il manifesto 20.3.18
Vladimir Putin, ovvero il politico equilibrista
di Rita di Leo
La
vittoria va «spacchettata» nei suoi fattori. Il più immediato è
l’affaire dell’avvelenamento della ex spia per il quale il portavoce di
Putin ha ringraziato la May: quanti indecisi sono andati a votare,
ancora una volta umiliati e indignati dall’avversione occidentale verso
il capo del loro governo, della loro Russia? Il sentirsi incompresi per
l’avvvenuto distacco dal passato sovietico, accomuna la gran parte della
piccola e media borghesia, della burocrazia amministrativa, dello
strato dei tecnici che realizzano quotidianamente la differenza. E sono
grati al governo che ha compiuto la transizione: dal caos degli anni di
Eltsin alla riesumazione dei baluardi del potere pre-bolscevico, come la
chiesa greco-ortodossa, e il nazionalismo patriottico. I russi che
vivono in città, innanzitutto i giovani, si sentono parte del mondo
occidentale, hanno i medesimi comportamenti nei consumi, nell’uso delle
tecnologie d’avanguardia, nelle aspettative di business.
E si
considerano utilmente rappresentati da chi hanno appena eletto. I russi
che vivono ancora in campagna, nei piccoli centri e gli anziani hanno
meno certezze epperò le pensioni sono finalmente pagate in tempo e regna
l’ordine sociale. Chi è diventato ricco può vantarsene pubblicamente.
Chi è povero deve prendersela con se stesso. Più o meno come prima del
1917.
Non la pensa così la quasi totalità di chi ha il potere in
occidente e i mass media che ne sono la voce. Negli anni immediatamente
seguiti alla fine dell’Urss la prospettiva era che la Russia sarebbe
sopravvissuta come un medio paese nell’orbita americana,
deindustrializzato, denuclearizzato, con crisi finanziarie e debolezze
istituzionali. Non sembrò all’epoca un problema la scelta di Eltsin di
puntare su Putin, un piccolo colonnello dei servizi segreti, per 5 anni
di stanza in una città di provincia tedesca, la Dresda martoriata sul
finire della guerra.
Quel piccolo colonnello è oggi raffigurato
come uno zar nemico in quanto è uscito dall’orbita americana. In realtà
per un non breve periodo Putin ha puntato sulla Germania dove aveva
vissuto, sperando nel suo aiuto perché la Russia potesse tornare ad
essere riconosciuta parte dell’Europa. Con l’ingresso nell’Unione
europea dei paesi del patto di Varsavia, la speranza è caduta. E dalle
successive avversità son venute fuori le iniziative politiche che fanno
infuriare l’intera comunità occidentale. L’annessione della Crimea è
solo l’ultima mossa della sua politica estera che sembra somigliare
sempre più alla politica di potenza dell’Urss. Dopo aver subito le
guerre nei Balcani e l’emarginazione dei serbi, la ripresa dei rapporti
con la Cina e le incursioni nello scacchiere del Medio Oriente, vanno in
parallelo con gli investimenti nell’apparato strategico-militare.
È
poi la rinascita di quest’ultimo ciò che più inquietava dapprima
l’America di Obama e oggi l’Ue, influenzata dalla Polonia, dall’Ungheria
e persino da Riga e Tallin. Contrasti con l’Europa non sono nelle corde
della borghesia russa nella quale ti imbatti ovunque in giro per
semplice turismo, per le città d’arte, per business. E il loro capo di
governo lo sa bene ed è alla ricerca di una politica di equilibrio tra
il soft power richiesto dai suoi elettori e l’hard power che sembra la
sola via per far riconoscere al suo paese un ruolo in linea con il suo
recentissimo passato. Sta qui il fossato che separa il politico Putin
dalle élite al potere nell’universo mondo: se l’America da sola investe
negli armamenti più di tutti gli altri paesi, può tollerare e con lei i
suoi alleati una qualche parità semplicemente perché forse la Russia
dispone di una qualche nuova arma? Sembra difficile attraversare quel
fossato e la vittoria elettorale rende Putin ancora più avversario.