venerdì 16 marzo 2018

il manifesto 16.3.18
Pedofilia, condanna definitiva per don Inzoli, figura storica di Cl
Mauro Inzoli in una foto d'archivio, è stato ridotto allo stato laicale da papa Francesco la scorsa estate
di Ernesto Milanesi


Sono trascorsi più di vent’anni dalle «molestie di ordine sessuale nei confronti di una pluralità indiscriminata di soggetti all’epoca minorenni», come scrive il giudice Letizia Platè, nella sentenza del Tribunale di Cremona. E già a cavallo fra 1999 e 2000 i genitori di un ragazzo si erano rivolti al vescovo di Crema Angelo Paravisi, nominato da papa Wojtila, raccontando gli abusi commessi perfino durante il sacramento della confessione.
Mauro Inzoli, 68 anni, figura di spicco della fraternità di Comunione e Liberazione, è stato definitivamente condannato in Cassazione alla pena di 4 anni 7 mesi e 10 giorni. E papa Francesco lo aveva già ridotto allo stato laicale la scorsa estate, raccogliendo l’appello della madre di un giovane traumatizzato al punto di suicidarsi.
«Giustizia è fatta! Non sta a me commentare l’entità della sentenza, ma posso dire che da parte di tanti cittadini è stata avvertita come una pena mite rispetto alla gravità dei fatti compiuti» commenta Franco Bordo, che come deputato di Sel aveva firmato il 30 giugno 2014 l’esposto che ha poi innescato l’inchiesta della magistratura.
«Sono stati anni intensi, emotivamente impegnativi, per la crudezza e l’orrore di ciò che è venuto alla luce, per la condivisione del dolore delle vittime. Ma anche per la consapevolezza che ho acquisito in merito al livello di omertà e protezione di cui ha potuto godere per lungo tempo il soggetto condannato. Spero tanto che tutti abbiano almeno capito quanto sia sbagliato e irresponsabile “girare la testa dall’altra parte”, far finta di non vedere, coprire sempre e comunque il potente di turno».
Inzoli è sinonimo del “sistema CL” non solo a Crema.
Sacerdote carismatico nel solco di don Giussani, parroco della Santissima Trinità e rettore del liceo linguistico Shakespeare, animatore della onlus “Fraternità”.
Ma come ricorda il collettivo Wu Ming: «Già presidente del Banco Alimentare e vicepresidente della Compagnia delle Opere, più volte mattatore al Meeting di Rimini nonché – si è scritto da più parti – confessore di Roberto Formigoni».
Insomma, uno dei simboli dell’intreccio fra la scuola di comunità ciellina, le opere della sussidiarietà e il “celeste buongoverno” del centrodestra.
Ma anche pedofilo, capace di piegare la Bibbia per giustificare il “battesimo dei testicoli” o il 21 settembre 2008 di abusare di un ragazzo di 15 anni nell’albergo di Falcade che ospitava il campo estivo.
Sono otto i casi di violenza sessuale ai danni di minori, consumati fra il 2004 e il 2008, acclarati nelle sentenze della magistratura. Vittime di età compresa fra i 12 e i 16 anni.
Inzoli (difeso dagli avvocati Nerio Diodà e Corrado Limentani) aveva scelto il rito abbreviato e risarcito in primo grado 25 mila euro a ciascuno dei cinque minori che erano parti civili.
Per tutti gli altri episodi emersi durante l’inchiesta la magistratura (con la Santa Sede che secretava i suoi atti) non poteva procedere.
E in Cassazione la pena definitiva per “don Mercedes” è stata ridotta rispetto agli originali 4 anni e 9 mesi grazie alla prescrizione di due episodi.
Ma resta imbarazzante e vergognosa, dentro e fuori CL, la condanna per il reato infamante di abusi sessuali su minori con l’aggravante dell’abuso di autorità.

La Stampa 16.3.18
Presunte violenze nel seminario di Gozzano: “I Legionari ci offrirono soldi per tacere”
Oggi udienza preliminare. La famiglia di uno dei ragazzi che accusa padre Gutierrez: “I vertici ci contattarono”
di Manuela Messina

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La Stampa 16.3.18
App e realtà virtuale, così la Chiesa cattolica vuole risolvere i problemi della società
Inclusione sociale, dialogo interreligioso e migranti: i temi del primo hackaton in Vaticano
di Marco Tonelli

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Repubblica 16.3.18
Sacre scritture
Il Vangelo dalla parte della Maddalena
di Vito Mancuso


La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all’ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell’Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l’anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde». Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l’ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l’avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza. Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un’occasione di preghiera; sono invece “un ministero dello Spirito Santo”, nel senso che “è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso”.
Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti».
Maria Maddalena è «il segno dell’eccesso cristiano, il segno dell’andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell’eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall’amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio».
Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell’essere, cogliendo nell’amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita». Individuare “il cuore di Dio” significa quindi per Martini individuare “il segreto della vita”. In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell’esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l’equilibrio perdendolo. È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell’essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini» ( Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini “amante estatica”, cioè letteralmente “fuori di sé” e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio. Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell’essere, “è uscita da sé”, “dono di sé”. In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che “solo l’eccesso salva”. Per “eccesso” Martini intende “uno squilibrio dell’esistenza”. E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all’origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, “equilibrio termico”? E cosa sono l’innamoramento e le passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio?
Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé… e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio». In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l’entropia e il raffreddamento». Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell’eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l’alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo».
Ovvero, conclude Martini, “la vita eterna”.

La Stampa 16.3.18
“I dem e il Movimento convergano senza fare l’errore del 2013. Di Maio non è stato eletto premier”
L’intellettuale Settis: «Il M5S abbandoni l’alibi del web»
di Giuseppe Salvaggiulo


Salvatore Settis, già presidente del Consiglio superiore dei beni culturali e direttore della Normale di Pisa, intellettuale tra i più ascoltati sia tra gli elettori di sinistra che tra quelli grillini, offre una chiave di lettura del risultato elettorale e si schiera a favore di una convergenza di governo tra Pd e M5S.
Professore, che lettura dà del risultato elettorale?
«Due cose mi paiono chiare: la forte discontinuità con gli assetti tradizionali, che denuncia la crisi di una classe dirigente che tende a rifugiarsi nel privilegio di casta anziché a fare da motore al Paese; e una mappa del voto che allontana il Sud dal Nord, confermando che il Mezzogiorno è stato marginalizzato dall’agenda di governo, e deve tornare al suo centro».
La somma dei voti di Lega, M5S e Fratelli d’Italia supera abbondantemente il 50 per cento: siamo diventati anti-europei?
«A me pare che gli italiani non dicano “no” all’Europa, ma siano molto insoddisfatti di come l’Unione sta gestendo se stessa, e in particolare le questioni del debito pubblico e della spesa sociale. A questi interrogativi non si risponde con slogan generici tipo “più Europa” o “meno Europa”, ma chiedendosi quale è l’Europa che vorremmo. Passata la febbre delle elezioni, è sul merito di questa domanda che si giocherà la capacità progettuale dei partiti».
Come mai la sinistra non ha raccolto questo disagio?
«Lacerata da contrasti interni, la “sinistra” ha passato questi anni a guardarsi l’ombelico perdendo il contatto con il Paese. Anziché ricostruire la forma-partito come luogo di discussione e di elaborazione di progetti, si è chiusa in scontri di potere, in cui la competenza specifica (sulla Costituzione, sulla scuola, sull’ambiente, sul lavoro) era meno importante di una vuota retorica delle riforme. Questa “sinistra” ha ignorato le tensioni e le sofferenze del Paese, cercando di tenerle a bada con slogan e successi effimeri. Non ci è riuscita».
Lei non è entrato nella squadra di Di Maio prima delle elezioni. È una chiusura definitiva?
«Il gioco di società del “toto-ministri” non mi interessa. Se anche Galileo fosse ministro dell’Università e della ricerca, ma in un governo che non ponga questi temi in assoluta priorità, non potrebbe fare nulla di buono. E poi: secondo la Costituzione, di nomi ha senso parlare solo quando vi sarà un presidente incaricato. Ed è facile profezia che si arriverà a questo punto fra svariate settimane, se non mesi».
A cosa attribuisce il successo della Lega?
«Cancellando dal proprio nome la parola Nord, ha raccolto consensi anche a Sud, ma resta un partito imperniato su una concezione chiusa della società, e senza nessun vero progetto che non sia la difesa di piccoli e grandi privilegi e una dannosa xenofobia. Ma ha saputo canalizzare quella parte di protesta che ieri si identificava in un Berlusconi ormai in caduta libera».
Come legge il declino parallelo di Berlusconi e di Renzi?
«Un punto in comune ce l’hanno, ed è la cieca personalizzazione della politica, una sorta di egolatria da grande leader. Ma che qualcuno sia “grande”, per verità, dovrebbero essere gli altri a dirlo. O la Storia».
Cosa pensa del M5S: movimento populista o nuova sinistra?
«“Populisti”, nel linguaggio politico italiano, sono sempre gli altri, finché vengono sdoganati arrivando al potere (come è successo alla Lega). Nei 5 Stelle c’è dentro di tutto, una metà più o meno di sinistra ma anche una componente centrista o di destra. Per diventare forza di governo, tali contraddizioni dovrebbero essere affrontate accrescendo la democrazia interna senza rifugiarsi nel facile alibi della piattaforma web».
Pd e M5S dovrebbero convergere per formare un governo?
«Dopo le elezioni del 2013 firmai gli appelli di Barbara Spinelli e Michele Serra per un governo di scopo M5S-Pd. Nonostante duecentomila firme, tutto si risolse in niente, anzi da Beppe Grillo arrivarono solo sberleffi per “gli intellettuali”. Guardando i numeri di questo Parlamento, un esperimento di alleanza di questo tipo mi pare comunque preferibile a ogni altro».
Su quale piattaforma e con quale tipo di compromesso?
«L’elaborazione programmatica di entrambi è insufficiente. Questa debolezza può diventare un punto di forza, se si avrà il coraggio di costituire un tavolo di discussione in cui tener conto non solo di quel che dicono i partiti, ma del confronto fra l’Italia e gli altri Paesi (ad esempio, lo scarso investimento in cultura), nonché delle istanze che nascono “dal basso”: dalle associazioni, dai movimenti per i beni comuni, dai cittadini».
Per favorire una simile soluzione, sarebbe auspicabile un passo di lato di Di Maio in favore di una personalità terza che non sia il leader di un partito avversario, invotabile per il Pd?
«I progetti per il futuro del Paese sono più importanti dei nomi. La Costituzione non prevede che il presidente del Consiglio esca dalle urne, ma che venga nominato dal Capo dello Stato (art. 92). Nel costume italiano sta prevalendo una specie di “presidenzialismo debole”, coi nomi dei leader indicati talvolta già sulla scheda. Io credo che dovremmo optare per un “costituzionalismo forte”».
Nei prossimi giorni parteciperà al convegno torinese dedicato a Stefano Rodotà: com’era il vostro rapporto?
«Il suo insegnamento non era solo di Diritto, ma di etica e di vita civile. Non sono un giurista, e l’ho conosciuto relativamente tardi. Vorrei cercare di dire perché e come il suo modo di affrontare il rapporto fra diritti della persona e forma della società mi abbiano affascinato e convinto».
Qual è oggi il valore della sua lezione?
«Ne scelgo fra tanti solo uno, il nesso forte, anzi necessario, fra due idee o principi: da un lato un’idea di cittadinanza inclusiva, intesa non solo come il corredo di diritti e doveri del singolo ma come tessitura della fabbrica sociale; dall’altro lato, la responsabilità individuale e collettiva di tradurre i più alti principi giuridici in azione politica».

Repubblica 16.3.18
L’Italia dopo il 4 marzo
La democrazia del pubblico
di Nadia Urbinati


Può non piacerci, ma non possiamo esorcizzare il senso del voto del 4 marzo. L’avanzata della Lega ci incute timore perché ne conosciamo l’ideologia. Il successo dei Cinquestelle ci inquieta perché le implicazioni ci sono ignote. Studiosi e opinionisti stranieri sono attenti a quello che sembra l’avvento di una nuova forma di rappresentanza. La democrazia non è avara di innovazioni; si presta alla sperimentazione perché non si appoggia su un modello predefinito, ma diventa come i cittadini la fanno essere. Certo, la democrazia post-totalitaria si è armata di regole costituzionali per limitare quel che la maggioranza poteva fare ( abbiamo visto come nei Paesi dell’Est Europa le maggioranze politiche abbiano messo in discussione questo principio). Si è anche armata di un’altra strategia di limitazione del potere: l’articolazione plurale del pubblico, con i partiti a competere per la maggioranza, non “i cittadini” e basta.
L’Italia del dopo 4 marzo mette in discussione questa strategia — il processo è solo cominciato. La reazione di rigetto nei confronti dei Cinquestelle da parte dei partiti tradizionali testimonia il timore di una democrazia nella quale potrebbe non esserci più posto per loro. La lotta contro i 5 Stelle è anche lotta per la sopravvivenza.
Chi ha studiato il governo rappresentativo, primo tra tutti Bernard Manin, ha riscontrato tre metamorfosi: dalla rappresentanza per notabilato, quando non c’era ancora il suffragio universale, alla rappresentanza dei partiti con l’avvento della democrazia; e da questa alla rappresentanza per mezzo del pubblico. Nei primi due casi, il pubblico era tenuto da chi gestiva la rappresentanza — i comitati elettorali, i partiti, i giornali. Nell’ultimo caso, il pubblico si impone direttamente e Internet rende ciò possibile. Partiti e giornalismo sono stati i due obiettivi contro i quali il M5S si è ripetutamente scagliato, fin dai suoi vagiti “vaffa”. La democrazia del pubblico vuole una direttezza di rappresentanza delle questioni e dei problemi dei cittadini, fuori dalle letture ideologiche. Come se i problemi debbano e possano parlare da sé, con i rappresentanti come procuratori e lo Stato un apparato per risolverli. Tutto questo può essere fatto senza la “casta” dei partiti, un costoso intralcio.
L’anti-partito non è nuovo. Ha partecipato addirittura alla scrittura della Costituzione. Negli anni ’40, due furono le idee anti- partitiche: quella iper- liberale dell’Uomo Qualunque, con uno Stato puro amministratore delle esigenze di sicurezza e di protezione della proprietà; e quella iper-democratica di Adriano Olivetti, con una “ comunità” federata di funzioni e professioni e una larga autonomia amministrativa. Senza partiti, in entrambi i casi, e senza ideologia — i problemi al centro. Nel Movimento 5 Stelle vivono queste pulsioni ( non dimentichiamo che Gianroberto Casaleggio operò nell’azienda di Ivrea). La matrice della democrazia dei partiti, egemonica anche grazie alla Resistenza, è stata sfidata fin dalle origini dunque; e il declino di legittimità aggravato dalla corruzione e dall’inefficienza ha fatto il resto. La democrazia post-partitica o del pubblico è populista in senso tecnico, perché rivendica una rappresentanza non per gruppi partigiani, ma per temi e problemi unificati in un leader o movimento; e con un’ambizione positivista che Internet alimenta. Qui si radica il rifiuto di filtri ideologici e il mito dei “fatti oggettivi”. Come questo muterà le istituzioni, i sistemi di controllo e la democrazia elettorale non sappiamo; ma dobbiamo preoccuparcene con prudenza. Ma è desiderabile essere avvertiti di una metamorfosi che è in corso e non si può rifiutare — un ipotetico fallimento del M5S non darà nuova linfa ai partiti. La democrazia del pubblico sembra essere giunta per restare.

