il manifesto 1.3.18
L’intelligenza artificiale e un nuovo compromesso sociale
Secondo
Raymond Kurzweil, futurologo visionario, l’anno della svolta universale
sarà tra 10/12 anni quando il robot trascenderà il cervello umano
di Alfonso Gianni
Lo
rilevava già Enrico Berlinguer in una intervista rilasciata a
Ferdinando Adornato nel dicembre del 1983, dove ricordava come egli
stesso avesse proposto al 22° congresso della Fgci un convegno sulla
futurologia, come capacità di affrontare le nuove contraddizioni del
tempo.
Alla maliziosa domanda dell’intervistatore sul «sole
dell’avvenire», mantra di un futuro socialista mai avveratosi, il
segretario del Pci rispondeva che “c’è un paradosso: sul sole
dell’avvenire oggi discutono più gli scienziati che i comunisti”. Sono
passati 35 anni e la situazione non è mutata se non in peggio, visto il
disgregarsi del pensiero e della forza comunisti.
La contingenza
elettorale non ha certo favorito la ripresa di un dibattito politico
dotato di un certo respiro. Forse era persino ingenuo sperarlo. A
maggior ragione va apprezzato come gli articoli di Mario Dogliani e di
Gianni Ferrara (il manifesto, 26 gennaio e 16 febbraio) siano in felice
controtendenza. Il tema posto è di grande complessità, ovvero come
rispondere alla crescente disoccupazione strutturale indotta dai sempre
più veloci processi di digitalizzazione e di robotizzazione in atto in
tutti i settori dell’economia. Non mancano analisi di vario genere,
diverse catastrofiste, altre più ottimiste, alcune persino agiografiche
legate alle “magnifiche sorti e progressive” della tecnologia. Ma tutte
sorgono e circolano più in ambito scientifico e sociologico che non
politico. Anzi la politica non pare neppure sfiorata dalla drammatica
complessità del problema.
MENTRE CIÒ CHE APPARIVA argomento del
futuro, è oggi realtà, nella dimensione più distopica possibile. Mi
fermo ad un esempio solo che mi pare emblematico di come si sono
invertiti i flussi della globalizzazione e quanto aggressiva sia la
tendenza a sostituire il lavoro morto – quello incorporato nei robot –
al lavoro vivo. La cinese Tianyuan Garments ha annunciato che aprirà una
fabbrica tessile in Arkansas, grazie a generosi incentivi diretti e
agevolazioni fiscali da parte della Contea. Potrà produrre 23 milioni di
t-shirts all’anno, made in Usa, al prezzo medio di 33 centesimi di
dollaro. Secondo il presidente della società cinese, che lavora anche
per Adidas, Armani e Reebok, in nessun paese del mondo il costo del
lavoro sarà così basso.
La fabbrica sarà infatti interamente
gestita da robot, con una velocità di produzione calcolata in 26 secondi
a pezzo. Per ora la Tianyuan si è impegnata ad assumere 400 persone a
Little Rock, la capitale dell’Arkansas: saranno prevalentemente
operatori delle macchine. Ma fino a quando questa occupazione durerà?
L’estensione
della robotizzazione aggredisce tutti i settori, compreso quelli ad
elevato contenuto di lavoro intellettuale. Un travaso di lavoratori
dall’uno all’altro segmento produttivo, come successe nelle precedenti
rivoluzioni industriali, è oggi sostanzialmente illusorio. Certamente
una resistenza a processi di distruzione occupazionale può e deve essere
intrapresa. Senza vagheggiare moderni luddismi.
Intervenire sugli
algoritmi che regolano velocità e intensità della prestazione
lavorativa è oggi un punto decisivo che qualifica la contrattazione. Ma
il problema è che la robotizzazione riguarda l’intero mondo del lavoro,
non solo quello manifatturiero, ove ancora si può contare sulla forza
operaia e buoni tassi di sindacalizzazione. Ma non sempre e non ovunque.
In più i processi si muovono sempre più rapidamente.
Secondo
Raymond Kurzweil, uno dei futurologi più visionari, l’anno di svolta
della storia universale potrebbe essere vicino, tra dieci/dodici anni,
quando l’intelligenza artificiale riuscirà a trascendere i limiti del
cervello umano, fermo a una capacità computazionale di soli cento
trilioni di connessioni, peraltro lente.
SE UNA SIMILE PREVISIONE
fosse confermata anche soltanto in minima parte è evidente che la sola
contrattazione potrebbe ben poco. Diventa strategico da subito muoversi
per una consistente riduzione dell’orario di lavoro – ovviamente a
parità di retribuzione per non comprimere la domanda interna –; per un
piano di interventi pubblici diretti nell’economia in quei settori
innovativi che il capitale disdegna, inventando anche nuove forme di
lavoro; per la conquista di un salario di cittadinanza che sia sì
incondizionato, ovvero slegato dalla prestazione individuale di lavoro,
ma non certo dalla capacità produttiva dell’intera società, senza la
quale non vi sarebbe ricchezza reale da ridistribuire in modo equo.
Dogliani richiede un nuovo compromesso fra stato e mercato per
«socializzare la ricchezza prodotta dalle macchine». Ma per fare questo –
afferma – ci vorrebbe uno stato fortissimo. Il che è contraddetto dallo
svuotamento di poteri dello stato-nazione da un lato e, osserva
Ferrara, dal fatto che «alla base della società resterebbe immutato il
rapporto capitalistico di produzione e la posizione dominante del
capitale».
IL NOCCIOLO DURO e insopprimibile dei rapporti di forza
fra capitale e lavoro si ripropone, peraltro su scala almeno
continentale – visto che quei processi di robotizzazione sono guidati e
implementati da imprese multinazionali – e ciò succede proprio mentre
all’apparenza il lavoro sembra sparire o regredire a livello servile.
Come di fatto ci dicono i processi in corso. Il che ci indica che anche
un nuovo compromesso sociale, come fu quello che si costruì nel terzo
quarto del secolo passato, poggia le sue basi sul conflitto tra le
classi. Se quella operaia non ha la compattezza e la centralità d’un
tempo, vi è però l’estensione a livello sociale delle varie forme di
sfruttamento, oltre che di negazione di diritti, che può costituire la
base oggettiva più che di un’alleanza, di una unità del variegato e
represso mondo del lavoro. Ed è solo così e su questo che si può
ricostruire una sinistra a livello politico. Vaste programme? Sì certo.
Ma esserne consapevoli è già un buon inizio.