il manifesto 29.3.18
Franco Piperno: «La sinistra si offre come ceto politico prêt-à-porter»
Intervista.
L' ex leader di Potere Operaio, docente di Fisica ed esperto di
astronomia, osserva le vicende italiane col telescopio dell’analisi
politica
di Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
COSENZA
Franco Piperno, ex leader di Potere Operaio, docente di Fisica ed
esperto di astronomia, osserva le vicende italiane col telescopio
dell’analisi politica, orientato anche da quel pizzico di ironia che da
sempre lo accompagna.
Professore, il successo dei 5stelle e della Lega ha radici profonde? Siamo di fronte ad un fenomeno che viene da lontano?
Credo
proprio di sì. Del resto questo accade pure in altri Paesi europei e
negli Usa. C’è una forte crisi della rappresentanza. È un fatto che nel
corso della storia si è riproposto diverse volte. Basti pensare a quel
che si verificò al tempo della Repubblica di Weimar. Questa volta è un
po’ più grave, perché non si tratta di un problema che possa essere
risolto modificando la legge elettorale. Siamo in presenza di una
sfiducia diffusa. Non è rivolta solo contro i rappresentanti, bensì
contro la rappresentanza. Ho l’impressione che la diffidenza nei
confronti dei rappresentanti, in quanto tali, riguardi il trasformismo,
un fenomeno che l’Italia conosce bene sin dai tempi dell’unità.
È una sfiducia che travolge la sinistra in Europa a tutti i livelli?
Sì.
Pensiamo alla parabola di Syriza. Tsipras è una brava persona e quelli
intorno a lui non sono certo corrotti, ma alla fine volendo prendere il
potere, è il potere che li ha presi. Ed è inevitabile. Sono stato un
po’ di tempo in Spagna con i compagni di Podemos e ho visto che gran
parte della giornata passava ad individuare candidati, elezioni in un
comune o in un altro. Questa è un’ulteriore prova della crisi della
rappresentanza. Un conto è avere un’organizzazione di base, qualsiasi
essa sia, e porsi poi il problema di rappresentarla. Completamente
diverso è rovesciare il problema, cioè avere la rappresentanza e poi
creare il movimento.
Il caso di Liberi e Uguali è forse il più
melanconico. Un intero ceto politico con anni di esperienza alle spalle
si è candidato a dirigere. Non è che abbiano fatto ricorso ai legami che
magari venivano dalla tradizione tanto del Pci come della Dc. No, si
sono offerti direttamente come ceto politico. E anche i compagni di
Rifondazione e Potere al Popolo o il Partito comunista di Rizzo
rischiano di essere assorbiti da codesto meccanismo. È come se ci fosse
un mercato in cui compaiono questi rappresentanti. Nulla di più.
Come spiega il successo di Lega e 5stelle nel sud?
Entrambi
hanno alla loro origine elementi interessanti. Penso alla Lega di
Gianfranco Miglio e alla sua idea di federalismo spinto. Il limite era
che si trattava di un federalismo concepito per regioni, e niente è più
disastroso degli Stati regionali. Però c’era allo stesso tempo
un’esigenza contro Roma, intesa come lotta alla centralizzazione.
Invece, per quanto riguarda i 5Stelle, il reddito di cittadinanza e il
tema della democrazia diretta erano interessanti, ma la mia impressione è
che entrambi, Lega e 5Stelle, abbiano già fatto una brutta fine.
Matteo Salvini si propone come primo ministro dell’Italia, quindi
scordando tutto quello che andava fatto per costruire un’Italia federale
che si sarebbe potuta costruire solo attorno alle città. Infatti,
mentre le regioni sono un’invenzione, le città costituiscono la vera
storia del nostro Paese.
Dal canto loro, i 5 Stelle hanno completamente abbandonato la tematica della democrazia diretta?
Sì,
e in un certo senso hanno pure fatto bene, perché ci sono dei casi di
democrazia diretta paradossali. Alcuni di loro, per esempio, hanno
ottenuto l’elezione dopo essere stati scelti da un centinaio di persone,
quando andava bene. Lo stesso Di Maio mi dà un po’ l’impressione che
sia stato estratto a sorte. Non dico che non abbia delle capacità, non
lo so, non posso giudicarlo. Però appare evidente che è un esempio di
democrazia affidata al caso. Questa storia della rete come democrazia
diretta non solo è del tutto inconsistente, ma è quanto di più
qualunquistico possa esistere.
In appena due anni i grillini in
Calabria sono passati dal 4% al 40% senza aver nessun consigliere
comunale, regionale, in pratica senza esistere e senza nessun candidato
noto. Com’è possibile?
La loro forza proviene dalla dissoluzione
dei riferimenti precisi. Fossero di classe o culturali, non c’è più
niente. Per ottenere la vittoria nel sud, è come se i 5 Stelle si
fossero alleati con alcuni degli aspetti più riprovevoli del meridione.
Per esempio, pensare che i problemi del sud debbano essere risolti dallo
Stato centrale. Certamente nel risultato che hanno ottenuto c’è una
componente di protesta che va considerata, ma accanto ad essa c’è anche
dell’astuzia.