Corriere 16.3.18
Filosofia
Salvatore Veca (Feltrinelli) si misura con i vincoli che limitano l’azione sociale: stringenti, ma non insuperabili
La storia non è un senso unico
Margaret Thatcher aveva torto, c’è spazio per un’alternativa riformatrice
Il passato conteneva molte possibilità. Le cose potevano andare diveramente
di Maurizio Ferrera


Il discorso politico contemporaneo, soprattutto in Europa, è sempre più intriso di «necessità». La globalizzazione, si dice, impone conformità alle logiche di mercato. Le tecnostrutture sovranazionali dettano regole vincolanti basate su semplici numeri. Il motto di Margareth Thatcher — there is no alternative — domina le scelte di governo e sempre più anche quelle individuali (pensiamo al mercato del lavoro). È il trionfo di quella colonizzazione del «mondo della vita» da parte degli «imperativi sistemici» di cui parlano da molto tempo autori come Jürgen Habermas o Axel Honneth. Una dinamica che genera inevitabilmente nuove diseguaglianze: le capacità e le opportunità di adattamento non sono equamente distribuite. Gli elettori esprimono disagio e protesta. Ma se non si danno alternative reali e credibili, il confronto democratico degenera in una inconcludente agitazione.
Nel suo ultimo libro Il senso della possibilità (Feltrinelli), Salvatore Veca indica una strada per uscire da questo vicolo cieco. Di fronte alla dittatura del presente e delle sue supposte necessità, sostiene, occorre recuperare appunto il «senso della possibilità». L’idea che non vi siano alternative nasce dalla nostra ignavia, dal mancato esercizio di spirito critico nei confronti dello status quo, dei paradigmi dominanti e delle loro false necessità. E, soprattutto, dalla diffusa rinuncia a usare l’immaginazione, a elaborare futuri possibili, a «prenderci per mano, ragionare e operare per forme più decenti di convivenza».
Salvatore Veca è uno dei più noti e originali filosofi contemporanei. Il volume presenta i risultati di una nuova fase delle sue ricerche, che lo avevano portato a riflettere prima sull’incertezza (su che cosa è il mondo e su ciò che vale) e poi sull’incompletezza (sulla natura e i limiti delle nostre interpretazioni del mondo). Per certi aspetti, il «senso della possibilità» si può considerare la pars construens del pensiero di Veca. Ai margini dell’incertezza e dell’incompletezza si aprono infatti i varchi del possibile. Una modalità dell’essere che lo sottrae al necessario, che conferisce al presente (all’attualità) un carattere plastico e che apre margini per scegliere il futuro.
I capitoli del libro sono spesso tecnici, si confrontano con teorie e modelli situati alla frontiera del dibattito filosofico. Anche chi non padroneggia gli strumenti della filosofia e della logica trova però nel volume spunti di estremo interesse. Il «senso della possibilità» può essere usato come una chiave per aprire due «scatole» da cui sono scaturiti molti di quei discorsi sulla necessità di cui oggi ci sentiamo prigionieri.
La prima scatola è quella della storia, dello sviluppo umano nel tempo. Noi siamo inevitabilmente immersi nel presente: l’attuale ha priorità su passato e futuro. Ciò che è stato non può essere disfatto. E questo pone alcuni vincoli ineludibili (dunque necessari) per costruire ciò che sarà. Eppure il presente è circondato dal possibile. Lo è retrospettivamente, innanzitutto. Le cose avrebbero potuto andare altrimenti. La realtà di oggi (compresi i famosi «imperativi sistemici») non è che il distillato, nel bene e nel male, di mondi possibili che abbiamo di volta in volta scartato nel passato in base a fattori e scelte contingenti.
Il mondo attuale è l’unico sopravvissuto. Ma il senso della possibilità ci sottrae all’incubo dei destini inevitabili, degli ingranaggi storici che ci relegano al ruolo di automi. Usato in ottica prospettica, il senso della possibilità ci rende invece liberi di immaginare un’ampia gamma di scenari futuri e ci sprona all’impegno per valutarli e realizzarli.
La seconda scatola è quella della politica. Si tratta della sfera di attività umana che gestisce il presente, lo guida nel mare aperto delle possibilità. La chiave di Veca fa però fatica ad entrare in questa scatola. Gli imperativi della necessità hanno come bloccato la serratura, soffocando il più potente generatore di mondi possibili che siamo riusciti a inventare come umani: la liberaldemocrazia. La colpa non è del «sistema», intendiamoci, che è contingente nella sua genesi e non necessitante rispetto al futuro. Il generatore liberaldemocratico si è inceppato perché è stato usato in modo irresponsabile sia dai governati sia dai governanti. Questi ultimi non hanno poi fatto adeguata manutenzione (pensiamo al deficit democratico della Unione Europea).
Possiamo sbloccare la serratura? Ovviamente sì, ma l’esercizio richiede alcuni atti di equilibrismo. Chi governa il presente deve riappropriarsi del senso di possibilità, sfidando i tanti sacerdoti del «non si può fare altrimenti». Chi agita l’inquietudine dei governati (pensiamo ai leader populisti) deve a sua volta calibrare la propria immaginazione in base ai materiali disponibili, oggi, nel reale. I mondi possibili sono tanti, ma non tutti sono accessibili dal punto in cui ci troviamo. E, come ricorda Veca, alcuni non sono neppure desiderabili.

il manifesto 16.3.18
L’incognita a 5Stelle, al bivio tra destra e sinistra
Dopo il voto. Per evitare un possibile sfibramento del sistema politico o i 5Stelle scelgono la via consociativa (con la destra) o confluiscono come perno in un nuovo centrosinistra
di Michele Prospero


Il voto è la certificazione della crisi della sinistra politica e sociale.
La catastrofe della sinistra politica segue i guasti accumulati in oltre vent’anni. La distruzione delle culture politiche di massa, in nome del partito personale, ha provocato un vuoto paralizzante nella capacità di trattenere, orientare.
Secondo una visione prevalente, il deficit della sinistra era quello di avere paura del leader. E quindi la ricetta vincente consisteva nell’accelerare le procedure verso i riti di investitura del capo.
Esiste una slavina lunga che coinvolge Prodi, Veltroni e precipita sino a Renzi che ha scelto la destrutturazione di antiche cose della sinistra.
Non solo le sezioni, ma persino i circoli erano sopravvivenze vetuste. Non si tratta di una semplice modellistica dell’organizzazione.
L’opzione per le primarie aperte nella corsa verso il partito leggero presidenzializzato, che eliminava la parola stessa congresso sciogliendola nei gazebo, sanciva la de-ideologizzazione del soggetto politico e la sua omologazione alle pratiche di un partito delle cariche elettive, senza radici identitarie per la rinuncia ad ogni idea di società da progettare con la grande politica.
La marcia della Lega nelle antiche regioni dell’insediamento comunista rappresenta la più rilevante cesura in termini storico-politici avvenuta nel voto di marzo. La destra ha spiantato le ultime finzioni di un partito erede della tradizione del civismo del movimento operaio e contadino, e ha mutato radicalmente la geografia delle culture politiche.
Non esiste più l’Italia rossa, e tutti i simulacri politici che la ricordavano sono stati falcidiati.
Le conseguenze di questa mutazione genetica dell’Italia di mezzo sono incalcolabili. Collassa ciò che di residuale restava ancora di una subcultura che anche come area di cuscinetto garantiva una sorta di collante nazionale capace di frenare le pulsioni di destra che nel nord produttivo erano diventate dominanti nella seconda repubblica.
La differenziazione territoriale tra un centro nord a forte trazione leghista e un centro sud a trascinamento 5Stelle rappresenta una incognita nella capacità di persistenza del sistema politico.
Se la polarizzazione tra destra e M5S è al tempo stesso una frattura tra gli spazi, e se le proposte economico-sociali alternative (reddito di cittadinanza o politiche redistributive e flat tax o Stato minimo in funzione dei produttori) si legano a un antagonismo a fondamento territoriale è evidente il rischio di sfibramento del sistema.
O si dà un approdo consociativo alla eruzione determinata dalle urne per ricucire il sistema (governabilità condivisa tra i due vincitori) o i Cinque stelle confluiscono, come componente egemonica, in un schieramento plurale di forze di centro e di sinistra ostili alla destra: oltre queste evoluzioni sistemiche, si restringono i margini per aggiustamenti disegnati da una forte spinta di sinistra.
Ma il dato politico della crisi del sistema non può offuscare il volto dell’altro grande malato: il sindacato del conflitto.
Malconcia, oltre a quella dei simulacri di partito, pare anche l’immagine del sindacato: non solo non orienta voti alle espressioni politiche “amiche”, ma palesa una perdita di insediamento e un deficit di cultura politica che ne dissolve la funzione storica.
Al centro nord l’operaio atomizzato e senza classe è stato sedotto dal verbo leghista (con più marcate adesioni però, e anche tra i quadri, verso il simbolo del M5S) e al centro sud è stato attratto dalle rivendicazioni sociali del M5S. Solo in questi termini deteriori il sindacato conserva una parvenza di coesione nazionale.
Si sgretola la connessione tra classe e politica, e il sindacato privo di rappresentanza appare come destinatario di una pura delega corporativa.
Ciò segna la crisi radicale del sindacato, che non riesce più a pensare in termini politici. Dinanzi alla lunga caduta del partito amico incapace di interpretare un ruolo nei conflitti della società, al sindacato restava una inedita opzione strategica, che però non è stata afferrata: invertire il rapporto gerarchico novecentesco tra partito guida e sua cinghia sindacale per farsi regista di un nuovo partito del lavoro, espresso dalle forze organizzate.
La formula della «coalizione sociale» qualcosa del genere comportava, ma è scomparsa e non ha lasciato né invenzioni organizzative né precisazioni politiche. Se la Lega è il tribuno del Nord e il M5S diventa il tribuno del Sud ciò vuol dire che non solo la politica ma anche il sindacato ha contribuito alla crisi democratica.
Certi discorsi interrotti, su come innestare soggetti del pluralismo sociale con la ridotta identitaria che comunque ha consentito di varcare la soglia di sbarramento, vanno al più presto riannodati.

il manifesto 16.3.18
Il centrosinistra Pd-M5S che Renzi non vuole
di Franco Monaco


È tutto uno strologare dei più diversi scenari. In realtà, siamo ancora inchiodati a un impasse. Dovrebbe essere chiaro che Mattarella, a norma di Costituzione, può affidare l’incarico di formare un governo solo a chi gli fornirà la garanzia di riuscire a mettere insieme una maggioranza e che, allo stato, nessuno lo può fare. Neppure i “vincitori” delle elezioni. Politicamente si può parlare di vincitori a 5Stelle, primo partito, e Lega, con un leader e una leadership del centrodestra, la “coalizione” più votata.
Pur con un distinguo: la brutta legge elettorale non contempla vere coalizioni politiche ma precari e opportunistici accordi elettorali. E già si manifestano visibili contrasti tra Lega e FI.
In questo quadro, a dominanza proporzionale e in una democrazia tuttora parlamentare, è lì, nelle Camere, che si formano le maggioranze di governo, attraverso confronti, negoziati, mediazioni, compromessi. Compresi quelli che, ostinatamente e solennemente, in campagna elettorale ci si è affannati ad escludere.
Ora siamo, scusate, all’onanismo politico.
Di Maio e Salvini rivendicano la guida del governo, non disponendo della maggioranza parlamentare necessaria.
Speculare e altrettanto sterile è la posizione del Pd, che immagina di liquidare la questione con la sbrigativa formula “gli elettori ci hanno consegnato all’opposizione”. La si rappresenta come espressione di una virtuosa coerenza. In realtà, tale posizione ha più il sapore dell’arroccamento se non del boicottaggio a quale che sia possibile soluzione di governo ed è originata da fattori meno nobili.
Il primo: Renzi che, come è chiaro, non ha intenzione alcuna di mollare la presa sul Pd nonostante la disfatta, è stato prontissimo a posizionare il partito sul no a ogni intesa e persino a ogni confronto con i “vincitori”. Posizione comoda e certo popolare presso elettori e militanti sconfitti, avviliti e certo refrattari a dialogare con gli avversari.
E i timidi competitor interni di Renzi si mostrano subalterni e quasi in ostaggio, non osando sfidare l’ex leader portando il partito su una posizione meno sterile e arroccata. Una posizione impegnativa sulla quale il partito, appunto, va condotto, come compete a una vera classe dirigente.
Il secondo fattore ha a che fare con il profilo e il posizionamento politico del Pd forgiato dal corso renziano. Decisamente diverso da quello nel solco dell’Ulivo, nitidamente di centrosinistra e alternativo alla destra. Solo così si spiega la sua pratica neutralità/equidistanza tra Di Maio e Salvini, la tesi davvero grossolana e infondata secondo la quale la loro offerta politico-programmatica sarebbe la medesima.
Quattro soli esempi: come non osservare che il revisionismo certo improvvisato (e dunque da vagliare dentro un confronto) di Di Maio sull’europeismo non trova riscontro alcuno in Salvini; che il reddito di cittadinanza (da discutere anche per misura e coperture) risponde a una ispirazione opposta (di sinistra) a quella della flat tax; che il profilo dei ministri economici indicati dai 5 stelle (di nuovo da negoziare) è decisamente keynesiano; che milioni di ex elettori Pd sono migrati verso i 5 stelle.
Non si tratta di immaginare un governo organico M5S-PD, ma di avviare un serrato confronto dall’esito non scritto. Insomma di andare a vedere le carte di Di Maio, al quale compete di prendere una chiara, esplicita iniziativa negoziale. Un Pd che riflettesse davvero sulle ragioni della sua cocente sconfitta e della emorragia di voti verso i 5 stelle non dovrebbe rifugiarsi sull’Aventino, ma semmai cogliere tre opportunità: quella di costringere i competitor grillini a declinare finalmente le loro generalità politiche ponendo fine alla loro comoda rendita di posizione da “partito pigliatutto”; di restituire a se stesso il profilo originario di partito di sinistra di governo dopo il deragliamento renziano; di raccogliere non a parole l’appello di Mattarella a che un po’ tutti si assumano le proprie responsabilità. Sarebbe paradossale che non lo facesse il partito di Mattarella che si proclama, più di altri, partito rispettoso delle istituzioni.
Dunque, non solo un rischio, ma anche opportunità. Come in tutte le sfide.
Del resto, per il Pd qual è l’alternativa? Lo sterile arroccamento, anticamera di un inesorabile declino o l’azzardo di nuove elezioni-ballottaggio tra Di Maio e Salvini, che sanzionerebbe la propria marginalità.

Il Fatto 16.3.18
Governo transitorio 5Stelle-Lega: forse è il male minore
di Angelo Cannatà


È noto che Platone preferiva i re-filosofi. Per usare le sue parole: “Io vidi che il genere umano non sarebbe mai stato liberato dal male, se prima non fossero giunti al potere i filosofi o se i reggitori di Stato non fossero diventati veramente filosofi” (Lettera VII). È una visione idealista che affascina, e oggi – ci fossero le condizioni per realizzarla – porterebbe alla presidenza del Consiglio, per dire, un intellettuale come Zagrebelsky: chi meglio di un costituzionalista al potere, per scrivere tra l’altro la nuova legge elettorale? Ipotesi interessante (cfr. Flores d’Arcais, micromega.net, 6.3.2018), ma temo – spero di sbagliarmi – che le aspettative vadano temperate dal sano realismo: pensiamo alla politica com’è non come dovrebbe essere, seguendo il consiglio che il Segretario fiorentino formulò non solo ne Il Principe. Dunque, valutazione dei rapporti di forza. I 5Stelle da soli non possono governare ma non debbono nemmeno, col 33%, lasciare la regia a B. per inciuci indicibili. Sartre, ne Le mani sporche, affronta molti temi, uno ci riguarda da vicino: in momenti difficili è possibile allearsi con un avversario se le circostanze storiche lo richiedono? Siamo sul finire della Seconda guerra mondiale: “Hoederer: ‘Noi lottiamo contro la classe che produce questa politica e questi uomini’.
Hugo: ‘E il mezzo migliore che abbiate trovato per lottare contro essa è offrirle di dividere il potere con voi?’
Hoederer: ‘Come tieni alla tua purezza, ragazzo! Hai paura di sporcarti le mani… La purezza è un’idea da fachiri, da monaci. Voialtri, intellettuali, anarchici borghesi, vi trovate la scusa per non far nulla… Credi proprio che si possa governare innocentemente?… Se trattiamo col Reggente, questi interromperà la guerra, le truppe illiriche aspetteranno cortesemente che i russi vengano a disarmarle; se interrompiamo le trattative, il Reggente capirà d’essere perduto e si batterà come un cane arrabbiato; centinaia di migliaia di uomini vi lasceranno la pelle. Che ne dici?… Puoi cancellare centomila uomini con un tratto di penna?’”.
Idealismo contro realismo in tempo di guerra: di questo parla Sartre. E in tempo di pace? Ci sono situazioni difficili in cui è giusto oggi che tra avversari si dialoghi e ci si incontri? Nel nostro Paese – in forte crisi economica e sociale – non si ripresenta l’eterno scontro tra idealismo e realismo? Salvini è il competitor dei 5Stelle e – in linea di principio – non ci si allea con gli avversari. E tuttavia, se la Lega abbandonasse certi slogan da campagna elettorale, se attenuasse i toni razzisti, se concordasse un programma con i 5Stelle – attenzione ai deboli, legge elettorale, eccetera – una convergenza “breve e tattica” sarebbe oggi il male minore. Leggo che Berlusconi è “preoccupato per una possibile alleanza Lega-5Stelle”. Preoccupato? È un dato da non sottovalutare. Abbiamo già sperimentato il Caimano e Renzi: un’indecenza. Oggi a che punto siamo? A “una gigantesca gaffe collettiva del ceto medio riflessivo – dice Mieli – in vista di un balzo sul carro dei 5Stelle”. È così? Credo che il problema vero sia un altro: che un Pd derenzizzato e dialogante non esiste. Di Maio avanzi proposte non rifiutabili. Verifichi. Mostri flessibilità. Medi sul programma e apra a esterni di centrosinistra. In caso di rifiuto accada ciò che deve accadere: nuove elezioni, dopo aver formato un governo di transizione con Salvini: si mettano da parte i punti di contrasto e si lavori alla nuova legge elettorale e a qualche tema comune (modifica della Fornero, eccetera). Quella che fino a ieri sembrava una pura ipotesi, comincia ad apparire una tesi da valutare. Urge sporcarsi le mani, direbbe Sartre, e mandare a casa quanti il concetto di responsabilità l’invocano solo quando coincide coi loro interessi.

Il Fatto 16.3.18
Da B. fino a Franceschini: cresce il partito del non-voto
La strategia dei “perdenti” per non riaprire le urne (e scomparire del tutto). Ecco chi tifa per un governo a tutti i costi
di Luca De Carolis e Wanda Marra


Il M5S che è arrivato primo prepara il “suo” Def e proposte di programma. E pensa a nuovi ministri tecnici, più noti e trasversali. Ma la vera arma di Luigi Di Maio per arrivare al governo è la paura degli altri: quella di tornare al voto, a breve. Un timore diffuso. Così forte da far dire a Silvio Berlusconi che “piuttosto che tornare a votare, meglio cercare un accordo anche con i 5Stelle, come può fare Matteo”. E Matteo è ovviamente Salvini, a cui nel vertice di mercoledì del centrodestra Berlusconi ha dato il via libera per trattare con il M5S. E non solo sulle presidenze delle Camere: ma anche su un appoggio a un loro governo, se servisse. “Se andassimo a un nuovo voto a breve, i 5Stelle farebbero il pieno”, ha scandito Berlusconi di fronte al leader della Lega e alla presidente di Fratelli d’Italia, una corrucciata Giorgia Meloni.
Il Caimano sa che Forza Italia può solo indebolirsi da qui in avanti. Quindi meglio tenersi aperta ogni strada: compresa quella verso un governo del M5S assieme alla Lega, con FI (o parte di essa) a rinforzo. Una mossa che Berlusconi motiverebbe con il “senso di responsabilità” e tutto il corollario retorico del caso. E già Libero ieri aveva titolato sul “Silvio che strizza l’occhio a Di Maio”, prendendosi la smentita dell’interessato: “Io ai 5Stelle apro la porta per cacciarli”. Poi però nel pomeriggio Salvini ha rilanciato: “Berlusconi chiude al M5S? Non mi sembra, stiamo ragionando di programmi”.
Nel frattempo a Roma i capigruppo del Movimento, Giulia Grillo e Danilo Toninelli, hanno iniziato gli incontri con i partiti sulle presidenze delle Camere. E in fila hanno visto Pietro Grasso per LeU, Maurizio Martina e Lorenzo Guerini per il Pd, Renato Brunetta per Forza Italia e il leghista Giancarlo Giorgetti. “Incontri interlocutori, non si è parlato di nomi”, giurano dai vari fronti. I due capigruppo grillini rivendicano: “Abbiamo ribadito a tutti di voler slegare le nomine dalla questione del governo, e abbiamo registrato l’apertura sia del Pd che della Lega sul metodo”. Il M5S, come già chiarito mercoledì da Di Maio, pretende la presidenza di Montecitorio. E la prima scelta è un fedelissimo del candidato premier, Riccardo Fraccaro: ex segretario dell’ufficio di presidenza, tra i più attivi per l’abolizione dei vitalizi, non a caso citati mercoledì da Di Maio. Mentre per il Senato punta a due vicepresidenti (Paola Taverna e forse Vito Crimi). Nell’attesa Ettore Rosato del Pd assicura: “Se ci saranno candidature convincenti, le voteremo”. La delegazione dem, composta da Martina e Guerini, per adesso, si è limitata a chiedere “figure autorevoli”. E si è preoccupata di garantirsi il “minimo sindacale”: ovvero una vice presidenza del Senato, una della Camera e un Questore in ognuno dei due rami del Parlamento.
Il Pd è tramortito e frammentato, ma anche consapevole che con il ritorno al voto rischia di essere spianato definitivamente. E anche se la risposta standard ufficiale è “siamo alla finestra, non tocca a noi”, le trattative verso un governo vanno avanti. C’è tutto un fronte che guarda ai Cinque Stelle. Prima di tutto, Dario Franceschini: sarebbe il protagonista della trattativa. Tra i motivi per cui Renzi il giorno dopo le elezioni aveva dichiarato di voler “congelare” le dimissioni a dopo la formazione del governo, ci sarebbe stata proprio la volontà di fermare il ministro della Cultura, che stava lavorando a un accordo che lo doveva portare alla presidenza di Montecitorio.
Se Michele Emiliano si è esposto esplicitamente, sono in molti – a partire dagli orlandiani – che aspettano un segnale da Di Maio. “Il Pd sta aspettando un’iniziativa politica. Bersani mise in campo gli 8 punti nel 2013. Facessero qualcosa del genere, ci permettessero di cambiare posizione. Certo, la cosa non può partire da noi”, ragionano nel Pd. I gruppi parlamentari dem sono divisi, con i renziani che, almeno sulla carta, sarebbero pronti a “impallinare” qualsiasi tentativo del genere. L’ex segretario non ha nascosto il suo tifo per un accordo Di Maio- Salvini, che servirebbe a depotenziarli e a “smascherarli”, nella sua ottica, ma comincia a temere un governo breve, per fare una legge elettorale a loro favorevole.
E se Martina in realtà lavora in tandem con Franceschini, in maniera parallela entrano in campo anche le altre componenti, a partire da Luca Lotti. Difficile per gli interlocutori capire se qualcuno possa garantire per il Pd. E dunque, per dividere Di Maio da Salvini, i dem potrebbero decidere di usare i loro parlamentari per far eleggere il leghista Giorgetti alla Camera e Paolo Romani in Senato (il candidato più quotato in assoluto). Sullo sfondo resta il governo di scopo, l’esecutivo di tutti, l’approdo meno sgradito.

Il Fato 16.3.18
Bentornato Parlamento: adesso mettetelo a lavorare
di Antonio Padellaro


Secondo un antico detto, da cosa nasce cosa: molto calzante a partire da venerdì 23 marzo quando la prima seduta del nuovo Parlamento metterà in moto un meccanismo che potrebbe prendere velocità con esiti imprevedibili. Soprattutto se, come possibile, Cinque Stelle e Lega proveranno a trasformare la loro maggioranza numerica in un’intesa gialloverde ad ampio spettro.
I vertici delle Camere per cominciare. A Palazzo Madama i 112 senatori del M5S più i 58 della Lega (170 sul totale di 315), e a Montecitorio i 227 deputati grillini sommati ai 124 leghisti (351 sul totale di 630) potrebbero, da soli, spartirsi le due poltrone più importanti. E, a cascata. le presidenze delle commissioni parlamentari (centri di potere effettivo). A eccezione di quelle cosiddette di garanzia (Servizi segreti, Rai, Antimafia), per prassi assegnate alle minoranze che tuttavia si conosceranno dopo la formazione del governo. Altra questione è se i due vincitori riusciranno a mettersi d’accordo e su quali nomi. Altra questione ancora riguarda Matteo Salvini e l’accordo elettorale stipulato con Silvio Berlusconi. Che ha già fatto sapere che davanti a questo flirt lui a tenere il moccolo non ci pensa proprio.
Il Parlamento può fare tutto. Come ha spiegato su queste colonne Paola Zanca, anche in assenza di nuovo governo operativo (quello dimissionario di Paolo Gentiloni può solo occuparsi dell’ordinaria amministrazione), una volta insediate per dare il via alla XVIII legislatura le Camere potranno mettere ai voti qualsiasi provvedimento. Perfino quella nuova legge elettorale con premio di maggioranza a cui Luigi Di Maio e Matteo Salvini si mostrano molto interessati. Un secondo round elettorale in autunno avrebbe infatti senso solo se indicasse, in una sorta di finalissima tra i favoriti, la coalizione o il movimento o il partito con i numeri per governare. C’è di più: volendo Lega e M5S hanno già i seggi necessari per concordare e approvare a maggioranza qualunque legge. Nell’immediato (come ha scritto Carlo Cottarelli su La Stampa) non mancano le convergenze per ridurre burocrazia e corruzione, fermare l’immigrazione irregolare, abolire la legge Fornero, tagliare gli sprechi e (tanto per cominciare) abolire i vitalizi dei parlamentari. Mentre per trovare un punto d’equilibrio tra l’impegnativo proposito leghista di non rispettare le regole fiscali europee (il mitico tetto del 3 per cento nel rapporto deficit-Pil) e le più vaghe ipotesi pentastellate sul deficit “flessibile”, occorrerebbe più tempo. In attesa che da cosa nasca cosa. E un governo Lega-M5S? Oggi appare complicato assai. Visto però che ci siamo fatti prendere la mano dai proverbi: mai dire mai.
Tutto il potere al Parlamento? Dopo i governi forti, i partiti padronali, gli uomini soli al comando e tutti gli altri espedienti per limitare e mortificare il potere legislativo in un ruolo puramente servile al potere esecutivo, l’Italia Repubblica parlamentare, “torna a esserlo pienamente dopo vent’anni di maggioritario” (Marco Palombi). Pensateci bene, la tempesta perfetta scaturita dal voto del 4 marzo ha lasciato in superficie oltre ai relitti di Pd e Forza Italia lo sfasciume di inciuci e nazareni vari. Ma, soprattutto, nell’assenza – che potrebbe protrarsi a lungo – di un governo sostenuto da una maggioranza organica e nel pieno delle funzioni ha restituito al Parlamento la famosa centralità, cuore di ogni democrazia rappresentativa. Forse non sarà il caso di evocare la Sala della Pallacorda e il Terzo Stato (anche se numerosi consensi a Cinque Stelle e Lega provengono dagli “ultimi” e dai “penultimi” nella scala sociale). Non sfugga però che del 23 marzo in poi la sovranità delle Camere potrà esprimersi in tutta la sua pienezza. Come non avveniva da tempo.
A meno che. Certo, non è affatto detto che il Pd (ancora renziano) e che Forza Italia (ancora berlusconiana) si facciano espropriare così facilmente di un potere radicato di interdizione e “ricatto” politico. Entrambi temono come la peste il ritorno alle urne prima di aver rimesso a posto i cocci della dolorosa sconfitta. Ciò potrebbe convincere il Pd a trattare la possibilità di dare il via a un governo M5S, di cui non farebbe parte (ipotesi Cacciari). Per poi tenerlo sulla graticola, dimostrarne l’inconsistenza e nel mentre riorganizzarsi. Diverso il problema di Berlusconi, che ha ben compreso il disegno salviniano di sottrargli gradualmente pezzi del partito. Non inganni il disarmo elettorale dell’ex Cavaliere: il suo potere economico, e soprattutto mediatico, resta intatto e potrebbe incattivirsi. Il “tradimento” di Salvini avrebbe delle conseguenze. In fondo Gianfranco Fini fu triturato per molto meno. Da cosa nasce cosa.

