il manifesto 1.3.18
«Irricevibile», la Brexit si incarta sull’Irlanda del Nord
Gran
Bretagna. Theresa May rigetta la proposta Ue di includere Dublino e
Belfast in un «allineamento normativo», mantenendole entrambe
nell’unione doganale e nel mercato unico. Implicherebbe l’introduzione
di controlli al confine interno
di Leonardo Clausi
LONDRA
Tra i tanti sassolini nelle scarpe leopardate di Theresa May in cammino
verso la British Exit, quello del temuto confine fra Irlanda del Nord e
Gran Bretagna è un ciottolo vero e proprio. E se ieri Londra e
Bruxelles erano unite nel gelo metereologico, un altro gelo, quello
negoziale, le divideva più che mai.
La proposta contenuta nelle
centoventi pagine della prima bozza di trattato legale dell’Unione
Europea sulla Brexit avanzata ieri dal negoziatore Ue Michel Barnier,
prevede l’inclusione delle due Irlande in un «allineamento normativo»,
mantenendole entrambe nell’unione doganale e nel mercato unico qualora
non si trovasse alcuna soluzione alternativa, è stata rigettata con foga
da Westminster. Giudicata anzi irricevibile, tanto che «nessun primo
ministro britannico potrebbe mai accettarla», giacché «minaccia
l’integrità costituzionale del Regno Unito».
Insomma, l’Ue
starebbe cercando di annettersi, attraverso l’Irlanda, l’Irlanda del
Nord, la rappresentazione più efficace dell’inferno ad occhi orangisti.
Come se non bastasse, anche Jeremy Corbyn ha finalmente varcato
machiavellicamente il Rubicone, gettando fuoribordo il suo
euroscetticismo e abbracciando pubblicamente una Brexit morbida (dentro
mercato unico e unione doganale) pur di attrarre i dissidenti tory
eurofili e indebolire May ulteriormente.
Bruxelles la vede invece
come una «misura di sicurezza» che avrebbe lo scopo di evitare
l’introduzione di un confine fisico fra i due Paesi, confine rimosso
dopo anni di dolorosa guerra civile e negoziati culminati nella
pacificazione raggiunta nel Friday Agreement del 1998, il maggior
traguardo politico del premierato di Tony Blair. Ma naturalmente
implicherebbe, di fatto, l’introduzione di controlli al confine
all’interno della Gran Bretagna.
Prima di Natale, pur di passare
alla fase due del negoziato che le stava disperatamente a cuore – quella
che, una volta esplicitati i termini del divorzio avrebbe gettato le
basi per un nuovo accordo commerciale con Bruxelles – Theresa May aveva
preso tempo cercando di placare i puntelli del suo governo di minoranza:
quei deputati del Dup di Arlene Foster che vedono l’equiparazione anche
solo commerciale fra Irlanda e Irlanda del Nord come l’inizio della
fine dell’Ulster e il ritorno – o meglio, l’andata – di quest’ultima tra
le braccia di Dublino. Ma è chiaro che si trattava di una misura per
prendere tempo con lo scopo di meglio prepararsi al redde rationem
attuale. C’è poi un’ancora più indigesto boccone da inghiottire: quello
del perdurare della giurisdizione della lussemburghese Corte di
giustizia europea per tutta la durata della procedura di uscita. E ora,
di fronte alla ratifica legale della proposta, puntuale è arrivata la
sua levata di scudi politica.
A soffiare sul fuoco della lesa
sovranità costituzionale si unisce il ministro degli esteri Boris
Johnson, che due giorni fa aveva liquidato la questione del confine fra
le due Irlande come facilmente risolvibile, equiparandola al regolamento
del traffico fra due quartieri londinesi, attingendo alla sua luminosa
esperienza di sindaco della capitale. Le burle di Johnson, così come
l’andirivieni del suo governo, non hanno di certo divertito il primo
ministro irlandese Leo Varadkar, che aveva profeticamente salutato il
temporaneo accordo di fine 2017 come «la fine dell’inizio». Varadkar ha
esplicitato tutto il suo malcontento in un’intervista radiofonica. «Non
va bene che certe persone, siano politici pro-Brexit o partiti
nordirlandesi dicano di no proprio ora. Se non gli va bene questa misura
di sicurezza che propongano questa o quella soluzione alternativa».
Barnier,
che probabilmente pregustava questo momento, non si è scomposto di
fronte agli strilli di Westminster. Ha detto di non avere alcuna
intenzione di «provocare la Gran Bretagna», aggiungendo che il suo testo
non è che la ratifica di quanto ufficiosamente esplicitato prima della
fine dell’anno, che non contiene alcuna sorpresa. Ha anche lui esortato
May a produrre delle alternative. Mentre l’orologio ticchetta – alle
undici di sera Gmt del 29 marzo dell’anno prossimo il Paese sarà
irrevocabilmente fuori dell’Ue – diminuisce la visibilità su come e dove
si andrà a finire.