il manifesto 11.3.18
“Ba-sta razzismò”. Firenze reagisce, 15mila in piazza
Neri per caso?. Un fiume intergenerazionale e arcobaleno ricorda Idy Diène manifestando in corteo contro ogni razzismo. Alla fine anche il sindaco Nardella capisce cosa è successo: "Ci sarà lutto cittadino". I senegalesi: "Salvini, tu parli solo male degli africani, questi sono i risultati".
di Riccardo Chiari
FIRENZE “Ba-sta razzismò, ba-sta razzismò”. I tantissimi senegalesi in corteo lo ritmano lungo tutto il percorso, restituendo senso, una volta tanto, alle parole. Si manifesta per Idy Diéne, e come hanno chiesto le associazioni dei senegalesi di Toscana “questo vuol essere un ricordo doloroso di una persona cara, ma anche una affermazione collettiva del rifiuto dell’incitamento all’odio nei confronti dei migranti e rifugiati, che ha caratterizzato in modo marcato il dibattito pubblico nell’ultimo anno”. Per certo è un fiume intergenerazionale e arcobaleno quello che invade piazza Santa Maria Novella, via dei Fossi, i lungarni Vespucci e Soderini, il ponte alla Carraia e il ponte Vespucci. Lì dove il 54enne ambulante è stato usato come un bersaglio, prima di essere ammazzato, con il colpo di grazia alla testa, da un tipografo in pensione con l’hobby delle armi.
Sfilano in (molti) più di 10mila – numero della questura – e tutti sanno bene che nessuno potrà riportare in vita Idy Diéne. Ma essere qui può aiutare a combattere il razzismo, che sia dichiarato o strisciante poco conta, ormai sdoganato da forze che con la parola d’ordine del “prima gli italiani” portano migliaia di loro ad essere “eletti dal popolo” in Parlamento e negli enti locali. “Quell’uomo l’ha studiato, l’ha studiato (l’omicidio, ndr) – quasi urla un senegalese ai microfoni di Radio Popolare – lui quel giorno ha incontrato un milione di persone e poi ha sparato a un nero. Salvini, io ti vedo tutte le volte al telegiornale, tu parli solo male degli africani, questi sono i risultati”.
Agli angoli del ponte Vespucci, attaccato sul muro, un volantino racconta l’Italia di oggi vista con gli occhi di un migrante: “Cari fratelli e sorelle italiani, se avete fame oggi; se siete senza lavoro; se siete diventati poveri, noi neri, noi africani, non siamo colpevoli; non siamo responsabili delle vostre rogne. Cercate i responsabili da Sarkozy a Berlusconi, alleati hanno bombardato la Libia e il resto dell’Africa. Se le vostre bombe cadessero in Italia cosa fareste? Dov’era la colpa del povero Diéne Idy, il fatto di essere nero. Essere nero è un reato in Italia, basta!”.
La manifestazione è stata in forse fino a venerdì, anche questo è toccato vedere dopo che la parola razzismo è stata tabù per giorni, sindaco Nardella in testa. Invece dal direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, erano arrivate parole sensate: “Se qualcuno spara pallottole contro qualcun altro che ha la pelle di colore diverso, avendo incontrato prima anche altre persone, è chiaro che si tratta almeno di razzismo subliminale: questo è ovviamente inaccettabile e va debellato, così come il razzismo manifesto e proclamato”.
E’ stato un corteo talmente civile che a Nardella, anche lui in marcia, è stato dedicato solo un graffiante striscione: “Je suis fioriera”. In eterno ritardo, anche il sindaco ha finalmente capito: “Ho parlato con la famiglia di Idy, ha acconsentito a far svolgere una giornata funebre con una cerimonia funebre, e questo ci consente di programmare il lutto cittadino. In questo modo noi diamo un ulteriore segnale di sensibilità e vicinanza della nostra città”.
Nel lunghissimo corteo altri rappresentanti istituzionali (Enrico Rossi), la portavoce di Potere al popolo Viola Carofalo (“non si poteva non essere qui”), intellettuali (Adriano Sofri, Wlodek Goldkorn, Tomaso Montanari), i responsabili dell’Anpi dell’intera provincia, Gigi Remaschi in testa. Con loro la Cgil, l’Usb, i Cobas, l’Arci, la rete antirazzista fiorentina con le variegate anime della sinistra che resiste. E ancora Tommaso Fattori e Giacomo Trombi con lo striscione “Stay human”: restiamo umani. Senza dimenticare la realtà, fotografata dallo striscione di uno spezzone di corteo tutto al femminile: “Chi spara alla moglie, chi spara all’immigrato, è un maschio bianco, e va fermato”.