La Stampa 16.3.18
Il Pd è diventato il partito più borghese di Milano: cresce in via della Spiga e corso Monforte
L’analisi strada per strada grazie alla nostra piattaforma interattiva: Forza Italia tiene, i 5 Stelle conquistano l’Ortomercato, exploit della Lega nelle periferie
di Fabio Poletti

qui

Corriere 16.3.18
L’ultima utopia di Beppe che rispolvera Marx e il mondo senza lavoro
di Pierluigi Battista


Reddito di nascita lontano dalla linea Di Maio
Nel Palazzo Luigi Di Maio fa il moderato, il perbenista, cita De Gasperi, mette la tattica politica al primo posto, media, smussa, si intrattiene con la stampa estera per salvaguardare l’immagine internazionale, cita i vescovi, indossa sempre la stessa cravatta per dire al mondo che lui non è uomo di zig zag imprevedibili, cerca le coperture finanziarie per il reddito di cittadinanza. Nel suo blog tutto nuovo e purificato Beppe Grillo, lontano dalle pastoie della politica quotidiana, dà invece fondo al suo utopismo estremo, anzi estremista. Attinge al suo repertorio di «visionario», come si dice cambiando radicalmente la semantica di un termine che prima indicava uno squilibrato che aveva le allucinazioni, le visioni, e invece indica uno che guarda lontano e che ha una visione. La visione di Beppe Grillo, assicura lui sul suo blog, non è più il reddito di cittadinanza, che il fondatore dei 5 Stelle tratta oramai alla stregua di una prosaica riformetta. Ma il reddito di nascita, l’idea che qualunque essere umano, per il semplice fatto di esistere al mondo debba essere titolare di un diritto alla retribuzione sganciato da quel reperto archeologico che secondo Grillo è stato sinora la fonte di quel reddito: il lavoro.
Basta, sostiene Grillo, il lavoro non è che va abolito, si è abolito da sé. La maledizione del lavoro ha cessato di esercitare i suoi effetti malefici. Ora con le stampanti 3D e i robot, l’umanità può tranquillamente buttare il lavoro nella spazzatura della storia. Chissà che umanità tutta sbadigli e inettitudine nelle attività più semplici porterà la visione grillesca di un mondo dove non servirà lavoro nemmeno per sollevare il peso immane di una tazzina di caffè da portare alle labbra. Ma è tutta una mitologia lavorista, o laburista, con i suoi miti della classe operaia, delle fabbriche, dei campi da coltivare, delle officine fumose, una mitologia che è stata carne e sangue della sinistra e del movimento operaio per tutto il secolo scorso che viene meno in questa visione. Oppure potrebbe essere il contrario. E cioè che la visione grillesca, la sua utopia da blog tutto nuovo e senza il peso della politica quotidiana, si riallacci a correnti molto potenti della storia della sinistra. Un’umanità di sfaccendati senza lavoro? Ma quando faceva sul serio il visionario, lo stesso Karl Marx, molto prima dell’avvento dei robot e delle stampanti 3D, descriveva il comunismo come un idillio in cui la costrizione del lavoro sarebbe svanita, e l’umanità, emancipata dal peso dell’alienazione, si sarebbe dilettata nella coltivazione del tempo liberato: «Fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».
Ora, andare a caccia oramai è ecologicamente scorretto, ed è difficile fare della pastorizia il centro degli interessi di un giovane iper-connesso del ventunesimo secolo. Ma la visione di Beppe Grillo, che Di Maio non deve seguire perché deve rassicurare i mercati internazionali e i vescovi italiani, riprende alcune suggestioni di una storia che per esempio difficilmente potrebbero trovare cittadinanza nell’altra variante, quella leghista e salviniana e nordista, dell’epopea antipolitica del 4 marzo. E del resto sui fogli dell’estrema sinistra degli anni Settanta campeggiavano titoli, nell’occasione della festa del Primo maggio, in cui si proclamava stentoreo l’obiettivo: «Contro il lavoro». Nessuno però aveva osato immaginare un reddito che avrebbe gratificato chiunque fosse nato. Un’utopia, dice Grillo. Ma si sa che nella storia molto spesso le utopie paradisiache hanno generato molti inferni totalitari terreni.

il manifesto 16.3.18
30mila in fuga da Afrin, la Turchia affama la città
Siria. A bordo di pickup e furgoncini intere famiglie scappano dalle bombe che piovono incessanti da giorni. Erdogan attacca il Parlamento europeo colpevole di una mozione che chiede lo stop all'operazione contro il cantone curdo-siriano
di Chiara Cruciati


Trentamila persone sono fuggite in 48 ore da Afrin. «I bombardamenti e i colpi di artiglieria non si sono fermati mai», denuncia il portavoce delle unità di difesa popolare Ypg, Birusk Hasaka: le bombe dell’aviazione turca piovono senza sosta da giorni sul centro della principale città del cantone curdo-siriano nel nord-ovest del paese, decine le vittime. Solo mercoledì, riporta l’agenzia cuda Anf, sono morte 13 persone di cui sette bambini, ieri tre bambini e due donne.
Secondo il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin, «il controllo di più del 70% di Afrin è stato assicurato, il cerchio si è completamente chiuso intorno ai terroristi e prevediamo che il centro della città sarà a breve ripulito ».
Gli sfollati stanno raggiungendo le zone controllate dal governo di Damasco, a sud-est di Afrin, nella direttrice per Aleppo. Fuggono a bordo di furgoncini e pick-up verso la sola via di fuga possibile da una città ormai quasi priva di acqua e cibo: l’esercito turco ha tagliato l’acqua da giorni e i prodotti alimentari dal resto di Rojava non entrano.
Ankara sta prendendo la popolazione per fame, una comunità che finora ha resistito a due mesi di operazioni aeree e di offensiva via terra di 20mila miliziani islamisti al soldo del presidente Erdogan.
Che non fa passare giorno senza lanciare dichiarazioni di guerra alla regione curdo-siriana, considerata una minaccia nonostante non abbiano mai rivolto le armi contro il territorio turco. A far paura è il progetto politico realizzato da Rojava, quel confederalismo democratico che ha permesso l’autogestione delle comunità curde, arabe, turkmene e che viene letta da Ankara come il primo passo di un contagio politico del suo sud-est, curdo.
Da qui la necessità di ribadire la minaccia: «Abbandonate le vostre speranze – ha detto ieri Erdogan – Non lasceremo Afrin fino a quando il nostro lavoro non sarà completato». Il mittente è il Parlamento europeo, sola istituzione dell’Unione a essersi espressa sul massacro in corso nel cantone: ieri con 372 voti a favore ha approvato una mozione che chiede alla Turchia di ritirarsi da Afrin.
«Ehi, Parlamento europeo, che stai facendo? – ha tuonato il presidente turco, che due giorni fa ha incassato tre miliardi dalla Commissione Ue per tenersi tre milioni di profughi siriani – Il Parlamento europeo non può dirci di fare niente. La tua dichiarazione entra da un orecchio ed esce dall’altro». E cita proprio quei tre milioni di profughi, facendosi scudo dietro i loro corpi: dopotutto è ad Afrin che Ankara intende trasferire centinaia di migliaia di siriani, stravolgendo la demografia della zona e trasformandola in un feudo turco protetto dagli uomini dell’Esercito Libero Siriano, opposizione ad Assad.
I rumor su un passaggio di Afrin al governo di Damasco che circolavano ieri, infatti, sono stati smentiti dall’ufficio della presidenza che conferma invece l’accordo raggiunto con gli Stati uniti sull’evacuazione dalla vicina Manbij delle Ypg/Ypj.

il manifesto 16.3.18
Gaza, laureati in gabbia
Palestinesi. In quella che è diventata la "prigione" più grande del mondo, migliaia di giovani laureati soffrono gli altissimi livelli di disoccupazione. Senza prospettive, chiusi nella morsa del blocco di Israele ed Egitto, sono vittime di frustazione e depressione. E tanti sognano di andare via.
di Michele Giorgio


GAZA Sara Daghmosh ha un diavolo per capello. Entra sbuffando nel “Centro italiano di scambio culturale Vik” che porta il nome dell’attivista e scrittore Vittorio Arrigoni ucciso nel 2011 a Gaza. «Meri, hanno respinto la mia domanda. Non riesco a capire. Avevo i titoli giusti per frequentare quel corso universitario (in Italia) e invece dovrò aspettare un altro anno», dice la giovane palestinese rivolgendosi a Meri Calvelli, la responsabile del centro. E apre i file nel suo computer per dimostrare di aver rispettato la procedura alla lettera. Calvelli legge con attenzione. «Ha ragione» riconosce «è tutto in ordine, temo che l’università abbia risposto negativamente perché tanti ragazzi palestinesi hanno fatto domanda per quel corso. I giovani laureati di Gaza, spiega Calvelli, «tentano ogni strada per integrare, anche all’estero, la loro preparazione in attesa di un lavoro a Gaza. Ma le università europee hanno una disponibilità limitata e non pochi poi non ricevono una risposta positiva».
Sara, 25 anni, ora appare meno abbattuta, non può che rassegnarsi e riprovarci appena possibile. «Mi ritengo fortunata rispetto ad altri ragazzi perché ho un lavoro» ci dice «Quel corso universitario mi serve per migliorare le mie conoscenze ma nel frattempo sono impiegata part-time in un centro che studia la risoluzione dei conflitti». Sarà ha un piccolo salario. «Non è tanto però mi garantisce l’indipendenza economica e mi permette di avere pazienza. Tanti miei amici ed ex compagni all’università non hanno questo privilegio. Sono laureati ma non trovano un lavoro decente. Parecchi fra loro non sognano altro che di andare via, di fuggire da Gaza e di cominciare una nuova vita. Sanno che pochi riusciranno farlo». Le porte della Striscia di Gaza sono chiuse da Israele a nord e dall’Egitto a sud. Ad ovest il blocco navale impedisce le comunicazioni marittime con i Paesi del Mediterraneo. Gaza è chiusa da ogni lato, non si esce e non si entra senza un permesso israeliano ed egiziano.
Con oltre due milioni di abitanti ammassati in meno di 400 kmq, Gaza ogni anno sforna migliaia di laureati. Nel 2017 dai suoi atenei ne sono usciti oltre 21mila, 10mila dei quali donne. Ragazzi e ragazze che una volta terminati gli studi nella maggior parte dei casi restano ad attendere per anni un’occupazione. La speranza è l’unica cosa che hanno. «La chiusura attuata da Israele riduce al minimo le possibilità dell’economia di svilupparsi e di generare posti di lavoro adeguati al livello di istruzione dei giovani laureati – dice Basem Abu Jrai, un ricercatore del Al Mezan for Human Rights di Gaza city – e questo limite è ancora più grave se si pensa che il 50% della popolazione di Gaza è formata da ragazzi con meno di 20 anni. La disoccupazione sfiora il 47%, tra i giovani arriva fino al 60%, tra le donne tocca l’85%». Un quadro nel quale i giovani raramente alzano la voce con le autorità visto che anche i genitori spesso sono senza lavoro e che la radice dei problemi risiede nell’occupazione israeliana. Un dato, non ufficiale, che illustra bene la condizione di precarietà per gran parte della popolazione di Gaza. Circa 100mila abitanti sono fortemente indebitati. E non poche di queste persone sono state denunciate per frode per aver emesso assegni scoperti.
Abu Jrai sottolinea che negli ultimi dieci anni circa 300mila giovani laureati hanno fatto domanda al ministero del lavoro per essere inseriti nel programma di lavoro temporaneo presso gli uffici pubblici con un salario sotto i 300 euro. «Al termine di quel programma governativo quei giovani sono tornati sul mercato del lavoro dove hanno trovato poco o nulla», aggiunge il ricercatore «tanti hanno dovuto accettare lavoro umili e paghe irrisorie pur di avere un’occupazione». Alcuni aderiscono a una forza politica nella speranza che la scelta fatta porti a buon lavoro. Altri, dopo anni di disoccupazione, provano ad entrare nelle forze di polizia e di sicurezza. «Le conseguenze per l’individuo e la società sono molto serie» prosegue Abu Jrai «i giovani con un buon livello d’istruzione senza lavoro non sono più motivati, talvolta scelgono l’isolamento e si pongono ai margini della vita in famiglia e nella comunità. Altri smettono di immaginare il loro futuro. Il calo del 10% dei matrimoni registrato lo scorso anno a Gaza ne è una dimostrazione. Senza dimenticare che un certo numero di persone fa uso di psicofarmaci o che tentano il suicidio».
Almeno 18 palestinesi di Gaza, secondo i media locali, sono tolti la vita lo scorso anno. Tra essi alcuni giovani. Nel 2017 inoltre sarebbero aumentate del 69% rispetto all’anno precedente le persone che si sono rivolte all’ospedale psichiatrico di Gaza e ai centri pubblici di salute mentale. Sulle cifre è cauto Hassan Ziada, psicologo del Gaza Community Mental Health Programme, una ong che da quasi trent’anni studia le conseguenze e i traumi per la popolazione civile causati dagli attacchi militari israeliani e dalla chiusura della Striscia. «Numeri a parte, posso dire che nei nostri centri abbiamo registrato un aumento marcato di persone che hanno cominciato ad assumere ansiolitici e farmaci simili. Così come di persone con tendenze suicide o che si rendono protagoniste di violenze all’interno della famiglia. E tra queste ci sono anche giovani», ci spiega Ziada accogliendoci nel suo ufficio in via Shuhada a Gaza city. «Noi pensiamo che il problema sia politico prima di tutto» aggiunge, «senza una soluzione politica che trasformi radicalmente la condizione attuale di Gaza minacciata da Israele e che metta fine alla frattura interna tra i partiti Hamas e Fatah, la condizione della popolazione della Striscia non migliorerà». Per lo psicologo palestinese nei prossimi anni, se non interverranno cambiamenti radicali, «le manifestazioni del disagio mentale non potranno che moltiplicarsi e i giovani, senza prospettive future e più a rischio, ne saranno i più colpiti».

