il manifesto 1.3.18
Peripezie politiche e linguistiche della «razza»
Vocaboli.
Storia di una parola simbolo della tragicità di un secolo, fino al
rovesciamento del suo significato da parte di Gianfranco Contini che la
rintracciava nel Medioevo francese, come marchio di bestialità
di Lino Leonardi
Direttore Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano
Quest’anno
ricorre il tragico ottantesimo anniversario della promulgazione delle
leggi razziali da parte della dittatura fascista. Fu il momento più
ignobile della storia istituzionale dell’Italia unita, il momento di
massima adesione all’ideologia nazista, preparato da una propaganda
pseudo-scientifica, divulgata nella rivista che si intitolava «La difesa
della razza».
Da allora, la parola razza non è più una parola
neutra. Evoca il genocidio perpetrato dal nazi-fascismo, il ripudio
dell’identità umana, dietro le vesti della pretesa identità razziale.
Gli atti dell’Assemblea costituente testimoniano le lunghe discussioni
per la stesura dell’art. 3, circa l’opportunità di inserire quel termine
nella Carta: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali».
Alla fine si decise di tenerlo, con la motivazione che
non si poteva tacere quel presunto tratto identitario che era costato la
vita a tanti: bisognava esplicitamente negarlo, nominarlo per
cancellarlo dall’uso comune. E tuttavia, le cronache della campagna
elettorale hanno diffuso nei giorni scorsi l’espressione di uno dei
candidati alla presidenza della più grande e ricca regione italiana: di
fronte alla migrazione, «dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la
nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere».
La difesa della razza, appunto.
Tutte le parole hanno un peso,
questa più di tante altre: è una parola-simbolo delle tragedie del
Novecento, il suo rifiuto deve essere alla base della condivisione
repubblicana. Ma oltre a queste considerazioni, vi è un aspetto
propriamente linguistico che credo necessario sottolineare.
L’origine
del termine razza è stata a lungo incerta, e discussa tra illustri
studiosi. Fino agli anni Cinquanta prevaleva l’ipotesi che derivasse dal
latino ratio, quanto di più nobile e proprio della natura umana. Leo
Spitzer, ebreo viennese che nel 1933 espatriò dalla Germania nazista,
sostenne quella tesi: «fu per me un piacere pieno di malizia presentare
alla Germania l’idea che la parola che veniva usata in contrapposizione a
’spirito’ vanta così un’origine altamente spirituale».
Ma
Gianfranco Contini nel 1959 capovolse la prospettiva, dimostrando che
l’origine era tutt’altra. Razza ha le sue prime attestazioni in italiano
antico, da cui si diffonde a tutte le lingue europee, ed è una
trasformazione medievale dell’antico francese haraz, che indica un
allevamento di cavalli, una mandria, un branco. Per una delle più
vistose parole-simbolo in nome delle quali si era prodotta l’abiezione
della ragione veniva così riconosciuta «una nascita zoologica,
veterinaria, equina» (Contini). Un caso formidabile in cui la scoperta
dell’origine di una parola può cambiarne la percezione e l’uso, può
determinare la sua trasformazione da nobile segno di eccellenza e di
distinzione a specifico marchio di bestialità.
Successivi studi
hanno confermato la tesi, e l’ultima conferma la offre infine oggi il
Tesoro della lingua italiana delle origini, elaborato dall’Istituto CNR
Opera del Vocabolario Italiano, che ha aggiunto altri esempi
duecenteschi e ha documentato l’uso estensivo alle proprietà di una
categoria umana solo nella seconda metà del Trecento. La documentazione
antica, che attesta la continuità e la trasformazione semantica del
termine, non lascia dubbi.
Ancora oggi però il Trésor de la langue
française e l’Oxford English Dictionary, pur riconoscendo la
derivazione di race dall’italiano razza, non registrano l’etimologia
indicata da Contini. Eppure da decenni la parola razza, marchiata a
fuoco dalla peggiore ignominia della storia del Novecento, può e deve
essere intesa alla luce del suo significato originario, e dovrebbe
essere usata solo per definire un’identità non umana.
Nel 1959,
quando Contini pubblicò la sua ricerca, un quotidiano nazionale si
rifiutò di darne notizia. Nell’Italia e nell’Europa di oggi,
cinquant’anni dopo, così diverse da quelle di allora, c’è ancora bisogno
di diffondere, anche sul piano strettamente linguistico, la
consapevolezza di quell’aberrazione
*Direttore Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano