il manifesto 13.3.18
Renzi, l’autocritica per gli altri e la minaccia: tornerò
di A. Fab.
Va
via ma già annuncia che tornerà. Che ci proverà. Da qualche parte.
L’annuncia con la stessa frase con cui, dopo la sconfitta nel referendum
del 2016, annunciò la ripartenza dal blog: «Il futuro prima o poi
arriva». Quel blog Matteo Renzi lo ha poi chiuso. E la guida del Pd l’ha
lasciata, l’anno scorso, solo per due mesi. Stavolta durerà di più, o
per sempre. Ma una cosa è identica: il segretario sconfitto evita di
discutere della sconfitta. La sua lettera di dimissioni è una «presa
d’atto dei risultati elettorali». Un po’ di analisi del voto Renzi la
riserva al Corriere della Sera: trova colpe negli altri, soprattutto.
Gli altri nel frattempo discutono in una direzione che, per la prima
volta senza di lui, va avanti per ore.
Le colpe degli altri,
naturalmente, prevedono la retorica «assunzione di responsabilità». Ma
intanto: è stato sbagliato non votare l’anno scorso, e Renzi avrebbe
voluto farlo. Sbagliato «il dibattito interno logorante». Sbagliata la
«prudenza», e lui certo prudente non è mai stato. Non è difficile
riconoscere il profilo di qualche nemico interno: «Alcuni nostri
candidati non hanno neanche proposto il voto sul simbolo del Pd, ma solo
sulla loro persona». Ce l’ha con Gentiloni, che nel collegio
uninominale di Roma ha chiesto e ottenuto tanti voti (il 16% abbiamo
calcolato) solo sul suo nome (la gran parte di quei voti sono andati
comunque al Pd). «Vedo qualche fenomeno spiegare che abbiamo sbagliato
tutto ma nelle regioni dove governano loro il Pd è andato peggio della
media», e qui ce l’ha sicuramente con Emiliano per la Puglia,
probabilmente anche con De Luca, lesto a riposizionarsi, in Campania.
Potrebbe avercela anche con Zingaretti nel Lazio, anche se nel complesso
della regione il Pd sta sulla media nazionale. Non può avercela invece
con Chiamparino, che adesso lo critica, solo perché in Piemonte il Pd ha
fatto meglio della media nazionale. Ma la stizza è generalizzata: «La
viltà di oggi fa il paio con la piaggeria di ieri», dice al Corriere.
Sferza gli «opportunisti» e i «mediocri», e qui ce l’ha con tanti. Che
si guardano bene dal replicare e anzi votano una documento che
«ringrazia il segretario» per il «lavoro», l’«impegno» e la
«determinazione».
Che ci sia rabbia al momento delle dimissioni è
inevitabile, è sempre stato così per l’addio dei segretari del Pd.
Veltroni il 17 febbraio 2009 si dimise – dopo la sconfitta alle
regionali in Sardegna – citando Nanni Moretti: «Mi assumo le
responsabilità mie e non, basta farsi del male», disse davanti al
coordinamento del partito. «In questo partito c’è una pulsione a
distruggere senza rimedio, uno su quattro tra voi mi ha tradito», disse
Bersani dimettendosi il il 19 aprile 2013 davanti all’assemblea dei
parlamentari del Pd, che aveva appena affondato la candidatura di Romano
Prodi al Quirinale.
Nessuno si è dimesso in contumacia. E
nessuno, andandosene, ha detto come Renzi ieri «non mollo». Un po’ per
abitudine lessicale, non è gergo di sinistra e nemmeno democratico, un
po’ per stile: Renzi invece pubblica la lettera di un giovane malato di
Sla che lo invita, appunto, a «non mollare».
Non mollando, si
concede orizzonti lunghi. Cita la riforma costituzionale cinese, quella
che consentirà al segretario generale del partito di restare alla guida
del paese anche dopo la scadenza del secondo quinquennio. «Ho avuto il
privilegio di conoscere Xi Jinping in più di una circostanza. Quello che
sta accadendo in Cina è molto interessante: nella visione istituzionale
di quel paese non bastano più dieci anni per affermare una visione di
lungo periodo», scrive Renzi. E Andrea Orlando lo accusa appunto di
«strategie cinesi»: «Pensa di fare come Mao, defilarsi per sparare sul
quartier generale». Ha già cominciato a farlo.