Il Fatto 16.3.18
Astensione: la maledizione di Navalny sullo zar
Russia - Il Cremlino promette di cacciare i diplomatici britannici per ricompattare le fila degli elettori
di Michela A.G. Iaccarino


“Absolutelno”. Il ministro degli Esteri russo Serghey Lavrov ha usato questa parola: assolutamente. Mosca è pronta a espellere i diplomatici britannici. “Presto. Lo prometto”, ha detto ai giornalisti, ma soprattutto al primo ministro britannico Theresa May. Con il caso dell’avvelenamento dell’ex spia del Kgb siamo “oltre la decenza elementare”.
Per Lavrov “questa storia riflette la disperazione del governo britannico, che non può mantenere le promesse fatte alla popolazione e abbandonare l’Ue”. I vicini europei dovrebbero evitare “le tendenze russofobiche americane, sanzioni e provocazioni” e poi, tanti auguri di buona guarigione a Serghey Skripal: “Lui e sua figlia sono vivi, spero che si riprendano e spieghino la situazione”.
Dicono al Cremlino che la “campagna anti-russa” a Londongrad è cominciata, sono “perplessi”, “mancano le prove”, non hanno risposte alle loro richieste di collaborazione dalla May, “quella che parla come una casalinga di questioni internazionali”, ha detto Edward Limonov. Per l’eroe e antagonista di se stesso del romanzo di Carrere, quella di Skripal è “una messa in scena, non lo avrebbero liberato se fosse stato pericoloso, col nervino si muore in pochi minuti, lui è ancora vivo”.
Per molti a Mosca Skripal è solo quello che ha tradito dozzine di agenti russi vendendoli all’intelligence britannica fino al 2004. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale un gas nervino è stato usato su suolo europeo. “Appunto, europeo, britannico, che c’entriamo? Se sanno capire che è Novichok, hanno la formula e potevano farselo da soli” dicono alla metro Smolenskaya. Siria, Ucraina. “Ora si è aggiunta la Britannia, è una bombardirovka di news, ma sempre dalle stesse parti del mondo: ovest. Qualsiasi cosa succede è sempre la Russia vynovata, colpevole. Provano ad indebolirci a due giorni dalle elezioni”.
Nella metro i megafoni informano: “cittadini, domenica 18 marzo si vota per scegliere il presidente, il futuro del paese”. Non è una coincidenza. Nello stesso giorno 4 anni fa è stata annessa la Crimea, dove Putin è andato due giorni fa. In ogni angolo di Mosca i cartelloni bianchi con la bandiera russa dicono in blu “scegliete il presidente, scegliete il futuro”.
Non dicono chi: solo andate a votare. L’ultimo report di Amnesty è di ieri: Mosca sta “deliberatamente” mettendo dietro le sbarre l’opposizione che chiede di boicottare le elezioni.
L’ultimo video del blogger dissidente Navalny è apparso a ora di pranzo: “Elettori, non mi rivolgo a voi, ma agli insegnanti, che falsificano i risultati delle elezioni già da molti anni. Guadagnate 250 dollari al mese, lo fate per chi vi rende poveri”. La domanda non è chi voteranno i russi, ma quanti: la vera incognita di Mosca, la preoccupazione in cima alle guglie del Cremlino è l’affluenza. Il Vciom, istituto sondaggi vicino al governo, la prevede al 79,3%, ma alle ultime elezioni parlamentari 2016 il record storico dell’affluenza più bassa di sempre è stato battuto: meno del 48% dei russi è andato alle urne.
Qualcuno controlla sullo smarphone le nuove contromisure americane appena varate a Washington. “Sto za sankzij?”, che sono le sanzioni? Mosca è stanca di sentire questa parola, ha imparato a deriderla. Alla metro Park Kultury Masha e Dyma voterebbero Putin, “se ne avesse bisogno, se non avesse già il 70%”. Loro questo weekend però andranno nella dacia in campagna. Perché la guerra sarà pure fredda, ma Mosca lo è di più.

Corriere 16.3.18
L’intervista Eduard Limonov
«Non è Putin l’uomo nero»
«Ma quali russi!», dice al Corriere lo scrittore Eduard Limonov. «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro — afferma —. Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence. Putin è intelligente, che interesse aveva a farlo fuori?».
di Francesco Battistini


MOSCA Non stringe la mano sull’uscio: «Porta sfortuna». Ha un anello col volto di Mussolini: «Ma lo porto solo in casa». E sulla spia avvelenata a Londra, ha una certezza: «Ma quali russi! Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro. Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri!». Quinto piano, interno 110. In un modesto bilocale verso piazza Majakovskij, due guardaspalle armati e due porte blindate, alle spalle mille esistenze di scrittore e politico, bolscevico e nazionalista, playboy e gay, combattente nei Balcani e punk newyorkese, Eduard Limonov parla di vite che non sono le sue: «Questi avvelenamenti sono una commedia. Una guerra di parole».
Lei che ne sa?
«Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione. In cortile c’era un ufficio del Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».
La seguiranno anche domenica al voto?
«Non voto. Sono elezioni farsa da molto tempo. Nel 2007 le hanno vietate al mio partito, ho avuto tre denunce che mi fa schifo anche ricordare. Nel ’92, io già dicevo che bisognava combattere per la Crimea e per il Donbass. Putin m’ha rubato le idee, s’è impossessato dei risultati, ha fissato il voto nell’anniversario dell’annessione della Crimea e nemmeno mi dice grazie: dobbiamo rassegnarci, ci danno un menù scritto da loro, e lui cucina tutti i piatti».
Ma sarà il suo ultimo mandato…
«Ne è sicuro? Nella sua famiglia vivono a lungo, i suoi genitori sono arrivati a 90 anni. Ma voi europei siete ossessionati, pensate che Putin sia il motore di tutto. Il Paese è governato da 30 famiglie, l’1% che possiede il 74% delle ricchezze. Peggio che in India. Lui è solo il loro brillante portavoce, una delle torri del Cremlino. Non gestisce la baracca. Ha padroni che si chiamano Mikhail Fridman, fondatore di Alfa Group».
E gli oppositori?
«Tutti finti. Navalny è uno che stava nel board dell’Aeroflot, raccomandato dal banchiere Lebedev. L’ambiziosa Ksenia Sobchak è parente di Putin: le hanno dato la parte della liberale, ha voluto perdere in partenza dicendo subito che la Crimea va restituita all’Ucraina. E poi c’è quel furbastro Grudinin che si fa passare per comunista: un idiota, predica il socialismo e possiede una società per azioni, fa il padrone capitalista».
Lei è famoso per amare personaggi oltre la decenza: Stalin, Evola, Mishima…
«Ero anche grande amico di Karadzic, Milosevic, Mladic. Quei mascalzoni dei giudici dell’Aia li hanno condannati solo perché hanno combattuto una guerra civile».
Beh, hanno massacrato migliaia di civili…
«Punti di vista. Anch’io ho fatto il mio dovere in Serbia, in Transnistria, in Abkhazia, nel Tagikistan: è dal ’95 che non posso più uscire dalla Russia, rischio l’arresto. Dovrei venire al Salone del libro di Torino, ma come faccio? Cambiamo discorso…».
Trump…
«M’interessava molto da candidato. Diceva cose ciniche, poco gradevoli. Ma da presidente è cambiato, non ha più coraggio. È solo uno disgustosamente ricco, circondato da prostitute. L’ha visto l’arredamento di casa sua? Però ha sempre fiuto per i pericoli. Pensi al muro col Messico: un giorno, saranno i messicani a seppellire gli Usa, come stanno facendo gli islamici con l’Europa».
Non esagera?
«Siamo noi russi i veri europei, non voi. Trovo interessante solo il risveglio di Polonia, Ungheria, Romania».
Come Putin, alla fine anche lei sostiene movimenti antieuropei.
«I populisti in Italia e altrove sono interessanti. Ma bisogna vederli al potere. A me piace anche Orbán, uno dei pochi che amano la Russia».
Lei è diventato famoso col libro di Carrère. Ora uscirà un film…
«La mia biografia mi ha dato pubblicità, l’hanno tradotta perfino in Cina e in Brasile, ma è piena d’invenzioni. Di Carrère, ricordo solo dieci giorni passati insieme. Insopportabili! Del film, non ho letto la sceneggiatura. Se è una merda, stavolta protesto».

Repubblica 16.3.18
Intervista a Robert Harris
“Quello di Mosca è puro terrorismo Come nel 1914 il caos è alle porte”
di Antonello Guerrera

Neanche Hitler aveva usato agenti nervini così letali contro gli alleati. Non ci sarà una nuova Guerra fredda ma una cibernetica sì
L’autore e il libro
Robert Harris, 61 anni, è uno scrittore britannico, autore di romanzi storici e di spionaggio, come il suo celebre Fatherland e Ghostwriter (poi film di Polanski L’uomo nell’ombra). Il suo ultimo libro è Monaco, edito da Mondadori.

«La Russia ha compiuto un atto terroristico sul suolo britannico. E non è vero che un simile attacco chimico contro uno Stato straniero non avveniva dalla Seconda guerra mondiale.
Neanche Hitler aveva usato agenti nervini così letali contro le potenze alleate. Siamo sull’orlo di una catastrofe, come nel 1914: un singolo gesto può scatenare il caos». Robert Harris è durissimo. Il celebre autore inglese di spystory bestseller e romanzi storici come Fatherland, Enigma, Archangel, il Ghostwriter poi L’uomo nell’ombra
di Polanski, i Diari di Hitler, e l’ultimo Monaco (Mondadori) ha spesso scritto di nazismo, comunismo e Guerra fredda.
Anche per questo, ha una posizione ancora più severa e inquieta del comunicato di Regno Unito, Stati Uniti, Germania e Francia contro la Russia.
Perché, signor Harris?
«Finalmente anche l’Occidente si è reso conto che la Russia ha compiuto un attacco terroristico in Inghilterra. Hanno trasportato un’arma di distruzione, di Stato e di massa, così letale, sul nostro suolo. L’hanno usato in una cittadina tranquilla come Salisbury, cercando di uccidere dei civili. Venti persone innocenti sono rimaste ferite, alcune gravemente. È terrorismo, perché instilla terrore».
Ieri il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, ha usato una retorica “alla Churchill” parlando di Salisbury: «Una tranquilla città medievale ha subìto il primo uso aggressivo di un agente nervino in Europa dalla Seconda guerra mondiale».
«In realtà è una prima volta per noi. Neanche nella Seconda guerra mondiale gli Alleati avevano ricevuto un attacco simile dai nazisti, che avevano sì sviluppato simili armi di distruzione di massa, ma non erano riuscite a utilizzarle».
Quale può essere lo scopo
ultimo di un’azione così clamorosa della Russia?
«Putin ha voluto lanciare un segnale, è evidente. Sono avvertimenti sofisticati, mafiosi, per terrorizzare i suoi oppositori, provocare il Regno Unito, testare la resistenza dell’asse occidentale. La Russia ha un risentimento storico nei nostri confronti: vuole instillare il caos nell’Occidente per spaccarlo, come l’Urss si spaccò per le tensioni interne. Allo stesso tempo, oggi è un errore trattare la Russia come uno Stato, perché non insegue più ideali nazionali.
Al contrario, è sempre più espressione individuale di Putin».
In che senso?
«Ciò che i russi hanno fatto a Salisbury non ha razionalità né logica in ambito nazionale e diplomatico. È una mossa psicologica, destabilizzante, espressione di Putin. È anche un gesto per cementare il consenso interno, a pochi giorni dalle urne».
Alcuni paesi, come la Francia, inizialmente hanno esitato a schierarsi subito con Londra.
«Hanno reagito tutti tardi, ma alla fine hanno capito che non c’era altra scelta. Perché quella di Putin è una provocazione. Più passano i giorni e più si capisce che a Salisbury è accaduto qualcosa di incredibile e inaccettabile».
Una reazione così ferma dell’Occidente sarà utile contro la Russia o controproducente?
«Le risponderò con una frase di Lenin: “Prova con una baionetta: se incontri poltiglia, avanza. Se incontri acciaio, ritirati”. Lo spirito della Russia è rimasto lo stesso. Opporsi con durezza è l’unica scelta sensata».
Stiamo entrando in una nuova Guerra fredda?
«Non credo. Perché questa è una guerra totalmente diversa. La Guerra fredda era ideologica, tra blocchi di potere. Oggi gli schieramenti sono molto più frammentati. Rischiamo un altro tipo di guerra».
Di che tipo?
«Una guerra senza carri armati o missili, ma “nell’atmosfera”, cibernetica, nei nostri apparati informatici, come nella campagna elettorale americana. Può scatenarsi un’escalation che mi spaventa moltissimo perché può causare danni fatali nella nostra società informatizzata, dal funzionamento degli ospedali al sereno svolgimento democratico.
Siamo estremamente vulnerabili, come nel 1914 a Sarajevo: un qualsiasi gesto violento può scatenare la catastrofe».
Il Regno Unito e la Russia hanno una lunga storia recente di mutuo spionaggio, dai “Cambridge Five” a oggi.
«Certo, ci sono stati scontri come nel 1971, ma persino durante la Guerra fredda venivano comunque rispettate delle regole tra paesi, tra le quali l’immunità per le spie “scambiate”, vedi il caso di Kim Philby. Oggi non più, come abbiamo visto con l’avvelenamento di Skripal».
Lo stretto legame finanziario tra il Regno Unito e gli oligarchi russi è un problema per Londra?
«Lo è più per la Russia: se i loro asset fossero congelati sarebbe molto negativo per Mosca, che tra l’altro con i suoi rubli da tempo prova a influenzare anche la politica britannica».
Lei ha scritto bellissimi libri di spionaggio, Guerra fredda, nazismo, comunismo. C’è un romanzo che le ricorda la vicenda che stiamo vivendo?
«Difficile dirlo. Ripeto, non è una nuova Guerra fredda, è qualcosa di diverso. Questa situazione inedita e minacciosa mi ricorda le sensazioni de Il Club dei 39 di John Buchan (poi film di Hitchcock, ndr) o L’enigma delle sabbie di Robert Erskine Childers. È come se fossimo tornati alla vigilia della Prima guerra mondiale».

