il manifesto 1.3.18
Quando la produzione del sapere è legata ad apparati di potere
Tempi
presenti. Un’intervista con l’antropologa Ruba Salih, ospite domani
della rassegna «Femminile Palestinese», su decolonizzazione e libertà
accademica. «Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la
violenza gli permette di autoescludersi da essa»
di Chiara Cruciati
A
settant’anni anni dalla Nakba e la fondazione dello Stato di Israele il
popolo palestinese vive da rifugiato, apolide e disperso. Dentro la
Palestina storica la colonizzazione israeliana prosegue incessante,
supera le frontiere ed entra nel linguaggio, la produzione del sapere,
la narrativa internazionale.
Il processo di «memoricidio», come
l’ha definito lo storico israeliano Ilan Pappe, ha permesso a Israele di
radicare nell’immaginario collettivo miti che non hanno riscontro
storico, un’idea di Israele che plasma una storia e forgia un
linguaggio, quelli del vincitore.
Ne abbiamo discusso con Ruba
Salih, antropologa italo-palestinese e docente alla Soas dell’Università
di Londra. Con Pappe sarà all’Università di Salerno venerdì per
discutere di «Decolonizzazione e libertà accademica», evento della
rassegna Femminile Palestinese.
Cosa significa decolonizzare l’accademia?
Gli
effetti del processo coloniale del secolo scorso, la cui espressione
attuale è l’occupazione israeliana, rimbalzano nel mondo accademico, non
esistendo una produzione del sapere isolata dagli avvenimenti politici
esterni. Si vede nei programmi, le politiche delle università, i testi
spesso distorti in quanto riproduttori di canoni coloniali. La
decolonizzazione si realizza in primo luogo individuando i legami che la
produzione del sapere ha con l’apparato economico, militare e politico
responsabile dei processi neocoloniali.
In secondo luogo svelando i
modi in cui l’università riproduce una politica economica non neutrale
ma basata su rapporti di potere: attraverso corporation e investimenti
in paesi in cui tali processi sono in atto e attraverso l’ammissione di
studenti di una certa classe o etnia, decidendo a priori chi diventerà
élite e chi ne sarà escluso. In terzo luogo agendo sulla cultura
politica quotidiana, ripensando la performatività dell’insegnamento e le
modalità di rapporto con persone che non hanno la stessa tradizione
pedagogica o epistemologica.
Infine, decolonizzando il sapere:
analizzare come i paradigmi neocoloniali sono riproposti nella
letteratura, ancora improntata sul sapere bianco, maschile, di upper
class, che rappresenta culture e popoli diversi come soggetti chiusi e
statici, oggetti di ricerca estranei alla loro dimensione politica e
culturale. Una forma di feticismo.
In Italia sono stati cancellati
eventi, anche da università, incentrati sulla Palestina. Lei è stata
protagonista di un simile atto di censura. Cosa è successo?
A
novembre avevo organizzato un evento con Omar Barghouti all’Università
di Cambridge. L’ateneo lo ha cancellato e io sono stata accusata di non
essere neutrale. Un attacco gravissimo, che prelude alla messa in
discussione della mia capacità di insegnamento, e al mondo accademico in
sé perché la censura è giunta nel quadro di Prevent, la legge
britannica anti-terrorismo e anti-radicalizzazione. La sua oscura
implementazione ha trasformato le università in luoghi di sospetto dove
la libertà di espressione si è assottigliata.
E Prevent ha un
capitolo dedicato alla questione palestinese, etichettata come area di
radicalismo. Professori e studenti si sono mobilitati: sono state
raccolte firme e il caso è stato reso pubblico. Cambridge è stata
accusata di violazione della libertà di espressione e di insegnamento. E
alla fine si è scusata, dicendo di aver ceduto alle pressioni di quelle
che ha definito lobby. In Inghilterra sono fortissime, gruppi con la
missione di limitare le espressioni di solidarietà con la Palestina.
Intervengono
con diverse strategie: l’ambasciatore israeliano fa il giro delle
università come ospite; attivisti pro-israeliani intervengono
sistematicamente nei dibattiti per ridicolizzare la discussione,
accusare di antisemitismo o filmare i presenti, compiendo violenza
psicologica. Si difendono parlando di libertà di parola, che però non
vale in senso positivo visto che ci impediscono di esercitare la nostra.
Promuovono un’idea asettica e neo-liberal della neutralità, che si
applica solo ad alcuni ambiti.
In un suo saggio su islamismo e
femminismo parla della necessità di superare «l’approccio etnocentrico
con cui molta parte del pensiero femminista occidentale ha per lungo
tempo guardato ad altre esperienze di emancipazione, soprattutto nel
mondo islamico». Siamo fermi alla visione coloniale del secolo scorso,
paternalismo e superiorità intellettuale?
Oggi non esiste nemmeno
più l’approccio paternalistico verso le donne dei paesi colonizzati,
quella missione «civilizzatrice» che il colonizzatore si attribuiva. Si è
andati oltre gerarchizzando l’umanità. Con la rinascita di movimenti
neofascisti non c’è più bisogno di produrre un discorso legittimizzante:
l’altro non esiste in quanto essere umano. Macerata ha palesato
l’approccio suprematista che cancella il discorso culturale con cui il
colonialismo si legittimava. Scompare anche la «curiosità» che mosse i
colonizzatori, una conoscenza mirante al controllo in senso
foucaultiano. Oggi l’interesse alla conoscenza non c’è perché una parte
di umanità va esclusa ai fini dello sviluppo generale. Su questo ha un
ruolo anche l’accademia dove riemergono pericolose riabilitazioni di
rappresentazioni coloniali, che nella pratica pesano su studenti di una
certa provenienza, sottoposti a draconiane misure di controllo.
