il manifesto 13.3.18
Potere illimitato, ma Xi Jinping non è il «nuovo Mao»
Cina.
Quella Cina non c'è più e i rischi di un uomo solo al comando a tempo
indeterminato fanno parte tanto della storia dell’umanità, quanto della
sua fase capitalistica più vicina a noi
di Simone Pieranni
L’Assemblea
nazionale cinese ha ratificato l’abolizione del limite di due mandati
per il presidente della Repubblica popolare cinese; in questo modo Xi
Jinping potrà estendere il suo «regno» ben oltre i dieci anni canonici.
Il limite venne stabilito da Deng Xiaoping negli anni ’80 proprio contro
i rischi di un potere illimitato, per garantire una leadership
collettiva al partito e per gestire in modo «morbido» la successione al
vertice.
La recente decisione dell’Assemblea – quanto di più
simile a un parlamento, anche se in realtà ha un mero compito di
ratificare quanto già deciso dal partito comunista – ha preso atto di
quanto si poteva osservare in Cina da tempo: Xi Jinping, infatti, al
recente congresso del Pcc di ottobre, non aveva fornito alcuna
indicazione sulla sua successione, lasciando intendere la volontà di
andare oltre il suo mandato.
Questa novità nella recente storia
cinese è stata spiegata dai media statali con la necessità di garantire
stabilità a un paese in una fase delicata. La Cina infatti sta gestendo
una crescita controllata e una complicata trasformazione da un’economia
trainata dalle esportazioni a una con un fiorente mercato interno basato
su innovazione e progresso tecnologico, contemporaneamente alla
necessità di proseguire sulla linea di espansionismo commerciale
internazionale tracciato dalla Nuova via della seta.
Allo stesso
modo il paese deve fare i conti con una realtà internazionale cangiante,
con accelerazioni improvvise, come dimostrano le recenti decisioni di
Donald Trump sui dazi e sulla possibilità di un incontro con Kim Jong-un
(doppio potenziale colpo a Pechino).
Si tratta di due eventi
recenti che devono aver rafforzato l’idea di chi sostiene che Xi Jinping
debba continuare a controllare il paese, ora che il partito comunista
ha ottenuto una nuova popolarità e la Cina è tornata ad avere una
postura internazionale rilevante. Le insidie, per entrambi i risultati
ottenuti ad oggi da Xi, sono tante e si è dunque scelto per la
continuità.
Prima di analizzare alcune storture in questa
decisione, è necessario liberarci subito da un equivoco sul quale in
realtà sembrano aver giocato alcuni media: Xi Jinping non è «il nuovo
Mao», per la semplice ragione che quella Cina non c’è più, non esiste
più da tempo e sarebbe il caso che tutti lo ricordassero; riportare
Pechino sempre indietro nella storia, anche solo attraverso facili
richiami, significa continuare a considerare la Cina al di fuori di un
consesso internazionale nel quale, basti pensare agli Usa di Trump, in
questo momento sembra essere l’unica potenza responsabile.
Allo
stesso modo, però, non reggono le spiegazioni di chi – ritenendo la
volontà di avere uomini forti e Stati in rischiosa involuzione
autoritaria come una sorta di costante in questo periodo storico
(pensiamo ad altri paesi asiatici o alla Russia, alla Polonia e
all’Ungheria) – finisce per supportare una sorta di esenzione per la
Cina dai pericoli di questa traiettoria.
I rischi, infatti, di
avere un uomo solo al comando e per di più a tempo indeterminato fanno
parte tanto della storia dell’umanità, quanto della sua fase
capitalistica più vicina a noi: in questo caso non ci sono
«caratteristiche cinesi» che tengano.
Il limite al doppio mandato
non garantisce che – in futuro – chi potrà utilizzare quel potere, sarà
esentato da pericolosi tentazioni, finendo poi per rivolgerlo contro
qualcosa o qualcuno, un nemico interno o uno esterno. Inoltre Xi
Jinping, in questo momento, non è solo un uomo forte al comando; è un
politico che tra le armi a propria disposizione per assicurarsi e
perpetuare il suo status, avrà anche una Commissione nazionale di
supervisione, anch’essa ratificata dall’Assemblea nazionale: un organo
al di sopra perfino della Corte suprema e dedicato a ribadire la
durissima lotta alla corruzione iniziata da Xi nei primi giorni del suo
mandato.
Solo che questa Commissione – di cui si aspetta la
ratifica della legge che ne determinerà i compiti – rischia di diventare
un tribunale personale di Xi, capace di sottoporre al proprio arbitrio
non solo funzionari corrotti ma anche chi dovesse «deragliare» dalla
linea politica del presidente, segretario del partito e capo delle forze
armate per chissà quanto tempo.