il manifesto 23.3.18
Per milioni di cittadini la sinistra ha tagliato il welfare
Dopo
il voto. In Europa, nelle sue varie forme, ha percentuali a due cifre, e
in alcuni paesi è al governo. In casa nostra è stata dilaniata. Come
tentare di ripartire
di Luigi Pandolfi
La
povertà come volano per l’economia dell’export: un modello sociale che
«valorizza» le disuguaglianze nei processi di elevazione della
competitività, rovesciando il paradigma che stava alla base del vecchio
«modello sociale europeo».
La crisi economica che ha scosso il
capitalismo mondiale tra il 2007 e il 2009 ha dato una nuova base
«oggettiva» alle politiche di smantellamento del welfare state e dei
diritti dei lavoratori, che, nel nostro Paese, erano iniziate già
vent’anni prima. L’Italia è entrata nella crisi con un’economia in
declino e ne è uscita con una società ancora più diseguale,
riorganizzata in funzione del modello neo-mercantile che la Germania ha
imposto, con successo, a tutta l’Europa.
È stata una rivoluzione,
che non ha visto come protagonisti gli operai, i «ceti subalterni», per
dirla con Gramsci, ma il capitale, per mezzo dei governi che si sono
succeduti negli ultimi trent’anni. Una storia che chiama direttamente in
causa la «sinistra di governo», in larga parte erede del Pci, la più
determinata, la più cinica, la più arrogante, nel portare avanti la
rivoluzione neoliberista.
Oggi, per milioni di cittadini, sinistra
è sinonimo di contratti flessibili, di licenziamenti facili, di lavoro a
termine, di pensione a settant’anni, di ticket sanitari, di aiuti alla
scuola privata, di privatizzazioni. Quante volte abbiamo sentito dire
negli ultimi anni, ed anche nella recente campagna elettorale, «la
sinistra ci ha rovinato»? Sì, certo, il Pd non è più un partito di
sinistra, a sinistra c’è anche chi si è opposto a tutto questo, ma, come
il dato delle elezioni del 4 marzo ha dimostrato, non è bastato per
riscattare l’onore della parola.
Eppure, se il discrimine tra
destra e sinistra rimane, per dirla con Bobbio, «il diverso
atteggiamento di fronte all’ideale dell’eguaglianza», come si può
decretare la morte della sinistra in un paese dove l’1% più ricco dei
suoi abitanti possiede una ricchezza 240 volte superiore a quella
detenuta dal 20% più povero e conta 10 milioni di persone sotto la
soglia di povertà?
La soluzione non può essere la flat tax di
Salvini, né la flexsecurity di Di Maio. Due proposte di «sistema», a
dispetto del racconto di chi ne è portatore. Ma l’inganno si è
consumato: la gran parte di quei dieci milioni di poveri ha scelto la
Lega e il M5Stelle, mentre la sinistra si divideva nello stesso recinto,
per spartirsi le spoglie di un elettorato sempre più esiguo.
Perché
tanti operai, disoccupati, casalinghe, pensionati al minimo, hanno
preferito il partito della flat tax alla sinistra del welfare
universalistico e dei diritti sociali? Forse perché era temperata con lo
slogan «prima gli italiani»? No. Più verosimilmente, perché chi
prometteva welfare e diritti non era più credibile, avendo contribuito
al loro picconamento fino al giorno prima, oppure era percepito come
qualcosa di estraneo al sentire popolare, nonostante il nome che
portava.
Da un lato un’operazione grigia e politicista, dall’altro
una scapigliatura, con tratti di freschezza, certo, ma appoggiata sulle
«gambe anchilosate e affaticate», parafrasando Pirandello, di
piccolissime formazioni residuali della sinistra radicale, comunque
accomunate, nell’immaginario collettivo, al resto della «sinistra che ci
ha rovinato».
È il caso italiano, che è diverso da quello di
altri paesi europei. In Grecia e Portogallo la sinistra è al governo, in
Francia e Spagna ha percentuali a doppia cifra, come in Irlanda, mentre
il nuovo Labour inglese potrebbe addirittura vincere le prossime
elezioni politiche. Pur con differenze significative tra Est ed Ovest,
la sinistra è viva ed influente in Germania, resiste in alcuni Paesi
dell’ex blocco socialista.
Parliamo di sinistra d’alternativa,
affermatasi sull’onda della crisi economica e delle socialdemocrazie,
che ha saputo interpretare il malessere di larghi strati della
popolazione, impedendo che lo stesso defluisse tutto a destra, verso
lidi populisti, xenofobi, neofascisti.
Sinistre popolari, capaci
di fare politica, in un momento storico difficile, dove il tema
all’ordine del giorno non è il socialismo, ma la ricostruzione delle
reti di protezione sociale e degli spazi di democrazia che la
rivoluzione conservatrice ha distrutto in questi anni. Il tempo è quello
di conquistare «fortezze e casematte», non quello di assaltare il
Palazzo d’Inverno. Di raccordare lotte sociali e rappresentanza
istituzionale, di avviare poche e significative campagne su temi di
maggiore impatto sociale (lavoro, sanità, pensioni).
Manca un
tassello, però. Il punto da cui ripartire. Le urne sono state spietate
con le due principali proposte in campo. Con un paradosso: Leu ha eletto
un pugno di parlamentari ma non esiste come soggetto politico; Potere
al Popolo non ha eletto parlamentari, ma esprime, a suo modo, maggiore
vitalità. Non è da queste due debolezze, in ogni caso, che si può
ripartire, ma entrambe (penso più alla base, agli elettori, che ai
leader) potrebbero essere parte di un progetto più ampio, che non potrà
nascere sedendosi a tavolino, ma sparigliando, dal di fuori.