venerdì 23 marzo 2018

il manifesto 23.3.18
A sinistra dopo il 4 marzo
di Alberto Olivetti


Il Senato della Repubblica si compone di 315 seggi. Del doppio la Camera dei deputati: 630. Sono dunque 945 i parlamentari che i cittadini italiani sono chiamati ad eleggere. Nella tornata elettorale dello scorso 4 marzo 2018, gli elettori (si è espresso oltre il settanta per cento degli aventi diritto) hanno conferito ad una lista di sinistra, tra le due camere, sui 945 complessivi, 18 seggi. Altre liste di sinistra hanno ottenuto consensi di gran lunga inferiori al tre per cento, soglia al di sotto della quale non si dà accesso a rappresentanza parlamentare. Il regolamento del Senato richiede un minimo di dieci senatori eletti nella medesima lista a che si possa formare un gruppo parlamentare. Alla Camera debbono essere almeno venti i deputati. Salvo deroga alle regole stabilite, né alla Camera né al Senato, ad oggi, potrà costituirsi un gruppo della sinistra. Molte dichiarazioni, commenti e discussioni stanno animando una riflessione sui risultati ottenuti dalle liste di sinistra. Risultato che è perentorio ed inequivocabile. Sta lì, netto, e parla con l’asciutta, laconica eloquenza dei dati di fatto. Dato di fatto, quel risultato allora, che richiede d’essere tenuto fermamente presente perché non vada sfumato od eluso. Pure avviene in queste settimane, troppo spesso, il contrario. Mi è capitato di prender parte ad alcune discussioni, variamente promosse, con l’intento di procedere ad una qualche ponderata valutazione degli esiti elettorali di quelle liste di sinistra. Ebbene, mi è parso di poter constatare che, la gran parte degli intervenuti che pur dichiarano, in partenza, di voler assumere quel dato di fatto, lo sottopongono subito, invece, ad alterazioni tanto svelte quanto sommarie. Lo manipolano e lo riducono a misura tale da poterlo inserire e rendere compatibile con uno strumentario analitico e con parametri interpretativi precostituiti. Sovente, e senza avvedersene, elaborati interventi costruiscono analisi e interpretazioni che separano e, per così dire, sradicano il dato di fatto dalle sue proprie dinamiche, le reali ed effettive (quelle, appunto, tutte da individuare ed indagare) che lo hanno alimentato e determinato (e non furono previste) per ricondurlo, invece, dentro il metodo e la formula (lo schema e lo strumentario ‘politico’) consueti e adusati. Tale più o meno e diffuso, nell’interlocuzione che mi è capitato di avere in questi giorni dopo il 4 marzo, il modo di procedere ad una analisi dei risultati della sinistra da parte di interlocutori che si dicono di sinistra. È che, analizzare un dato di fatto che contraddice clamorosamente i calcoli, le previsioni e le aspettative che si ritenevano legittime perché, a nostro giudizio, ben fondate nei loro presupposti, vuole dire – né più né meno – che vanno revocati drasticamente in dubbio e verificati proprio i presupposti al rispetto dei quali ci si era attenuti. Considerare ed esaminare il dato di fatto riportandolo a quei presupposti è operare la sua alterazione fino al punto di svisarlo, fino a falsificarlo: è la sicura preparazione d’una nutrita quantità di fraintendimenti. Oltre alle inadeguatezze del metodo, altre debolezze inficiano ai miei occhi i tentativi di adeguata spiegazione dei responsi elettorali del 4 marzo. Tra le altre, una debolezza vistosa riguarda il giudizio storico relativo al ruolo del Partito comunista italiano quale si espresse fino al 1989. Tra chi ha partecipato attivamente alle vicende politiche degli ultimi decenni, affiora di frequente uno stato d’animo propenso a riconoscere, nei deputati e senatori comunisti delle legislature d’un tempo, livelli di cultura, competenze e una attenzione alla cosa pubblica che non sono oggi riscontrabili. Mi ha colpito, in una delle discussioni alle quali ho preso parte, sentir definire in un intervento “nani” gli attuali diciotto eletti, se confrontati ai «giganti» dell’antico Pci. Mi è tornato alla mente il paragone di Bernardo di Chartres relativo agli antichi e ai moderni, al vecchio e al nuovo che, intorno al 1159, Giovanni di Salisbury riporta nel suo Metalogicon: «noi siamo nani sulle spalle di giganti». Un nesso storico di cui la sinistra mostra di non aver alcuna seria politica consapevolezza.