venerdì 16 marzo 2018

il manifesto 16.3.18
Gaza, laureati in gabbia
Palestinesi. In quella che è diventata la "prigione" più grande del mondo, migliaia di giovani laureati soffrono gli altissimi livelli di disoccupazione. Senza prospettive, chiusi nella morsa del blocco di Israele ed Egitto, sono vittime di frustazione e depressione. E tanti sognano di andare via.
di Michele Giorgio


GAZA Sara Daghmosh ha un diavolo per capello. Entra sbuffando nel “Centro italiano di scambio culturale Vik” che porta il nome dell’attivista e scrittore Vittorio Arrigoni ucciso nel 2011 a Gaza. «Meri, hanno respinto la mia domanda. Non riesco a capire. Avevo i titoli giusti per frequentare quel corso universitario (in Italia) e invece dovrò aspettare un altro anno», dice la giovane palestinese rivolgendosi a Meri Calvelli, la responsabile del centro. E apre i file nel suo computer per dimostrare di aver rispettato la procedura alla lettera. Calvelli legge con attenzione. «Ha ragione» riconosce «è tutto in ordine, temo che l’università abbia risposto negativamente perché tanti ragazzi palestinesi hanno fatto domanda per quel corso. I giovani laureati di Gaza, spiega Calvelli, «tentano ogni strada per integrare, anche all’estero, la loro preparazione in attesa di un lavoro a Gaza. Ma le università europee hanno una disponibilità limitata e non pochi poi non ricevono una risposta positiva».
Sara, 25 anni, ora appare meno abbattuta, non può che rassegnarsi e riprovarci appena possibile. «Mi ritengo fortunata rispetto ad altri ragazzi perché ho un lavoro» ci dice «Quel corso universitario mi serve per migliorare le mie conoscenze ma nel frattempo sono impiegata part-time in un centro che studia la risoluzione dei conflitti». Sarà ha un piccolo salario. «Non è tanto però mi garantisce l’indipendenza economica e mi permette di avere pazienza. Tanti miei amici ed ex compagni all’università non hanno questo privilegio. Sono laureati ma non trovano un lavoro decente. Parecchi fra loro non sognano altro che di andare via, di fuggire da Gaza e di cominciare una nuova vita. Sanno che pochi riusciranno farlo». Le porte della Striscia di Gaza sono chiuse da Israele a nord e dall’Egitto a sud. Ad ovest il blocco navale impedisce le comunicazioni marittime con i Paesi del Mediterraneo. Gaza è chiusa da ogni lato, non si esce e non si entra senza un permesso israeliano ed egiziano.
Con oltre due milioni di abitanti ammassati in meno di 400 kmq, Gaza ogni anno sforna migliaia di laureati. Nel 2017 dai suoi atenei ne sono usciti oltre 21mila, 10mila dei quali donne. Ragazzi e ragazze che una volta terminati gli studi nella maggior parte dei casi restano ad attendere per anni un’occupazione. La speranza è l’unica cosa che hanno. «La chiusura attuata da Israele riduce al minimo le possibilità dell’economia di svilupparsi e di generare posti di lavoro adeguati al livello di istruzione dei giovani laureati – dice Basem Abu Jrai, un ricercatore del Al Mezan for Human Rights di Gaza city – e questo limite è ancora più grave se si pensa che il 50% della popolazione di Gaza è formata da ragazzi con meno di 20 anni. La disoccupazione sfiora il 47%, tra i giovani arriva fino al 60%, tra le donne tocca l’85%». Un quadro nel quale i giovani raramente alzano la voce con le autorità visto che anche i genitori spesso sono senza lavoro e che la radice dei problemi risiede nell’occupazione israeliana. Un dato, non ufficiale, che illustra bene la condizione di precarietà per gran parte della popolazione di Gaza. Circa 100mila abitanti sono fortemente indebitati. E non poche di queste persone sono state denunciate per frode per aver emesso assegni scoperti.
Abu Jrai sottolinea che negli ultimi dieci anni circa 300mila giovani laureati hanno fatto domanda al ministero del lavoro per essere inseriti nel programma di lavoro temporaneo presso gli uffici pubblici con un salario sotto i 300 euro. «Al termine di quel programma governativo quei giovani sono tornati sul mercato del lavoro dove hanno trovato poco o nulla», aggiunge il ricercatore «tanti hanno dovuto accettare lavoro umili e paghe irrisorie pur di avere un’occupazione». Alcuni aderiscono a una forza politica nella speranza che la scelta fatta porti a buon lavoro. Altri, dopo anni di disoccupazione, provano ad entrare nelle forze di polizia e di sicurezza. «Le conseguenze per l’individuo e la società sono molto serie» prosegue Abu Jrai «i giovani con un buon livello d’istruzione senza lavoro non sono più motivati, talvolta scelgono l’isolamento e si pongono ai margini della vita in famiglia e nella comunità. Altri smettono di immaginare il loro futuro. Il calo del 10% dei matrimoni registrato lo scorso anno a Gaza ne è una dimostrazione. Senza dimenticare che un certo numero di persone fa uso di psicofarmaci o che tentano il suicidio».
Almeno 18 palestinesi di Gaza, secondo i media locali, sono tolti la vita lo scorso anno. Tra essi alcuni giovani. Nel 2017 inoltre sarebbero aumentate del 69% rispetto all’anno precedente le persone che si sono rivolte all’ospedale psichiatrico di Gaza e ai centri pubblici di salute mentale. Sulle cifre è cauto Hassan Ziada, psicologo del Gaza Community Mental Health Programme, una ong che da quasi trent’anni studia le conseguenze e i traumi per la popolazione civile causati dagli attacchi militari israeliani e dalla chiusura della Striscia. «Numeri a parte, posso dire che nei nostri centri abbiamo registrato un aumento marcato di persone che hanno cominciato ad assumere ansiolitici e farmaci simili. Così come di persone con tendenze suicide o che si rendono protagoniste di violenze all’interno della famiglia. E tra queste ci sono anche giovani», ci spiega Ziada accogliendoci nel suo ufficio in via Shuhada a Gaza city. «Noi pensiamo che il problema sia politico prima di tutto» aggiunge, «senza una soluzione politica che trasformi radicalmente la condizione attuale di Gaza minacciata da Israele e che metta fine alla frattura interna tra i partiti Hamas e Fatah, la condizione della popolazione della Striscia non migliorerà». Per lo psicologo palestinese nei prossimi anni, se non interverranno cambiamenti radicali, «le manifestazioni del disagio mentale non potranno che moltiplicarsi e i giovani, senza prospettive future e più a rischio, ne saranno i più colpiti».