il manifesto 13.3.18
Sul «reddito di cittadinanza» solo silenzio da parte della sinistra
Di
quella sinistra che oggi ride della (finta) notizia delle file ai Caf,
al Sud, per chiedere i moduli per il «reddito di cittadinanza» del M5s,
nessuna traccia. Un silenzio che spiega, meglio di qualsiasi editoriale,
la sua sconfitta all’ultima tornata elettorale. Mentre un terzo del
paese è in povertà assoluta, relativa e a rischio esclusione sociale
di Giuseppe De Marzo
«Non
c’è più tempo». Era il gennaio 2015 quando, ai cronisti accorsi sotto
la sede di Libera, Beppe Grillo sottolineò l’importanza, urgente, di una
misura di contrasto alle povertà. In ballo il «diritto all’esistenza di
milioni di persone a rischio esclusione sociale», il commento di Don
Ciotti. Su quel tavolo non c’era solo la proposta del M5s: Sel, oggi
Sinistra Italiana, e il Pd si dicevano pronti a cercare una mediazione.
Quella mediazione fu trovata grazie al lavoro della campagna «Miseria
Ladra», promossa dal Gruppo Abele e da Libera: «100 giorni per un
reddito di dignità». Furono raccolte in pochissimo tempo 100mila firme.
Da quella mediazione i 40 parlamentari di centrosinistra si dileguarono,
lasciando il M5s a predicare nel deserto politico, che tornò così sulla
proprie posizioni: una proposta di workfare. Più un ammortizzatore
sociale che una forma di welfare diffuso, orizzontale, individuale. Un
triste gioco dell’oca sulla pelle degli ultimi. A partire
dall’esperienza di «Miseria Ladra», associazioni, enti locali,
sindacati, studenti, centri di ricerca e con loro decine di sindaci e
giunte comunali dal Nord al Sud del paese si spesero dando vita a un
guida di principi irrinunciabili utile per un eventuale articolato di
legge da proporre in Parlamento. Nella campagna si chiedeva l’impegno,
ad personam, a diversi parlamentari a partire dalla loro firma come
sostegno a questa piattaforma che aveva l’intenzione di mettere insieme
le diverse proposte in campo e unire le forze politiche e parlamentari
intorno a una sola proposta. Una sorta di larga intesa per il diritto al
reddito. Un percorso che non poteva finire con un semplice dietrofront
delle forze politiche in campo. Da qui la nascita della Rete dei Numeri
Pari, che oggi conta più di 400 realtà sparse in tutta Italia.
Tre
anni dopo quell’incontro, due anni e mezzo dopo quella campagna, un
anno dopo la nascita della Rete, finalmente il tema del reddito è al
centro del dibattito politico. Il problema è, però, come l’informazione
se ne sta occupando. Invano, lo scorso 14 e 15 febbraio la Rete dei
Numeri Pari ha cercato un’interlocuzione con le forze politiche: nessun
appello, nessuna chiamata diretta ma un seminario ed una conferenza
stampa nazionale – «I love dignità» – al quale sono intervenuti
costituzionalisti come Gaetano Azzariti, magistrati come Giuseppe
Bronzini, docenti come Roberto Pizzuti e Tomaso Montanari. Con loro il
Basic Income Network-Italia, giornalisti, realtà sociali e di movimento,
studenti, parrocchie, cooperative, sindacati. Una sola proposta al
centro, unitaria, che risponde alla crisi della democrazia e guarda a
una vera forma di protezione sociale: dieci punti per un reddito di
dignità.
Tutto inutile. La politica era troppo intenta a cercare
voti. Il risultato è la triste situazione attuale, con il racconto
auto-assolutorio di un «popolo imbecille» che si sarebbe fatto
convincere dall’assistenzialismo del M5s. Di quella sinistra che oggi
ride della (finta) notizia delle file ai Caf, al Sud, per chiedere i
moduli per il «reddito di cittadinanza» del M5s, nessuna traccia. Un
silenzio che spiega, meglio di qualsiasi editoriale, la sconfitta della
sinistra all’ultima tornata elettorale. Un terzo del Paese – tra chi è
in povertà assoluta, relativa e a rischio esclusione sociale – sta
gridando aiuto, intrappolato all’interno di un modello economico che per
auto-alimentarsi genera diseguaglianze e disoccupazione. In un sistema
del genere, la domanda che mettiamo al centro del dibattito politico è:
le persone che vivono in povertà hanno diritto a esistere oppure no?
Se
la risposta è si, e quindi vogliamo riconoscere e garantire lo «ius
existentiae», il diritto ad esistere per ogni essere umano, dobbiamo
obbligatoriamente pensare a forme di welfare universali, e non selettive
come hanno fatto i governi negli ultimi anni; allo stesso tempo diventa
indispensabile come avvenuto in tutta Europa introdurre anche nel
nostro paese un reddito minimo garantito, e non piccole forme di
sostegno che nascondono in realtà lo sfruttamento della condizione di
povertà, obbligando chi è già in difficoltà a forme di lavoro (?) che
non tengono conto della condizione o del percorso di esperienze
personali. Chi vuole continuare a fare campagna elettorale, faccia pure.
Chi punta a portare al centro la questione del reddito come strumento
di contrasto alle povertà e alle paure che queste generano, dovrebbe
«festeggiare» il fatto che finalmente sui media mainstream si è aperta
una crepa. Su questa crepa si potrà e si dovrà costruire iniziativa
politica, alleanze, rafforzando la consapevolezza sulle cause della
crisi e sulle proposte da mettere in campo. A partire dai dieci punti
che definiscono i principi irrinunciabili dei regimi di reddito minimo
garantito stabiliti sin dal 1992 dal Parlamento Europeo e dalla
Commissione UE. L’obiettivo è restituire dignità a milioni di persone.
Il lavoro in questa direzione ci darà l’opportunità di rispondere
all’altra sfida posta dalla crisi: coniugare giustizia sociale e
dinamismo economico.
* Coordinatore della Rete dei Numeri Pari