia e la mostruosità. Aveva una cortesia d’altri tempi, ma non era un superstite, semmai un Prometeo, un rivoltoso: è stato tra tutti noi l’uomo che più a lungo si è ribellato all’universale condanna della fine. Il nostro decano. La morte l’ha colto vivo; per questo è lui, non lei, ad averla avuta vinta.