il manifesto 15.3.18
È scontro Fatah-Hamas mentre Gaza affonda
Striscia
di Gaza. Restano molto tesi i rapporti tra il partito del presidente
Abu Mazen e gli islamisti dopo l'attentato, senza conseguenze, di due
giorni fa contro il convoglio del premier dell'Anp Rami Hamdallah. La
popolazione di Gaza guarda ai suoi problemi quotidiani
Gaza, il cratere provocato dall'esplosione della bomba contro il convoglio del premier
di Michele Giorgio
GAZA
Fatah e Hamas si scambiano nuove accuse dopo l’attentato di martedì,
senza conseguenze, avvenuto all’ingresso di Gaza contro il convoglio del
premier dell’Anp Rami Hamdallah e il capo dell’intelligence Majd Faraj.
Il presidente Abu Mazen attribuisce al movimento islamico, che
controlla Gaza, tutta la responsabilità dell’accaduto. Hamas, per bocca
di uno dei suoi fondatori, Mahmud Zahar, respinge l’accusa di
coinvolgimento. «Se Hamas fosse stato interessato all’assassino di
Hamdallah allora il primo ministro non sarebbe rimasto vivo», ha
spiegato con lapidaria sincerità Zahar, riferimento nella direzione
politica del braccio armato di Hamas. Le indagini sull’attentato
continuano, assicura il capo delle forze di sicurezza di Gaza Tawfiq Abu
Naim. Per ora non si sa nulla se non che sono stati fermati alcuni
sospetti. Nessuno ha rivendicato l’attacco.
Comunque sia andata la
popolazione di Gaza in poche ore ha metabolizzato l’accaduto e ieri
appariva di nuovo immersa nei suoi problemi. Nessuna curiosità per il
piccolo cratere aperto nell’asfalto dall’esplosione dell’ordigno
nascosto ai margini della strada tra il valico di Erez e il capoluogo
Gaza city. Sono troppi e sempre più difficili da risolvere i problemi di
questo piccolo pezzo di terra palestinese causati soprattutto dal
blocco attuato da oltre dieci anni da Israele (e dall’Egitto). Non
sorprende che dei 540 milioni di dollari che le Nazioni Unite chiedono
ai Paesi donatori per gli aiuti umanitari nei Territori palestinesi
occupati, il 75% sia destinato proprio alla Striscia di Gaza. Oggi a
Roma è prevista una conferenza internazionale in sostegno dell’Unrwa,
l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi colpita dal taglio di 300
milioni di dollari nelle donazioni Usa. «L’elettricità è scarsa, l’acqua
è in gran parte non potabile, l’economia è ferma, la disoccupazione
sfiora il 50% tra gli adulti – ci dice Basem Abu Jrai, un ricercatore
del Al Mezan for Human Rights – e le poche imprese che lavorano poi non
riescono a vendere i loro prodotti fuori da Gaza. Lo scorso anno le
esportazioni sono state appena il 2% rispetto al totale delle
importazioni. Israele non lascia uscire nulla dalla Striscia».
Ed è
paradossale che per parlare di Gaza e dei suoi problemi due giorni fa
si siano incontrati alla Casa Bianca, su invito dell’Amministrazione
Trump, i rappresentanti di Israele, Bahrain, Egitto, Oman, Qatar, Arabia
Saudita e di vari Paesi europei in assenza dei principali interessati: i
palestinesi. L’Anp ha respinto l’invito Usa non tanto, o non solo, per
il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto da
Trump, ma perché vi ha scorto il tentativo di promuovere il “piano di
pace” Usa che non prevede la nascita dello Stato di Palestina. L’inviato
americano per il Medio Oriente Jason Greenblatt ha presentato una serie
di misure per Gaza senza affrontare il blocco israeliano, storica causa
della crisi. Alla fine l’iniziativa Usa si è rivelata per quello che
era: un pretesto per far incontrare i delegati israeliani con quelli dei
Paesi del blocco sunnita del Golfo.
A Washington nessuno ha
affrontato le critiche che il Controllore israeliano dello Stato ha
rivolto all’Esercito e al governo Netanyahu per come ha gestito l’ultima
guerra contro Gaza. In particolare per la cosiddetta direttiva
“Annibale” che all’inizio di agosto 2014 vide le forze armate israeliane
bombardare massicciamente i quartieri orientali di Rafah in reazione
alla cattura di un ufficiale dello Stato ebraico da parte di combattenti
palestinesi. I civili uccisi furono oltre 100.