Rientra in tale contesto anche il superficiale approccio all’Islam, etichettato come religione di oppressione femminile?
Si
è fermi all’idea coloniale della donna come priva di volontà e capacità
di decidere per sé. Il discorso è simbolico e politico: sui corpi delle
donne si costruisce il senso della nazione e si misurano i suoi confini
rispetto alle altre. La questione in Occidente non attiene alla donna
in sé, ma alla necessità di giustificare l’enorme violenza che le
società occidentali esercitano sulle donne.
Pensiamo alle due
giovani uccise in Italia con quasi identiche modalità, Pamela a Macerata
e Jessica a Milano: nel primo caso un paese si è mobilitato fino a un
attentato terroristico quasi legittimato; sul secondo è calato il
silenzio, seppur si tratti di identica violenza esercitata da un uomo.
Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli
permette di autoescludersi da quella violenza, riproponendo l’idea che
il male sia altrove.
Domani, a Salerno, prenderà parte alla
rassegna «Femminile palestinese», che racconta la Palestina attraverso
le voci delle donne…
Il movimento delle donne in Palestina è
vecchio di cento anni, inserito in una società tradizionale dove
coestistono movimenti femministi, religiosi, comitati popolari, dove la
resistenza è quotidiana. In Palestina dove c’è politica ci sono le
donne, come ci sono nella produzione culturale e artistica di cui spesso
hanno influenzato se non modificato la narrativa (penso a scrittrici
come Sahar Khalifeh o poetesse come Fadwa Tuqan). Eppure per lungo tempo
l’occupazione israeliana ha guardato alle donne palestinesi come
soggetti fragili e quindi oggetto di minore violenza diretta. Non per
umanità ma per una struttura mentale coloniale che guarda alla società
palestinese come retrograda e patriarcale.
Oggi il cambiamento è
dirompente: se nella Prima Intifada c’è stata una sospensione dei ruoli
di genere, perché le donne partecipavano alle diverse forme di
disobbedienza civile e alla costruzione della società esattamente come
gli uomini, oggi le donne – lo dimostra Ahed Tamimi – hanno ripreso un
ruolo su tutti i livelli, anche quello fisico, ponendo i loro corpi
contro l’occupazione. È una presenza che parla agli uomini palestinesi
ma anche all’occupazione, un doppio processo di de-mascolinizzazione.
Da giorni le università britanniche sono in sciopero. Quali le ragioni?
È
il più grande sciopero della storia accademica britannica contro il
progetto di far dipendere le pensioni dall’andamento del mercato: si
profila un dimezzamento della pensione. Ciò significa che chi non viene
da famiglie benestanti sarà escluso dal mondo accademico. È un attacco
generalizzato alla cultura, giustificato con la bugia del deficit. Ma se
gli studenti pagano in media 9mila sterline l’anno, gli atenei
licenziano, ristrutturano e non reinvestono in borse di studio o
programmi educativi. Al contrario raddoppiano gli stipendi dei manager e
investono nel settore immobiliare. Nulla di nuovo nel panorama del
neoliberismo. Di nuovo c’è il mix tra delegittimazione degli accademici e
guerra dei ricchi ai poveri.
***
Domani incontro a Salerno insieme a Ilan Pappe
«Palestina,
decolonizzazione e libertà accademica»: è il titolo dell’incontro
domani 2 marzo alle 10.30 nell’aula Vittorio Foa del dipartimento Dspsc
dell’Università di Salerno. Organizzato dalla rassegna «Femminile
Palestinese», curata da Maria Rosaria Greco e da Casa del Contemporaneo,
vedrà l’intervento dello storico israeliano Ilan Pappe e
dell’antropologa italo-palestinese Ruba Salih, che discuteranno del tema
con Giso Amendola e Gennaro Avallone.
A intrecciarsi sono i temi
dirimenti della decolonizzazione dentro e fuori l’accademia, sfida alla
narrazione israeliana che si è imposta nel discorso occidentale sulla
questione palestinese. L’incontro si inserisce all’interno di una
rassegna, alla quinta edizione, focalizzata sull’analisi dello scenario
contemporaneo in Palestina attraverso voci e storie di donne,
giornaliste, registe, cuoche, artiste.
All’evento di venerdì
seguiranno l’incontro con la scrittrice palestinese Adania Shibli e la
rassegna cinematografica e gastronomica «Cinema, hummus e falafel». In
questi giorni è inoltre in uscita la seconda edizione del libro «Di
storia in storia. From tale to tale», ora bilingue, pubblicato da
Oèdipus Edizioni a cura di Maria Rosaria Greco: la trascrizione
integrale della lectio magistralis che Ilan Pappe tenne a Salerno sulla
pulizia etnica della Palestina e sull’importanza del linguaggio e del
ruolo dell’accademico. Il libro vuole essere il primo di una serie di
«quaderni della rassegna» che ne permettano una documentazione puntuale.