Repubblica 16.3.18
Intervista di Mikhail Nekrich
“Vendette e veleno così. Putin bracca noi nemici all’estero”
di Marco Preve


Anche se non c’è più il comunismo, questa è la tradizione sovietica dai tempi di Trotsky: colpire i dissidenti fuori per avvertire anche gli oppositori interni Berezovsky, parente del mio amico Georgy Shuppe, anche lui avvelenato, aveva creato un archivio che faceva paura: c’erano i segreti della cerchia putiniana
Nel febbraio 2017, mentre è diretto per affari a Sanremo, Nekrich viene arrestato dalla polizia in base a una richiesta di estradizione. I giudici di Genova la negano perché in Russia i suoi diritti non sarebbero garantiti

SANREMO (IMPERIA) «Dopo questa ondata di avvelenamenti e morti violente a Londra, questa mattina, mio cognato che lavora per una grossa compagnia di assicurazioni mi ha detto che ho un rating troppo alto e che non mi farebbe mai una polizza sulla vita».
È il fatalismo russo miscelato con l’umorismo ebraico quello che sfoggia Mikhail Nekrich, 55 anni, ingegnere minerario nato nell’ex Unione Sovietica e oggi titolare di due passaporti, svizzero e israeliano, molto ricco e molto ricercato da Mosca che lo accusa di aver organizzato l’omicidio di un uomo d’affari assieme al suo socio, Georgy Shuppe, il genero del defunto oligarca nemico di Putin, Boris Berezovsky. Ma Shuppe è anche l’ennesimo oligarca russo finito, poche settimane fa, in ospedale dopo una cena sulla quale Scotland Yard ha aperto un’inchiesta.
«Georgy ama mangiare e bere ma credetemi, e sono 25 anni che siamo amici, non gli era mai capitato di bere e restare in coma per cinque giorni…».
La richiesta di estradizione di Nekrich - difeso dagli avvocati Andrea Rovere e Sabrina Franzone - è stata respinta dai giudici della Corte di Appello di Genova così come hanno fatto quelli inglesi per Shuppe. Due sentenze fotocopia che sono veri e propri atti d’accusa contro il sistema giudiziario e investigativo russo. E ora entrambi hanno formalmente chiesto all’Interpol di rimuovere i loro mandati di arresto internazionali.
Ingegner Nekrich, che cosa sta accadendo a Londra nella vostra comunità?
«Putin è vicino al quarto mandato e attorno a lui c’è chi non ha bisogno di ordini, così, appena capisce che qualcuno non è gradito all’imperatore, si muove per colpirlo. D’altra parte, anche se non c’è più il comunismo questa è la tradizione sovietica dai tempi di Trotsky. Colpire i nemici anche all’esterno per ingraziarsi i capi, destabilizzare gli Stati esteri e terrorizzare i dissidenti interni».
Come vive un russo nemico del Cremlino a Londra?
«Io da Londra sono andato via.
Vivo in Israele dove sono sicuramente più sicuro, ma quando mi trovo all’estero non adotto particolari misure di sicurezza. Quindici anni fa a Mosca giravo con due jeep con uomini armati di scorta, ma se ti vogliono ammazzare il sistema lo trovano, quindi adesso cerco di vivere la mia vita senza pensare troppo al domani. Ma Georgy Shuppe che continua a vivere a Londra lo fa con una doppia scorta, dell’Mi5 e sua personale, restando chiuso nella sua villa, specie ora dopo questo “misterioso” malore che lo ha quasi ucciso».
Shuppe è il genero del defunto Berezovsky che continua a fare paura anche da morto, perché?
«Berezovsky era un genio. A 30 anni era già professore di ingegneria, primo oligarca, primo potentissimo proprietario di una televisione privata, un po’ come il vostro Berlusconi, è stato fondamentale il suo aiuto mediatico per l’elezione di Eltsin e poi di Putin, prima che diventasse suo nemico. Aveva una grande capacità di analisi ma non dei difetti umani. Soprattutto registrava quasi maniacalmente ogni informazione importante: incontri, contratti d’affari, colloqui, impressioni, e numeri.
Aveva creato un archivio che si portò dietro quando raggiunse Londra e al quale i suoi nemici hanno dato la caccia.
Quell’archivio faceva effettivamente paura perché conteneva i segreti di Putin e della sua cerchia più fidata. Credo però che il suo contenuto sia oggi a conoscenza sia dell’Inghilterra che degli Stati Uniti e venga forse utilizzato come una scusa per compiere vendette più che per un reale interesse».
La Gran Bretagna ritiene che siano coinvolti i servizi russi o apparati militari anche per il genere di veleno utilizzato.
«Il veleno è un marchio di fabbrica. L’Icr, ovvero il Comitato investigativo della federazione russa ovvero la polizia federale che dipende direttamente dalla presidenza, dispone ancora di quella sezione creata durante la guerra dal Kgb ovvero la Smersh, la sezione “affari bagnati” che aveva il compito di eliminare spie e traditori. E Skripal, con il suo tradimento, era uno che aveva rovinato la carriera a molti. Non riesco invece a capire l’assassinio di Nikolai Glushkov che conoscevo bene e non poteva più essere un pericolo per nessuno.
Ma se si vuole lanciare un messaggio, anche uccidere un anziano innocuo può servire».
Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha annunciato ritorsioni contro l’Inghilterra, siamo alla vigilia di una frattura diplomatica pericolosa?
«Vedo solo ipocrisia . Lavrov ha una figlia nata in Usa e cresciuta in Gran Bretagna che parla meglio l’inglese del russo. E tutti i potenti dell’establishment del Cremlino hanno soldi o proprietà a Londra».

Repubblica 16.3.18
Se Putin unisce l’occidente
di Vittorio Zucconi


Doveva essere la Russia a ricomporre almeno l’apparenza di un fronte delle democrazie occidentali e a restringere quell’oceano Atlantico che Trump stava allargando. Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e presto Canada e persino il minuscolo Lussemburgo hanno sottoscritto o sottoscriveranno una sorta di nuovo, mini Patto Atlantico per fronteggiare quella che ormai anche Trump ha dovuto riconoscere come la nuova minaccia russa. Se per ora da questa improvvisata alleanza ad hoc sembra esclusa l’Italia – nonostante la solidarietà a Londra espressa da Gentiloni e Alfano – forse l’assenza si spiega con la totale incertezza e la confusione politica che regna a Roma, dove i due partiti vincitori delle elezioni hanno scoperte simpatie per Putin, come la Lega, o vivono di acrobazia e ambiguità, come il Movimento Cinque Stelle.
Il presunto successo internazionale di Vladimir Putin che aveva riportato Mosca al centro o non più ai margini della politica internazionale dopo lo sfascio dell’Urss e l’imbarazzante parentesi di Boris Eltsin si sta dunque rivoltando contro il nuovo zar. Putin, dall’annessione della Crimea fino all’ormai riconosciuto intervento nei processi elettorali americani attraverso gli hackers, è riuscito a fare quello che Stalin aveva fatto inghiottendo l’Europa dell’Est anche oltre le vaghe intese e sfere di influenza concordate a Yalta. Avere costretto persino Donald Trump, il candidato che aveva pubblicamente invocato l’aiuto di Putin per battere Hillary Clinton, ad ammettere le interferenze russe nella vita democratica americana, ad accettare finalmente sanzioni dalle quali aveva sempre svicolato e a unirsi all’iniziativa di Theresa May di rappresaglie per l’attacco con il gas nervino all’ex spia del Kgb a Londra conferma una storica e paradossale maledizione che colpisce la Gran Madre Russia: vincere le guerre e perdere la pace.
È come se la cronica, storica assenza di cultura e tradizione democratica in Russia aiutasse gli autocrati del momento, si chiamino Aleksandr Romanov, Josif Džugašvili Stalin o Vladimir Putin a resistere alle aggressioni militari e poi a perdere il prestigio tanto dolorosamente acquistato sui campi di battaglia. Putin aveva tutta la scacchiera a suo favore, a cominciare da un’Europa affamata di scambi commerciali fra le materie prime russe e i prodotti occidentali. Governi europei di ogni colore firmavano accordi e scambiavano cortesie, mentre le barriere della Guerra Fredda collassavano.
Ma il nuovo zar ha voluto esagerare, ha voluto stravincere. Per garantirsi nuovi successi ha brigato, come ormai riconosce anche Trump, per bloccare Hillary Clinton e favorire il candidato repubblicano, così aprendo un abisso di diffidenza e di inchieste giudiziarie nelle quali anche le più amichevoli intenzioni - e gli interessi finanziari del Clan Trump - sono sprofondati. Questa nuova mini alleanza ad hoc spinta dall’uso del gas nervino Novichok a Londra e stimolata dall’ansia della sempre più isolata Theresa May che vi ha trovato il pretesto per ricompattare l’Europa nella Psicosi dell’Orso, è il segnale di una sconfitta politica maturata ben prima del tentato omicidio di Londra e del ritorno al mondo di Le Carrè fra doppiogiochisti e infiltrati dei servizi. Avendo creato l’impressione, suffragata dalle indagini di tutte le intelligence occidentali, di aver voluto truccare le carte delle elezioni americane e di continuare nella sordida tradizione degli “affari bagnati”, gli assassinii orditi dal Kgb, Putin ha fatto quello che Trump aveva cercato di disfare con il proprio avventurismo e che May aveva fatto vacillare tagliando il cordone ombelicale con il Continente: Putin ha reinventato un Occidente che si stava perdendo e ha costretto persino Trump a ricordare che il nemico storico non è lo spettro di Obama né l’inquisitore speciale Mueller, ma è l’impero russo quando tenta di manipolare la politica interna dei Paesi liberi.
Quanto solida sia la ritrovata fermezza di Trump o l’unità delle nazione europee di fronte alla tracotanza del Cremlino e dei suoi miliardari oligarchi resta da misurare alla prova dei populismi che avanzano in Occidente e guardano, come tutti i populismi, con simpatia al mito dell’Uomo Forte al comando. Ma dopo l’effimero successo della Crimea e della guerra in Ucraina, Putin deve guardare con occhi ben aperti all’ipotesi di una nuova Guerra Fredda, che lui stesso ha alimentato esibendo – in classico stile sovietico – un nuovo supermissile inarrestabile, da Dottor Stranamore.
Se Trump rinsavirà e abbandonerà la strada della disgregazione delle democrazie occidentali accelerata dall’insensata guerra doganale lanciata con le tariffe sulla siderurgia, lo dovremo al carissimo nemico, alla Russia, eternamente condannata a crearsi i nemici che poi dovrà fermare.

Repubblica 16.3.18
Londra e la minaccia della Russia
di Jill Morris


Caro direttore, ho letto con attenzione l’editoriale di Paolo Garimberti, “Gli intoccabili di Londongrad”.
Le valutazioni espresse sulle misure del governo britannico in risposta all’attacco di Salisbury, descritte come “datate” e potenzialmente “controproducenti”, e sulle presunte motivazioni a esse soggiacenti, appaiono quanto meno fuorvianti. In particolare, l’idea che le nostre misure sarebbero in qualche modo finalizzate a evitare di affrontare il “cuore del problema”, e quindi a preservare “quell’impunità che i cittadini russi sembrano continuare a godere a Londra”, trascura evidentemente l’essenza della questione.
Due persone sono state avvelenate sul suolo britannico usando il Novichok, un gas nervino di produzione russa.
Si tratta di un’azione che non ha precedenti in alcun Paese alleato della Nato sin dalla sua costituzione nel 1949. Non si tratta di un regolamento di conti tra spie, ma di un attacco dello Stato russo al Regno Unito attraverso l’uso indiscriminato di un’arma chimica illegale. «Non esiste conclusione alternativa se non che la Russia sia colpevole» ha riferito la premier Theresa May, per cui siamo di fronte alla più grave violazione russa sul territorio britannico dai tempi dell’omicidio di Alexander Litvinenko nel 2006. Un agente di polizia britannico è stato esposto al gas e versa in gravi condizioni, e decine di persone sono state ricoverate in ospedale come conseguenza del disprezzo della Russia per la salute di innocenti cittadini britannici.
Ma non si tratta di una questione semplicemente bilaterale, tra Russia e Regno Unito. L’avvelenamento di Sergey e di Yulia Skripal è parte di uno schema prestabilito, attraverso cui la Russia sta smantellando l’ordinamento internazionale.
L’escalation dell’azione russa rappresenta una minaccia ai nostri Paesi e alla comunità internazionale.
Appare in questo senso priva di fondamento l’affermazione che vi sia stata “poca solidarietà” nei confronti del Regno Unito. Ciò a cui abbiamo assistito, e che continua a crescere, è l’espressione di un forte sostegno da parte dei nostri amici in tutto il continente e oltre.
La dichiarazione congiunta di Francia, Germania, Usa e Regno Unito è solo l’ultimo esempio di questa solidarietà.
Siamo grati ai nostri alleati e partner per la loro vicinanza, che include molte organizzazioni internazionali come la Nato e l’Ue, e il ministro Boris Johnson ha apprezzato il sostegno manifestatogli ieri dal ministro degli Esteri Angelino Alfano.
Ritengo che quanto suggerito sulle presunte motivazioni alla base della risposta del governo britannico all’attacco di Salisbury sia una distrazione potenzialmente pericolosa da quanto dovrebbe invece essere al centro della nostra attenzione e dei nostri sforzi.
La Russia sta deliberatamente cercando di offuscare la gravità di quanto accaduto: l’uso di un agente nervino di tipo militare in Europa.
Jill Morris è ambasciatore del Regno Unito in Italia La scelta di campo si può chiedere ai governi, non ai giornalisti liberi in un mondo libero. I fatti separati dalle opinioni sono una regola aurea del giornalismo anglosassone.
(p. g.)