“Forza, dobbiamo parlare, dobbiamo farci sentire – spiega una ragazza senegalese alle sue compagne di corteo – perché queste tragedie non devono più succedere, non vogliamo piangere altri morti come Samb, come Diop, come Idy”. Perché Firenze è recidiva. Anche se la sua parte migliore, oggi in corteo, la pensa come il cartello portato dal manifestante ignoto: “Mio fratello non è figlio unico”.
Corriere La Lettura 11.3.18
Anteprima Esce in Italia il carteggio tra i due filosofi. L’amarezza dell’esule espatriato per sfuggire al nazismo, un silenzio abissale durato vent’anni
Gelo tra Heidegger e Löwith Il legame spezzato da Hitler
di Donatella Di Cesare
Quando ha inizio il carteggio Martin Heidegger era appena trentenne mentre il suo brillante allievo Karl Löwith aveva solo ventiquattro anni. Anzitutto poche righe, datate 22 agosto 1919, con cui Heidegger ringrazia per un paio di cartoline.
Uscito in Germania nel 2017, all’interno di un monumentale progetto che prevede la pubblicazione dell’intera corrispondenza di Heidegger (trenta epistolari di carattere privato e cinque di stampo istituzionale), il carteggio con Löwith, tradotto ora in italiano per le edizioni Ets di Pisa, si estende per un lungo arco di tempo, fino al 1973. E comprende 124 lettere o cartoline, di cui 76 scritte da Heidegger e 48 da Löwith. La corrispondenza, come avverte Alfred Denker che ha curato l’edizione critica, non è completa: mancano qui e là alcuni tasselli andati perduti.
È bene avvertire il lettore: comunque lo si voglia interpretare, il carteggio si interrompe bruscamente il 29 luglio 1933. Con poche e imbarazzate parole Heidegger si congeda dal suo allievo rallegrandosi con lui, che ha ottenuto una borsa di studio. Löwith, che ha un cognome scomodo e un padre ebreo, è costretto dall’ascesa di Hitler a lasciare la Germania. Ma tutto appare come se si trattasse quasi di una vacanza. Il maestro neppure lo saluta: «Per via del mio breve soggiorno a Marburgo, non mi è stato possibile passare da lei». Con amarezza Löwith lo ricorderà nelle sue memorie: La mia vita in Germania prima e dopo il 1933 (Il Saggiatore, 1988).
Su 261 pagine dell’edizione italiana solo le ultime dieci sono successive al 1936, l’anno del fortuito incontro a Roma, dove Heidegger si reca per tenere la sua conferenza sulla poesia di Friedrich Hölderlin. Il silenzio abissale dal 1937 al 1958 è interrotto solo da un biglietto di auguri che Löwith invia da New York il 20 settembre 1949. In seguito i toni restano freddi; l’epilogo non è una riconciliazione. Mai Heidegger avverte il bisogno di condannare la Germania del Terzo Reich che aveva inflitto al suo allievo un esilio penoso tra Italia, Giappone, America, rovinandogli la vita. Solo a pochi giorni dalla morte di Löwith, il 5 maggio 1973, gli manda una lettera a tratti commossa: «Gadamer mi ha scritto della sua malattia (…). Alla nostra età pensiamo all’addio e insieme all’inizio dei nostri cammini». Conclude con un verso di Rainer Maria Rilke: «Sii oltre ogni addio…».
Il carteggio non è solo uno spaccato storico. Mette in luce la personalità dei due filosofi, fa emergere un sodalizio mancato. Protagonista è Löwith, che scrive molto di più: pagine lunghe e impegnative. Sicuro di sé, convinto della sua vocazione filosofica, legge gli esponenti dell’idealismo tedesco, Hegel e Schelling, studia Nietzsche, di cui sarebbe divenuto grande interprete. Impossibile non ricordare il suo splendido libro del 1941 Da Hegel a Nietzsche (Einaudi, 2000). Non stupisce che si senta così attratto da Heidegger, quel genio rivoluzionario che va mettendo a soqquadro l’esangue filosofia accademica del tempo. Quale fortuna avere un maestro così! Si percepisce la soddisfazione di Löwith, si indovina la sua speranza. Si sente privilegiato anche perché sa di essere l’allievo preferito. La stima di Heidegger, quella certa complicità che si va instaurando tra loro, lo rafforza nella sua scelta. Le lettere sono perciò anche un encomio della filosofia. «Un mondo intero separa il filosofo dai piccoli profeti letterari», commenta Löwith, un abisso lo divide dagli scienziati. La filosofia è inscindibile dalla vita. Ma proprio per ciò il prezzo è alto. Löwith parla di «malessere». Quando le cose non vanno, a fine giornata si rifugia allora nell’amicizia. E lo rivendica. Tutto quel che di grande ha vissuto, dalle gioie ai tormenti, ha a che fare con la filosofia e con l’amicizia. Questo è il tema del carteggio. Ma Heidegger, no, non sa di amicizia, o non vuole saperne. Già presto Löwith gli rimprovera «un’asprezza scomposta», un’indefinibile capacità di oltrepassarsi che finisce per isolarlo. Il maestro ribatte: «Conduco una vita da eremita, ritirato nel lavoro». Aggiunge: «La filosofia non è un passatempo; si può andare in rovina». Chi non la assume con questo rischio non sa neppure cosa sia. Come si sottrae ai suoi allievi, così evita Löwith il quale, dopo averne invano cercato l’amicizia, critica Essere e tempo , dove mancano l’altro e quell’esser con l’altro che diventerà il tema della sua tesi di libera docenza L’individuo nel ruolo del co-uomo (Guida, 2007).
