il manifesto 1.3.18
Quanto costa a Di Maio la svolta governista
di Michele Prospero
Quanto
pagherà nei consensi la svolta governista che induce Di Maio a vagare
negli schermi tv, in compagnia della sua squadra di governo? L’onda che
nel 2013 travolse il bipolarismo nasceva da una protesta contro la
politica che aveva sposato i dogmi dell’austerità.
Ora il M5S, da
agente della rivolta, si propone quale campione della stabilizzazione. E
accetta il pensiero più insidioso della seconda repubblica: le elezioni
non riguardano la rappresentanza, ma investono direttamente il governo.
Non è senza rischio il passaggio dal comico che minaccia e nelle piazze
grida il verbo nuovo («uno vale uno») al candidato premier che esibisce
il reclutamento delle sue «eccellenze» cui prenotare un incarico di
governo. Dal ritmato slogan «siamo cittadini punto e basta», con una
giravolta il M5S passa alla promessa di un ministero della meritocrazia.
Grillo
ha ucciso i partiti che si erano consegnati al governo tecnico di
«rigor Monti» e ora Di Maio cammina pericolosamente in vista di una
riesumazione del cadavere dei tecnici. Proporsi come un Monti in
miniatura è un passaggio rischioso. Con il mito dei super competenti il
M5S rinuncia alla sua ragion d’essere, una rivolta dei senza nome e
degli esclusi, che miete consenso al di là della identità dei candidati
(gli elettori avrebbero potuto perdonare persino lo spettacolo degli
scontrini, delle candidature di massoni e condannati).
Ammainare
la bandiera della rabbia, per indossare la grigia giacca della
rispettabilità tecnocratica, comporta per il M5S una completa
ricollocazione nello spazio politico. Ciò mette in libertà antichi
sostegni sia verso la destra (il risentimento contro le potenze europee
avverte più forte l’attrazione fatale di Salvini), sia verso il centro
(il governo degli esperti riabilita il valore delle virtù calme di
Gentiloni o Padoan), sia verso sinistra (la campagna contro la
burocrazia e la spesa pubblica restituisce un ruolo alla difesa del
welfare, del lavoro).
Presentandosi agli elettori non più come
forza di protesta ma in nome della credibilità e del prestigio dei
ministri in pectore, Di Maio scatena la involontaria (e costosa)
comparazione con l’esperienza di governo effettiva dei sindaci
pentastellati. Presentandosi come forza integrata nei riti di un sistema
di potere ormai sfibrato, il non-partito (non più) grillino mette in
pericolo la sua stessa sopravvivenza. Partecipando al gioco del
candidato premier che in maniera grottesca invia al Quirinale i nomi
dell’esecutivo, Di Maio viene colpito da un ethos mancante, e affonda
nelle preferenze per carenza di credibilità.
La questione non è la
sua scarsa esperienza e la sua giovane età. La pongono in questi
termini gli stessi osservatori che hanno esaltato l’esuberanza giovanile
di Renzi e la scarsa solidità della sua squadra. Non è questo il nodo.
In fondo, il leader del M5S ha alle spalle cinque anni di vice
presidenza della camera. Un curriculum persino superiore a quello di
chi, quando scalò Palazzo Chigi, alle spalle aveva solo la presidenza
della provincia di Firenze.
Quando Di Maio si propone come
presidente del consiglio e capo di esperti altera l’identità del M5S
che, non a caso, ha condotto la sua campagna di marzo solo con una
piattaforma politicista, con una agenda tutta interna al palazzo. La
stessa proposta di un «contratto di programma», con chiunque in aula si
dichiari disponibile all’abboccamento, svela l’integrale conversione che
dalla piazza conduce al palazzo. Di Maio sembra essere colpito dalla
sindrome Giannini, del commediografo dell’Uomo Qualunque che, dalla
protesta contro tutti i politicanti, incautamente passò al gioco
politicista delle intese. Con le sue offerte, che Togliatti non si
lasciò sfuggire accettando la pratica del dialogo e dell’attenzione,
determinò lo sgonfiamento della forza che nel dopoguerra aveva
organizzato l’antipolitica.
Anche l’ultima battaglia positiva che
il M5S ha condotto, quella in difesa della costituzione contro il
plebiscito renziano, viene intaccata dalla proposta di revisione della
Carta per l’abbattimento del cuore del regime
parlamentare-rappresentativo: l’assenza di ogni vincolo di mandato per
il deputato. Non a caso la sintonia è stata subito trovata con
Berlusconi che ha sempre coltivato l’obiettivo della cancellazione della
libertà costituzionale del parlamentare per ricondurlo agli ordini
dell’azienda.
Le incaute mosse del M5S restituiscono margini alla
sinistra. Che può recuperarli però solo promettendo opposizione, lotta.
Ce ne sarà bisogno dopo il 4 marzo, quando esploderà la crisi del Pd, il
M5S mostrerà la sua debolezza culturale. La sinistra tornerà ad essere
una necessità per la democrazia italiana, sfigurata e aggredita dagli
abbracci multipli di Berlusconi che si rivolge a Di Maio per uccidere il
parlamentarismo e alle truppe di Veltroni, Bonino e Prodi (non solo di
Renzi) per l’approdo al presidenzialismo carismatico.