il manifesto 11.3.18
La metamorfosi come passaggio di stato/identità
Storie
antiche. Rispetto a quelle ovidiane, «Le metamorfosi» di questo autore
sconosciuto che visse tra II e III secolo, sottolineano l’idea del
divenire. Da Adelphi
William Adolphe Bouguereau, Biblis, 1884, India, Salar Jung Museum
di Maria Jennifer Falcone
C’è
un faraglione, nei pressi di Vieste, che porta il nome di Pizzomunno.
La sua storia, ora musicata da Max Gazzè, narra l’amore tra l’omonimo
pescatore e la bellissima Cristalda. La loro passione è invidiata dalle
Sirene che, rifiutate dal giovane, trascinano la ragazza in fondo al
mare e trasformano il suo amato in quel monolite calcareo che si staglia
di fronte alla costa del Gargano. I due possono incontrarsi per una
sola notte ogni cento anni, e così il loro amore, come la pietra,
resiste al tempo e vince la morte. Trasformazione, poesia, amore,
punizione, eziologia: sono molti gli ingredienti che rendono la
raffinata ballata del cantautore romano un tassello moderno di
quell’«infinito racconto delle metamorfosi» che affonda le sue radici
nel mondo greco-romano.
Se l’opera antica più nota è senza dubbio
il poema di Ovidio, un contenitore importante di racconti di
trasformazione è costituito dalla raccolta di Antonino Liberale,
Metamorphóseon Synagogé, ora proposta in traduzione italiana, con
introduzione e note di commento, da Adelphi (Le metamorfosi, «Piccola
Biblioteca», a cura di Tommaso Braccini e Sonia Macrì).
Dell’autore
non si sa quasi nulla: il suo nome e alcune caratteristiche del greco
in cui scrive lo lasciano collocare tra il II e il III secolo d.C.,
sotto gli Antonini o i Severi. Rocambolesca è la storia dell’unico
manoscritto che riporta il testo, raccontata con chiarezza da Braccini
nell’introduzione. Ora conservato presso la biblioteca universitaria di
Heidelberg, il Palatinus graecus 398 faceva parte della cosiddetta
Collezione filosofica del Palazzo imperiale di Costantinopoli, fatto
copiare da Leone il Matematico nella seconda metà del IX secolo. Il
testo delle Metamorfosi è arricchito da didascalie e interventi eruditi
stratificati, iniziati nella tarda antichità. Riscoperto nei primi
decenni del Quattrocento da un religioso domenicano che lo portò in
Occidente, fu prestato, rubato, donato, trasportato, e si trovò così di
volta in volta a Basilea, Heidelberg, Roma, Parigi, passando tra le mani
di filologi importanti, come il Frobenius e lo Xylander (che lo
tradusse per la prima volta in latino), per poi tornare finalmente a
Heidelberg solo nel 1816 dopo la caduta di Napoleone.
Le
quarantuno storie di trasformazione sono narrate in una prosa piana ma
con dovizia di dettagli (mitografici, geografici, culturali in senso
lato) sempre opportunamente chiariti nelle note di commento, che –
ricche e ben documentate – si rivelano un ottimo strumento per gli
specialisti senza spaventare il lettore meno esperto.
Numerosi
sono i racconti dedicati agli animali, in particolare agli uccelli. È il
caso di Cicno: il giovane, che impone al suo pretendente Filio una
serie di prove, si getta in un lago (da allora chiamato Cicneio) dopo
che questi si rifiuta di obbedirgli; disperata, sua madre lo segue in
acqua e i due vengono trasformati in uccelli lacustri. Oltre a informare
che una storia simile è nota da Ovidio, il commento ricorre agli studi
sulla fiaba e sui racconti di folklore (in particolare, alla
classificazione di Aarne-Thompson) interpretando i compiti dati a Filio
come suitor tasks, prove imposte ai pretendenti.
Diverse sono le
storie riguardanti amori incestuosi, con interessanti note
storico-antropologiche sul tema dell’incesto nel mondo antico. Come la
vicenda dell’irrefrenabile passione di Biblide nei confronti di Cauno,
suo fratello gemello: la ragazza viene trasformata in una ninfa
Amadriade, mentre dalla roccia dalla quale era pronta a gettarsi scorre
ancora un’acqua detta dai locali «Lacrime di Biblide». O come quella di
Smirna, follemente innamorata di suo padre, del quale rimane incinta (il
bellissimo figlio di questa colpa, Adone, farà innamorare la dea
Afrodite) e si trasforma nell’albero della mirra: «si dice che
quest’albero ogni anno faccia trasudare il suo frutto dal legno come se
piangesse».
