il manifesto 16.3.18
Il centrosinistra Pd-M5S che Renzi non vuole
di Franco Monaco
È
tutto uno strologare dei più diversi scenari. In realtà, siamo ancora
inchiodati a un impasse. Dovrebbe essere chiaro che Mattarella, a norma
di Costituzione, può affidare l’incarico di formare un governo solo a
chi gli fornirà la garanzia di riuscire a mettere insieme una
maggioranza e che, allo stato, nessuno lo può fare. Neppure i
“vincitori” delle elezioni. Politicamente si può parlare di vincitori a
5Stelle, primo partito, e Lega, con un leader e una leadership del
centrodestra, la “coalizione” più votata.
Pur con un distinguo: la
brutta legge elettorale non contempla vere coalizioni politiche ma
precari e opportunistici accordi elettorali. E già si manifestano
visibili contrasti tra Lega e FI.
In questo quadro, a dominanza
proporzionale e in una democrazia tuttora parlamentare, è lì, nelle
Camere, che si formano le maggioranze di governo, attraverso confronti,
negoziati, mediazioni, compromessi. Compresi quelli che, ostinatamente e
solennemente, in campagna elettorale ci si è affannati ad escludere.
Ora siamo, scusate, all’onanismo politico.
Di Maio e Salvini rivendicano la guida del governo, non disponendo della maggioranza parlamentare necessaria.
Speculare
e altrettanto sterile è la posizione del Pd, che immagina di liquidare
la questione con la sbrigativa formula “gli elettori ci hanno consegnato
all’opposizione”. La si rappresenta come espressione di una virtuosa
coerenza. In realtà, tale posizione ha più il sapore dell’arroccamento
se non del boicottaggio a quale che sia possibile soluzione di governo
ed è originata da fattori meno nobili.
Il primo: Renzi che, come è
chiaro, non ha intenzione alcuna di mollare la presa sul Pd nonostante
la disfatta, è stato prontissimo a posizionare il partito sul no a ogni
intesa e persino a ogni confronto con i “vincitori”. Posizione comoda e
certo popolare presso elettori e militanti sconfitti, avviliti e certo
refrattari a dialogare con gli avversari.
E i timidi competitor
interni di Renzi si mostrano subalterni e quasi in ostaggio, non osando
sfidare l’ex leader portando il partito su una posizione meno sterile e
arroccata. Una posizione impegnativa sulla quale il partito, appunto, va
condotto, come compete a una vera classe dirigente.
Il secondo
fattore ha a che fare con il profilo e il posizionamento politico del Pd
forgiato dal corso renziano. Decisamente diverso da quello nel solco
dell’Ulivo, nitidamente di centrosinistra e alternativo alla destra.
Solo così si spiega la sua pratica neutralità/equidistanza tra Di Maio e
Salvini, la tesi davvero grossolana e infondata secondo la quale la
loro offerta politico-programmatica sarebbe la medesima.
Quattro
soli esempi: come non osservare che il revisionismo certo improvvisato
(e dunque da vagliare dentro un confronto) di Di Maio sull’europeismo
non trova riscontro alcuno in Salvini; che il reddito di cittadinanza
(da discutere anche per misura e coperture) risponde a una ispirazione
opposta (di sinistra) a quella della flat tax; che il profilo dei
ministri economici indicati dai 5 stelle (di nuovo da negoziare) è
decisamente keynesiano; che milioni di ex elettori Pd sono migrati verso
i 5 stelle.
Non si tratta di immaginare un governo organico
M5S-PD, ma di avviare un serrato confronto dall’esito non scritto.
Insomma di andare a vedere le carte di Di Maio, al quale compete di
prendere una chiara, esplicita iniziativa negoziale. Un Pd che
riflettesse davvero sulle ragioni della sua cocente sconfitta e della
emorragia di voti verso i 5 stelle non dovrebbe rifugiarsi
sull’Aventino, ma semmai cogliere tre opportunità: quella di costringere
i competitor grillini a declinare finalmente le loro generalità
politiche ponendo fine alla loro comoda rendita di posizione da “partito
pigliatutto”; di restituire a se stesso il profilo originario di
partito di sinistra di governo dopo il deragliamento renziano; di
raccogliere non a parole l’appello di Mattarella a che un po’ tutti si
assumano le proprie responsabilità. Sarebbe paradossale che non lo
facesse il partito di Mattarella che si proclama, più di altri, partito
rispettoso delle istituzioni.
Dunque, non solo un rischio, ma anche opportunità. Come in tutte le sfide.
Del
resto, per il Pd qual è l’alternativa? Lo sterile arroccamento,
anticamera di un inesorabile declino o l’azzardo di nuove
elezioni-ballottaggio tra Di Maio e Salvini, che sanzionerebbe la
propria marginalità.