Repubblica 16.3.18
Intervista allo scrittore Khaled Khalifa
“La letteratura dimostra che la Siria splenderà ancora”
di Francesca Caferri


Era il 2011 e mentre il vento di speranza delle primavere arabe travolgeva la regione e arrivava a contagiare anche la Siria, usciva in Italia l’Elogio dell’odio: un libro potente e senza compromessi che fece conoscere la voce più importante della letteratura siriana di oggi, quella di Khaled Khalifa. Da allora, lo scrittore non ha mai smesso di esprimere il sostegno ai ragazzi che nel 2011 erano scesi in strada sognando un Paese diverso: forte della sua fama e della scelta di non lasciare Damasco neanche nei momenti più bui, Khalifa è diventato un simbolo per chi sognava una Siria diversa. È dunque significativo, oltre che triste, che Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città, il suo nuovo romanzo (Bompiani, traduzione di Maria Avino) arrivi nelle librerie nel momento in cui i sogni di quelle giornate sembrano finiti. E la Siria vive una delle fasi più tristi della sua storia. Una realtà che Khalifa – domenica sarà a Roma, all’Auditorium per Libri Come – conosce bene, da cui però rifiuta di farsi piegare: «Non è finita – dice – i nostri sogni non sono morti del tutto. La letteratura, i libri e i loro protagonisti, dimostrano che da sempre l’essere umano è in grado di sopravvivere. E di continuare a sperare».
Signor Khalifa, anche se lei narra una storia del passato, si capisce che il suo libro è un durissimo attacco al regime. Come è possibile che la pubblicazione sia stata permessa?
«Non lo so. Tutti i miei libri sono contro il regime. Mi lasciano fare, forse perché si sono abituati, forse perché hanno problemi più complicati da affrontare che non uno scrittore che racconta storie passate».
Del passato ma anche del presente: vite spezzate dalla dittatura, città distrutte...
«È la storia di una generazione, la mia. Quella vissuta negli anni ’80 in una Aleppo che da città ricca e vitale si è trasformata in un luogo pericoloso, dove tutti potevano finire in prigione per una parola, i cinema e i teatri venivano chiusi, le scuole venivano trasformate in centri di educazione al potere, la libertà e la cultura sparivano. Da anni volevo scrivere di questo».
Facendolo scrive dell’oggi?
«È innegabile che nel libro ci sia dentro molto presente. Vivere sotto una dittatura è un’esperienza che non cambia. Oggi però è più complesso: siamo finiti al centro di una guerra che non è la nostra, che il mondo sta combattendo sulla nostra terra ma che non ci appartiene. Una guerra i cui protagonisti hanno un tratto in comune, quello di non tenere in nessuno conto i civili. Eppure la speranza non muore».
Muore però nelle pagine del libro. I personaggi la perdono pagina dopo pagina...
«Non so se darle ragione. Questa è anche la storia di persone che continuano ad amarsi nonostante tutto e di vite che continuano. È anche una storia di ragazze forti e le assicuro che di ragazze forti io ne vedo molte oggi in Siria. Non si fermano davanti a nulla. Una cosa che forse sfugge a un lettore occidentale è che quando sei in Paesi soffocanti come era la Siria degli anni ’ 80 e come è in modo diverso oggi, sviluppi una vita segreta e lì riponi le tue speranze. I siriani sono forti: certo che la vita da noi è dura, ma non sa quanti ragazzi vogliono studiare, andare avanti. Hanno capito che il mondo è nostro nemico. E se non hai amici devi ingegnarti ad andare avanti da solo».
È il secondo libro che dedica ad Aleppo e alle conseguenze che la dittatura ha portato sulla città: che scrittore è Khalifa? Un narratore di conflitti?
«Uno scrittore e basta. So fare solo questo: letteratura. E questo voglio continuare a fare. Il ruolo della letteratura nel tempo non è cambiato: deve raccontare le storie. Voglio raccontare al mondo le storie della mia gente».
La magia di Aleppo che lei descrive è andata persa con la guerra. Lei ci è tornato da quando il governo ne ha ripreso il controllo?
«No. Ma lo farò presto. Non ho paura di vedere ciò che è rimasto e ciò che è andato perduto, se è questo il senso della sua domanda.
Aleppo è stata distrutta più volte ed è sempre tornata a splendere.
Lo farà anche questa volta».
Perché è rimasto a Damasco?
«Perché sono uno scrittore e scrivo della mia gente. Come potrei farlo lontano dalla mia gente?».

il manifesto 16.3.18
1938, Barcellona sotto le bombe, tra mostre e documentari
Ricorrenze. Tra il 16 e il 18 marzo 1938, ottant’anni fa, Barcellona fu sottoposta al più pesante dei bombardamenti dall’inizio della guerra civile spagnola
di Alfonso Botti


Tra il 16 e il 18 marzo 1938, ottant’anni fa, Barcellona fu sottoposta al più pesante dei bombardamenti dall’inizio della guerra civile spagnola. I morti furono quasi mille e i feriti circa il doppio. Senza raggiungere numeri analoghi di vittime, era già toccato a Madrid, a varie città e località della Spagna e il 27 aprile 1937 alla cittadina di Guernica: il caso universalmente più noto per il carattere distruttivo delle incursioni aerea, per il tentativo franchista di attribuirne la responsabilità agli stessi baschi e per la grande tela che Picasso dipinse – una delle icone più emblematiche del Novecento – per il padiglione della Repubblica spagnola all’Esposizione Universale di Parigi del 1937.
GUERNICA FU DISTRUTTA dagli aerei tedeschi della Legione Condor inviati dalla Germania nazista. All’incursione parteciparono con compiti di copertura anche alcuni Savoia-Marchetti italiani. I bombardamenti di Barcellona furono opera pressoché esclusiva dell’Aviazione legionaria italiana, cioè degli aerei inviati da Mussolini.
Nel 1997 il presidente della Repubblica Federale tedesca, Roman Herzog, inviò a Guernica un messaggio ufficiale, letto dall’ambasciatore tedesco in Spagna, in cui ammettendo la responsabilità degli aviatori tedeschi chiese scusa per i danni inferti dal bombardamento. L’anno successivo alle scuse del presidente tedesco si unirono quelle del Bundestag. Nulla di simile è avvenuto da parte italiana per i bombardamenti su Barcellona. Neppure dopo l’allestimento della mostra Quando piovevano le bombe che, dopo essere stata inaugurata a Barcellona nel 2007, ha girato e continuato a girare l’Italia ospite degli Istituti storici della Resistenza e neppure a seguito degli appelli di storici e associazioni, affinché anche da parte italiana si ammettano la responsabilità e si faccia un atto, per quanto simbolico, di riparazione.
L’OCCASIONE per riparlarne la offre ora il filmato Barcellona ferita aperta della giornalista e documentarista spagnola Mónica Uriel che verrà presentato il 5 aprile a Milano presso la Zona K (via Spalato 11, ore 18) e il 6 aprile a Modena, nella sala Giacomo Ulivi dell’Istituto storico (viale Ciro Menotti 137, ore 16.30) per iniziativa dello stesso Istituto e del Master in Public history, attivato da tre anni presso l’università di Modena e Reggio Emilia.
Il filmato di 53 minuti, con materiale d’epoca e interviste a storici catalani e italiani, è stato girato completamente a spese della Uriel nel 2015 e in Italia è stato visto solo nel novembre scorso nell’ambito di una iniziativa organizzata a Firenze dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea con il Centro Filippo Buonarroti.
Inutili finora i tentativi della giornalista spagnola di trovare reti televisive in Italia e Spagna disposte a mandarlo in onda: il che dice, qualora ce ne fosse ancora bisogno, della sensibilità pubblica nei riguardi della memoria di uno dei tanti orrori del fascismo.

Repubblica 16.3.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 2
Via Fani ore 9,05 tutto è già finito
È il 16 marzo 1978. I brigatisti si sono svegliati presto, hanno fatto colazione e hanno ripassato il piano È un’operazione militare “ perfetta”: il presidente della Dc e la scorta finiscono in trappola. Cadono cinque agenti Sull’asfalto, 93 bossoli e un paio di baffi finti. In tre minuti l’Italia piomba nell’incubo. E in quarant’anni di misteri
di Ezio Mauro