Ci sono poi storie di amori osteggiati, come quello di
Eracle e Ila: del ragazzo si innamorano le ninfe, che lo rapiscono e lo
trasformano in eco per ingannare Eracle e costringerlo così a
interrompere le ricerche. E non mancano vicende legate a mutamenti di
identità sessuale, come quella di Leucippo, nato femmina ma allevato
dalla madre come maschio per esaudire il desiderio del padre di avere un
figlio, e infine trasformato in ragazzo dalla dea Leto: Antonino
inserisce nel racconto altri protagonisti di cambiamenti sessuali, come
l’indovino Tiresia, passato da uomo a donna e poi di nuovo da donna a
uomo.
Proprio come per il Pizzomunno in Puglia, anche nel mondo
antico le metamorfosi spesso sono legate a scogli e sassi: come quella
di Batto, punito da Ermes per aver rivelato un suo segreto e per questo
trasformato in pietra, le cosiddette «Vedette di Batto».
Se il
fascino e l’attualità tematica di certi racconti di trasformazione
narrati da Antonino ne dimostrano la vicinanza alla nostra cultura,
nell’interessantissima prima sezione dell’introduzione Macrì mette in
guardia dal rischio di sovrapposizione, ponendo l’attenzione sulla
lingua e ricorrendo a un approccio antropologico. Mentre, infatti,
l’italiano, parlando di ‘metamorfosi’ e ‘trasformazione’, fa riferimento
anzitutto al mutamento del sembiante, ovvero della ‘forma’ (morphé, in
greco), nella raccolta di Antonino Liberale il verbo metamorphóo compare
solo due volte e il tema dell’aspetto sembra essere eluso. Piuttosto,
viene sottolineata l’idea del ‘divenire’, dell’avvicendamento di
condizioni che si sostituiscono ad altre, come dimostrano i verbi
egéneto (‘divenne’), metébalen o katébalen (‘cambiò’), éllaxe tèn phýsin
(‘cambiò la natura’). Piuttosto che sui corpi, come faceva Ovidio nelle
Metamorfosi (vv. 1-2: in nova fert animus mutatas dicere formas /
corpora, «l’ispirazione mi spinge a narrare il mutare delle forme in
corpi nuovi»), Antonino si concentra sui passaggi di stato e sul tema
dell’identità personale. Questa è inserita in un contesto sociale
caratterizzato da una successione chiara di tappe prestabilite, il cui
superamento è necessario per portare a compimento la propria natura,
come dimostrano e contrario i miti narrati: Biblide, per esempio, che
dovrebbe diventare adulta nel matrimonio, resta eternamente una Ninfa a
causa del suo amore colpevole.
Altrettanto importante e
opportunamente messa in luce da Macrì è la prospettiva fortemente
antropocentrica che caratterizza il paesaggio antico, contemporaneamente
sfondo e risultato delle vicende, e che sostanzia il ricorso all’aition
(la narrazione, cioè, che giustifica un toponimo o un rituale legato a
un luogo) in quanto fondamento della memoria culturale della comunità.
Dalla
Grecia a Vieste, passando per tutte le città in cui il manoscritto di
Heidelberg è stato letto e studiato, la metamorfosi è davvero
«un’esperienza che ancora oggi non cessa di esercitare fascino e di
essere raccontata», che è capace di dare vita a piante, luoghi, animali.
Grazie alla filologia e allo studio di raccolte come quella di
Antonino, non dimentichiamo storie lontane (e, come visto, espressione
di una cultura altra) come quelle di Cicno, Biblide e Smirna, Ila,
Leucippo, Batto. Allo stesso tempo, grazie al folklore, alla poesia e
alla musica, ne recuperiamo e apprezziamo di più vicine, come quella di
Pizzomunno, scoglio e pescatore eterno del Gargano: «e quell’ira
accecante lo fermò per sempre. E così la gente lo ammira da allora,
gigante di bianco calcare che aspetta tuttora il suo amore rapito e mai
più tornato!».