C’è chi a sproposito parla di «risentimento» di Löwith nel dopoguerra, magari prescindendo da tutto ciò di cui era stato vittima. Certo è che, quando nel 1952, grazie a Gadamer, che era il suo miglior amico, riesce a rientrare in Germania, a Heidelberg, Löwith comprensibilmente non solo non dimentica, ma punta l’indice contro il vecchio maestro pubblicando, l’anno successivo, la prima pubblica denuncia: Heidegger, Denker in durftiger Zeit , «Heidegger pensatore nel tempo di povertà» (in italiano nel volume Saggi su Heidegger , Einaudi, 1966).
Corriere La Domenica 11.2.18
Miti
La grotta più famosa della filosofia
Platone insegna Il nostro destino è nella caverna
di Umberto Curi
«Strana immagine — disse — e strani incatenati». È questo il primo commento formulato da Glaucone, interlocutore di Socrate nell’esordio del libro VII della Repubblica , dopo aver ascoltato la descrizione della «dimora sotterranea a forma di caverna» e della condizione di coloro che in essa sono prigionieri.
Tanto l’ immagine ( eikón ) complessiva che è stata evocata, quanto coloro che in essa sono raffigurati avvinti da catene ( desmótas ), appaiono strani ( atópous ), perché privi di un luogo ( tópos ) a cui attribuirli, e che li renda perciò riconoscibili. La nostra phýsis , ciò che ciascuno di noi è per «nascita», appare dunque originariamente simile a quella «strana» eikón . Come quei prigionieri, anche noi possiamo vedere e sentire soltanto skiái — solamente «ombre». Inevitabile, quindi, la conclusione. Chiunque si trovi in una situazione come quella ora descritta, crederà che la verità consista nelle «ombre degli oggetti artificiali».
Se vogliamo sapere quale sia la condizione umana originaria, prima che essa venga profondamente modificata attraverso quel processo di formazione in cui consiste la paidéia , dobbiamo avere in mente questa «strana» immagine, riconoscendo che noi siamo in tutto e per tutto simili a quegli incatenati. Come loro, anche noi siamo prigionieri di un mondo di ombre — dei riflessi visivi e dell’eco delle voci.
All’origine, insomma, il genere umano è caratterizzato dall’impossibilità di valorizzare pienamente le potenzialità connesse con il vedere. Le catene impediscono qualsiasi visione panoramica, impongono una fissità nel vedere che si traduce in una vera e propria amputazione sensoriale, e dunque conoscitiva. Ciò implica non solo una visione-conoscenza difettiva del «mondo» esterno a noi, degli altri e di ciò che li circonda, ma anche di noi stessi.
«Supponi ora — racconta Platone — che uno dei prigionieri si sciolga». Questo passaggio della narrazione platonica ha dato origine a innumerevoli equivoci, a vere e proprie rimozioni collettive. Perché il filosofo non dice se il prigioniero si sciolga da sé, o perché aiutato da altri. Perché non precisa che cosa induca l’incatenato a privarsi dei suoi ceppi. Perché il percorso che conduce fuori dalla caverna è descritto per ellissi e allusioni, più che illustrato nei dettagli. Un punto, fra tutti, deve in ogni caso essere chiarito, per fugare le più diffuse distorsioni interpretative. Il mito non si conclude affatto con la fuoriuscita dalla caverna, come si è sostenuto più volte, in contesti diversi. Ritenere che il tragitto possa essere considerato compiuto nel momento in cui lo sguardo è in grado di sollevarsi verso ciò che «produce le stagioni e gli anni e che domina tutte le cose del mondo visibile ed è causa di tutto ciò che (il prigioniero) vedeva», vorrebbe dire precludersi la possibilità di comprendere in che cosa davvero consista l’essenza della paidéia , alla quale Platone riconosce la capacità di determinare non soltanto una generica «educazione», ma un rivolgimento completo dell’anima.