Alle sette del mattino Valerio Morucci e Franco Bonisoli avevano fatto colazione nell’“ufficio”, come le Br chiamavano le due stanze e cucina di via Chiabrera, covo dell’ultima notte. Poi avevano indossato le divise azzurre da aviere che Adriana Faranda aveva comperato da quindici giorni per 42 mila lire da Cardia, un negozio specializzato in via Firenze 57. Mentre Raffaele Fiore si calava in testa il berretto blu con la visiera uscendo in maglione e camicia bianca dalla casa di Bruno Seghetti, Prospero Gallinari nella base di via Montalcini controllava le mostrine dorate che Anna Laura Braghetti aveva cucito due giorni prima sulla sua divisa. Le armi a canna lunga erano dentro un borsone scuro sul quale i brigatisti avevano appiccicato una scritta verde autoadesiva: Alitalia. Infilarono gli impermeabili blu, per nascondere le pistole che portavano addosso. Gallinari si versò ancora una tazza di caffè, in piedi nella cucina schermata dalle grandi tende chiare. Uscirono alle 7,45, come ordinava il piano, calandosi nella mappa stradale che portava alla tragedia e trasformava quel giovedì di marzo in una carneficina. Erano i quattro del gruppo di fuoco.
Adesso, quarant’anni dopo, ogni volta che incontra gli assassini di suo padre e dei cinque uomini della sua scorta Agnese Moro parte da una domanda: «Come avete potuto mettervi la sveglia, dormire, alzarvi per andare a uccidere?». Lo hanno fatto, quel giorno. Escono dai covi dove Adriana Faranda accende subito la radio sulle frequenze delle pattuglie di polizia e carabinieri, per cogliere allarmi, sorprese, conferme, mentre la Braghetti si sintonizza immediatamente sui notiziari radio e tv, tutti accesi a basso volume, aspettando la notizia. Moretti e Balzerani si sono mossi prima, lasciato il covo di via Gradoli hanno percorso ancora una volta via Fani, senza registrare nessun intoppo. Alle 8 e mezza ciascuno è al suo posto, per l’ultimo ok di Moretti. Rita Algranati più indietro di tutti, su in alto, per avvistare per prima le due auto, dare il segnale e andarsene subito con la Vespa già posteggiata sul marciapiede. Barbara Balzerani a due metri dallo stop decisivo, con paletta e Skorpion sotto il giaccone, pronta a fermare il traffico che sale su via Stresa, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri già sulla 128 blu che dovrà bloccare la strada mettendosi di traverso con via Madesimo, i quattro attentatori in attesa dietro la siepe del bar Olivetti (sbarrato dopo il fallimento) come se aspettassero un pullman, ma con le armi pronte nel borsone già aperto.
La 130 blu ministeriale targata Roma L59812 ha appena svoltato in via Fani. Ha 87.176 chilometri, un bollo fino ad agosto, l’assicurazione  Alle sette del mattino Valerio Morucci e Franco Bonisoli avevano fatto colazione nell’“ufficio”, come le Br chiamavano le due stanze e cucina di via Chiabrera, covo dell’ultima notte. Poi avevano indossato le divise azzurre da aviere che Adriana Faranda aveva comperato da quindici giorni per 42 mila lire da Cardia, un negozio specializzato in via Firenze 57. Mentre Raffaele Fiore si calava in testa il berretto blu con la visiera uscendo in maglione e camicia bianca dalla casa di Bruno Seghetti, Prospero Gallinari nella base di via Montalcini controllava le mostrine dorate che Anna Laura Braghetti aveva cucito due giorni prima sulla sua divisa. Le armi a canna lunga erano dentro un borsone scuro sul quale i brigatisti avevano appiccicato una scritta verde autoadesiva: Alitalia. Infilarono gli impermeabili blu, per nascondere le pistole che portavano addosso. Gallinari si versò ancora una tazza di caffè, in piedi nella cucina schermata dalle grandi tende chiare. Uscirono alle 7,45, come ordinava il piano, calandosi nella mappa stradale che portava alla tragedia e trasformava quel giovedì di marzo in una carneficina. Erano i quattro del gruppo di fuoco.
Adesso, quarant’anni dopo, ogni volta che incontra gli assassini di suo padre e dei cinque uomini della sua scorta Agnese Moro parte da una domanda: «Come avete potuto mettervi la sveglia, dormire, alzarvi per andare a uccidere?». Lo hanno fatto, quel giorno. Escono dai covi dove Adriana Faranda accende subito la radio sulle frequenze delle pattuglie di polizia e carabinieri, per cogliere allarmi, sorprese, conferme, mentre la Braghetti si sintonizza immediatamente sui notiziari radio e tv, tutti accesi a basso volume, aspettando la notizia. Moretti e Balzerani si sono mossi prima, lasciato il covo di via Gradoli hanno percorso ancora una volta via Fani, senza registrare nessun intoppo. Alle 8 e mezza ciascuno è al suo posto, per l’ultimo ok di Moretti. Rita Algranati più indietro di tutti, su in alto, per avvistare per prima le due auto, dare il segnale e andarsene subito con la Vespa già posteggiata sul marciapiede. Barbara Balzerani a due metri dallo stop decisivo, con paletta e Skorpion sotto il giaccone, pronta a fermare il traffico che sale su via Stresa, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri già sulla 128 blu che dovrà bloccare la strada mettendosi di traverso con via Madesimo, i quattro attentatori in attesa dietro la siepe del bar Olivetti (sbarrato dopo il fallimento) come se aspettassero un pullman, ma con le armi pronte nel borsone già aperto.
La 130 blu ministeriale targata Roma L59812 ha appena svoltato in via Fani. Ha 87.176 chilometri, un bollo fino ad agosto, l’assicurazione  scaduta il 31 dicembre ’77. La guida come sempre l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, di 43 anni, che è andato a prenderla stamattina presto nel garage del governo a piazzale della Radio, seduto di fianco c’è il maresciallo Oreste Leonardi, 52 anni, detto “Judo”. Moro è dietro, accanto a due fascicoli pieni di fogli posati sul sedile e una 24 ore appoggiata sul pianale, con un’altra cartella marrone dove sono le carte del suo capolavoro politico, le larghe intese. Pochi giorni prima le aveva spiegate con queste parole in un lungo incontro con Eugenio Scalfari: «Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del Paese, e affonderemo con esso».
Adesso sta sfogliando i giornali sull’auto che corre verso la sua profezia: legge i titoli dello scandalo Lockheed, sono state appena depositati gli atti di 5 mila pagine, un ex diplomatico dice che proprio lui è Antelope Cobbler, donna Vittoria Leone, moglie del presidente della Repubblica, è stata interrogata dal giudice istruttore per rendere conto dell’assegno 4/9006991 ad Antonio Lefebvre per 140 milioni. Moro scorre il titolo su Beirut bombardata da Israele in risposta al raid dei fedayn, sfoglia la pagina su Mstislav Rostropovich che non potrà più tornare in Urss perché privato della cittadinanza sovietica per il suo «impegno antipatriottico», vede la polemica del sindaco Argan col Vaticano: «Basta con Roma città sacra, mi interessa solo che sia una città colta ». Volta pagina mentre una 128 familiare bianca, targata CD 19707, entra in strada e si mette proprio davanti alla 130: la guida Mario Moretti, il capo delle Brigate Rosse.
Tre auto stanno correndo in colonna verso quei settanta metri finali d’asfalto che i terroristi hanno scelto come teatro del loro attacco e che diventeranno il paesaggio fisso della più grande tragedia politica italiana del dopoguerra. La 130 di Moro, l’Alfetta beige targata Roma S93393 che la segue con tre uomini di scorta, la guardia Giulio Rivera di 24 anni, l’agente Raffaele Iozzino di 25, il brigadiere Francesco Zizzi, 30 anni, che è al suo primo giorno di lavoro nel “servizio di tutela”: davanti, quella 128 con la targa diplomatica si muove come se guidasse il convoglio, è l’unica che sa cosa sta per accadere, sembra un’auto di famiglia e tra poco farà da innesco a un vero e proprio piano di battaglia. Rallenta per creare il vuoto con le macchine che la precedono, accelera perché le due auto di Moro non la superino. Deve arrivare per prima nel luogo dell’agguato: per prima e con le due scorte a brevissima distanza. Mancano pochi metri, la strada scende, si vede l’incrocio, ecco il punto. È qui.
Moretti mette l’auto leggermente di sbieco per occupare più spazio sulla strada, poi frena di colpo. Le due macchine dietro inchiodano, l’autista di Moro, Ricci, fa in tempo a gesticolare per quella manovra improvvisa. Ma dalla siepe verde davanti al bar Olivetti stanno già venendo fuori i quattro avieri, arrivano, è il momento dell’inferno, le 9,02.
Hanno preso i mitra dalla borsa, hanno tolto la sicura, stanno correndo per attraversare la strada. Non c’è tempo per reagire, forse neppure per capire, nemmeno per afferrare il microfono della ricetrasmittente e lanciare un allarme. Parte una raffica per l’Alfetta, dall’alto in basso, prima davanti poi dietro. In contemporanea, scatta l’attacco alla 130, un’altra raffica per colpire Leonardi, il caposcorta, che si volta all’indietro per tentare di proteggere Moro e viene freddato in quella posizione da nove colpi, l’ultimo arriva al cuore bucando il portafoglio nella tasca della giacca, senza che il maresciallo possa impugnare la sua Colt 38 Cobra. C’è un urto, doppio: l’autista dell’Alfetta, Rivera, mentre si accascia colpito a morte da otto proiettili toglie il piede dalla frizione, l’auto tampona la 130 e la manda a sbattere contro il parafango della 128 brigatista. Groviglio a tre, il convoglio è paralizzato. Balzerani ha imbracciato la Skorpion e sta bloccando il traffico in basso, Casimirri e Lojacono, coi baffi finti, chiudono lo spazio in alto, con le armi in pugno in mezzo alla strada. Sono i due “cancelletti” brigatisti che recintano la zona della morte.
In quel rettangolo d’asfalto c’è spazio solo per gli spari. Nel massacro Moro è paralizzato, schiacciato contro lo schienale dell’auto in mezzo al fuoco, con la mano alzata per proteggersi dalle pallottole, che non sono per lui, e dalla grandinata dei cristalli fatti a pezzi che volano ovunque, insanguinandogli superficialmente le dita. Ha visto tutto, non si è accovacciato, forse il maresciallo Leonardi è riuscito a dirgli qualcosa prima di scivolare morto sul sedile davanti, proteso verso di lui e voltato verso gli assassini, dentro quell’abitacolo attraversato dai proiettili, trasformato in trappola.
Morucci si avvicina all’autista, Ricci, rompe il vetro della portiera ma quando preme il grilletto non sente più il mitra vibrare, si è inceppato, come quello di Bonisoli. Anche Fiore non riesce a sparare col suo M12 che si era portato da Torino in valigia. Allora Ricci tenta di portar via la 130 cercando a colpi di coda e di punta di aprirle un varco nel tamponamento a tre che la blocca. Avanti e indietro sbattendo tra le lamiere. Ma proprio lì di fianco c’è una Mini familiare (si scoprirà che è di una società collegata ai servizi) che occupa spazio: e Moretti, che nel piano avrebbe già dovuto essere sceso armi in pugno per aiutare il commando, sta tirando il freno a mano della 128 familiare e schiaccia fino in fondo il freno a pedale per bloccare la 130, impedirle la manovra. Finché Morucci cambia il caricatore del suo FNAB-43, si avvicina e scarica una raffica mortale su Ricci. Tutto si ferma, i motori si spengono.
Tra gli spari, si apre la porta posteriore destra dell’Alfetta e l’agente Raffaele Iozzino si getta in strada con la pistola in pugno. Non si ripara dietro l’auto, cerca i terroristi, punta la Beretta calibro 9 e riesce a sparare due colpi. Bonisoli, che ha il mitra inservibile, prende la pistola, tende il braccio e lo colpisce da due passi. Cade sull’asfalto con le braccia spalancate, il volto verso il cielo grigio, il revolver a un metro di distanza. Mentre Gallinari lascia il mitra TZ45, prende la pistola che portava alla cintura e spara verso gli agenti riversi nelle due auto che si muovono ancora, Moretti e Fiore spalancano la porta posteriore della 130 (sul pianale resterà l’impronta della mano di Fiore), afferrano Moro per il braccio sinistro e lo fanno scendere dall’auto. Arriva Bruno Seghetti alla guida della 132 blu rubata tre giorni prima, apposta per la fuga. Caricano Moro sul sedile posteriore, non dice una parola, Fiore è accanto a lui, Moretti davanti. L’auto parte, accelera e risale via Stresa, concludendo l’azione dopo tre minuti esatti. Sono le 9,05 quando Morucci torna indietro, afferra le due borse di Moro appoggiate sul pianale posteriore e le porta via. Resta sospeso il rombo di una moto Honda che due testimoni vedono partire per via Stresa subito dopo l’agguato, con due persone a bordo che forse sparano per copertura, mai identificate. Così come non si è mai saputo più nulla di un rullino di fotografie scattate da un appartamento che si affacciava su via Fani, consegnato al giudice Infelisi e andato perduto.
In via Fani adesso c’è il silenzio della morte, rotto solo dal rantolo di Francesco Zizzi, il vicebrigadiere, che respira ancora. Sull’asfalto, attorno al cadavere di Iozzino rimangono nel sangue 93 bossoli (49 sono di un’unica mitragliatrice, e fanno pensare a un killer professionista, 22 di un’altra) il borsone vuoto delle armi, un cappello da pilota Alitalia capovolto, un paio di baffi finti, l’impronta di una tragedia umana e politica che durerà per sempre ma che è appena incominciata, con cinque morti nel suo primo atto.
Hanno sparato per ammazzare, l’“operazione Fritz” ha un impianto militare che innesca un meccanismo politico, il prelevamento dell’ostaggio prevede l’annientamento totale della scorta. Si sono addestrati nei fossi di campagna, in montagna nelle cave, in qualche grotta, nel giardino di una casa fuori mano a Velletri, in riva al mare. Per costituire il gruppo di fuoco hanno scartato le reclute, scegliendo soltanto chi aveva già preso parte ad assalti terroristici armati. Sorpresa, rapidità, ma anche disponibilità ideologica al massacro: basta guardare la carcassa delle due auto di Moro oggi, quarant’anni dopo, passare le dita tra la ruggine sui fori dei proiettili che hanno fatto saltare i vetri, bucato il parabrezza, attraversato la carrozzeria.
Adesso stanno scappando. C’è un ex appuntato di polizia, Antonio Buttazzo, che li insegue con la sua auto, li tallona per 500 metri, vede nel lunotto un uomo che si dimena sul sedile posteriore, gli sembra di distinguere una mano che gli appoggia qualcosa di bianco sul viso: forse un tampone. Alle 9,03 era arrivata la prima telefonata alla polizia per segnalare gli spari in via Mario Fani, un minuto dopo un’altra chiamata avvertiva che Moro era stato rapito, le “volanti” stanno convergendo sul posto, s’incrocia il suono delle sirene. Ma la 132 con Moro sta già correndo in piazza Monte Gaudio, è in largo Cervinia, arriva in via Trionfale, poi si lancia dentro la scorciatoia individuata da Morucci in via Belli, tranciando la catenella di chiusura per deviare dal percorso naturale, sbucare da un’altra parte. Stop di un attimo in via Massimi dov’è pronto in attesa Raimondo Etro per raccogliere le armi a canna lunga che ingombrano la fuga e farle sparire, poi il primo trasbordo in piazza Madonna del Cenacolo. Qui un furgone 850 bianco è stato appena portato da Morucci davanti al muro dell’istituto Don Orione. La 132 targata Roma P79560 lo affianca. Moro viene fatto scendere ricoperto da un plaid e con gli occhiali neri da saldatore, in modo che non veda nulla.
Lo fanno rannicchiare dentro una cassa di legno traforata, lunga 120 centimetri ma larga solo 80, che Germano Maccari si era fatta costruire da un falegname, con due maniglie e la serratura con la chiave, dicendogli che serviva per una spedizione, e che aveva ritirato con Laura Braghetti due giorni prima del sequestro, per consegnarla a Morucci in un incontro nel quartiere di Monteverde. I brigatisti fecero le prove, accovacciandosi all’interno. Adesso, dietro le porte sbarrate del furgone, in quella cassa viaggiava un uomo, catturato perché leader politico, trasformato in ostaggio. Con Moro, era chiuso a chiave in quella gabbia di legno anche l’ultimo capitolo della Prima Repubblica.
Moretti guida il furgone, munito di sirena per ogni emergenza, la Dyane di Morucci e Seghetti fa l’accompagnamento, per vedetta e copertura. Per dieci chilometri, attraverso una città sottosopra che sta impazzendo per lo shock dell’agguato, della strage e del sequestro, il prigioniero e l’uomo che lo ucciderà sono soli nell’ 850, uno con la paura di quel che ha appena fatto, l’altro con l’angoscia di quel che deve ancora accadere. Moretti guida con prudenza, nel timore di essere fermato e scoperto, Moro bendato e rinchiuso affonda nel buio senza risposte del sequestro. C’è un secondo passaggio, nel parcheggio sotterraneo della Standa di via Newton. Qui la cassa viene trasportata sulla Citroën Ami familiare di Laura Braghetti e parte per l’ultima tappa della vita di Moro, in via Montalcini.
E qui, affiorano i dubbi, nascono le domande, crescono le dietrologie. Il racconto dei terroristi e il memoriale di Morucci sono diventati realtà processuale, ma molti punti oscuri rimangono, raccolti dal fratello di Moro, Alfredo Carlo, magistrato, rilanciati dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta, quarant’anni dopo: come mai quei due trasbordi dell’ostaggio avvengono in luoghi così pubblici? Chi erano i due sulla moto Honda subito dopo l’agguato? E cosa faceva in via Fani il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi? L’operazione militare non è troppo complessa per un commando di soli quattro uomini? I legami accertati tra il bar Olivetti (dietro la cui siepe si nascondono i killer) la ‘ ndràngheta e il traffico d’armi si incrociano in qualche modo con il sequestro? C’è un collegamento operativo tra le Br e la Raf, l’organizzazione terroristica che in Germania aveva appena rapito — sei mesi prima — il presidente della Confindustria tedesca, Hanns-Martin Schleyer? E ancora, gli avvertimenti internazionali che Moro ha ricevuto per la sua politica di apertura al Pci, denunciati dalla moglie e dai suoi collaboratori, che peso hanno in quel marzo 1978? Infine: possibile che non ci sia stata una prigione di passaggio, vicina a via Fani, magari « con carattere di extraterritorialità » , come ipotizzò il questore di Roma De Francesco? L’appartamento al numero 8 di via Montalcini, interno 1, è davvero l’unico carcere di Moro per tutti i 55 giorni?
I dubbi durano da quarant’anni. «Il fantasma di mio padre è prigioniero di due pregiudizi — dice oggi Giovanni Moro —: la dietrologia, per cui tutto quel che appare non è vero ed è vero solo quel che non appare, e il revisionismo, per cui tutto è chiaro, anche ciò che non spiega nulla». Ma a via Fani, in quel primo momento, non funzionano nemmeno i telefoni, tutta la zona non può comunicare per un blackout, la Sip non si spiega quel che succede, il sostituto procuratore Infelisi che arriva sul posto parla di «sabotaggio». Ma qualcuno ha fatto in tempo a portare la notizia nella parrocchia di San Francesco. Quirino Di Santo, il parroco, avverte Eleonora Moro, che è nella sala del catechismo. A piedi, da sola, la moglie di Moro arriva in via Fani, vede l’auto blu, i corpi insanguinati di Leonardi e di Ricci, i due cadaveri di Zizzi e Rivera rovesciati sull’Alfetta, un prete che congiunge le mani davanti al corpo di Raffaele Iozzino coperto dai fogli di giornale, china il capo in una preghiera, poi fa il segno della croce nell’aria che sa di piombo, di polvere da sparo, di sangue.
Sono le 10,15. I brigatisti che erano venuti da fuori per l’“operazione Fritz”, Bonisoli e Fiore, sono già alla stazione, dove aspettano il primo treno per tornare nelle loro basi, a Milano e a Torino. Mentre tutta Roma è risucchiata in via Fani, dall’altra parte della città l’auto con il prigioniero chiuso nella cassa, bendato, ha già svoltato in via Montalcini. Maccari che vigilava all’angolo sale a bordo, Gallinari segue a piedi, Moretti sta già infilando la rampa per scendere nel garage dove tutto finirà, tra 55 giorni. Ma adesso, per Moro si è appena aperta la porta della prigione.