Affinché l’itinerario avviato con lo scioglimento dalle catene possa giungere a conclusione è infatti necessario che non solo il prigioniero ritorni nella caverna dalla quale era uscito, ma che egli ingaggi una vera e propria lotta con i desmótai , cercando in ogni modo — con la «persuasione» ( peithói ) e con la «costrizione ( anánke )» – di strapparli dalle tenebre della dimora sotterranea. Come ha sottolineato Martin Heidegger nella sua opera L’essenza della verità (Adelphi, 1988), la ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo che il presunto «libero» possa concedersi così per svago, magari per curiosità, per provare come si presenta l’esistenza della caverna vista dall’alto, ma è, essa soltanto, il «compimento autentico del divenire liberi».
Da tutto ciò consegue che la libertà coincide non con una condizione pacifica, con l’estatica e solitaria contemplazione della verità da parte di un singolo privilegiato che sia riuscito a sciogliersi dalle catene, e dunque goda di questa straordinaria opportunità. Al contrario, come Platone esplicitamente afferma, per potere essere veramente libero, colui che si sia sciolto dalle catene dovrà ritornare nella caverna e dovrà contendere con coloro che in essa sono rimasti, anche a rischio della propria incolumità e della stessa vita. Non si è liberi, se non si agisce come liberatori degli altri.
In quanto ricorda ciò che ciascuno di noi è per nascita, il mito della caverna allude ad una condizione di intrinseca ed ineliminabile duplicità come sigillo specifico e inconfondibile della condizione umana. In quanto raffigura le caratteristiche salienti di colui che ama contemplare lo spettacolo della verità, esso mostra fino a che punto la verità stessa si presenti non come un dato, o un oggetto, o una realtà definita, ma come un lotta incessante e insuperabile, nel quale entrano in conflitto lo svelarsi e il sottrarsi a questo svelamento. In quanto descrive quale debba essere il compito del filosofo all’interno degli Stati, affinché essi conoscano se non altro una «tregua» ai mali che li affliggono, esso indica nella necessità della discesa nella caverna un dovere irrinunciabile per colui che abbia ricevuto la migliore paidéia .
Infine, in quanto illustra la peculiarità dello sguardo, il mito platonico — ripreso anche nel romanzo del Nobel portoghese José Saramago La caverna (Einaudi, 2000) oltre che in varie opere cinematografiche di successo — consente di comprendere che non può esservi visione che non sia accompagnata dall’accecamento. Che mai, in nessun caso, è possibile godere di uno sguardo che non sia in qualche modo offuscato dal persistere delle ombre. Che mai è concesso andare oltre un incerto chiaroscuro, per cogliere compiutamente la luce. Che mai a nessuno di noi può accadere di uscire per sempre dalla caverna da cui proveniamo, e nella quale dobbiamo comunque ritornare, per cercare in essa, nel conflitto originario con gli altri come noi, di rintracciare una strada da percorrere, forse al riparo da irrimediabili cadute, ma anche senza illusioni di compiuta salvezza.
Corriere La Lettura 11.3.18
Scienza, amore, comunismo
Rigore e regole di Alain Badiou
L’autore condanna la forma attuale dell’ingiustizia: il capitalismo globalizzato
di Stefano Montefiori
Alain Badiou occupa un posto a sé stante nel mondo intellettuale contemporaneo. La sua fedeltà all’«ipotesi comunista» è sicuramente un fattore importante di questa sua singolarità, ma c’è anche il modo particolare di interpretare la figura del filosofo. Soprattutto in Francia, il termine «filosofo» è diventato una sorta di sinonimo di intellettuale. Chi è dotato di una visione su un particolare aspetto della realtà, chi espone un’idea in un saggio, è legittimato a dichiararsi filosofo. Alain Badiou contesta questa facilità nell’usare un termine che comporta studi, competenze, e quindi responsabilità. Nel libro precedente pubblicato in Italia da Mimesis, Elogio delle matematiche , Badiou spiega che «non si può certo dominare l’intero campo delle scienze ma si può, e si deve, averne una conoscenza sufficiente, un’esperienza abbastanza approfondita e ampia. Invece, oggi sono numerosi i “filosofi” ben lontani da questo requisito minimo e, in particolare, lontani dal sapere matematico che, da sempre, è stato il più importante per la filosofia». La qualifica di filosofo è inflazionata, e uno dei modi per smascherare gli usurpatori è a suo avviso verificare il rapporto con la matematica, via sicura per il rigore filosofico perché con lei «è impossibile barare».
Badiou poi riafferma la possibilità di una filosofia. Intesa appunto non come riflessione più o meno approfondita su un aspetto del presente, né come adesione nostalgica a una visione del passato, ma come sistema che abbia l’ambizione di abbracciare l’«essere» o, ancora meglio, l’«evento» che per Badiou è il vero modo nel quale si dispiega la realtà.
Oggi ripubblicato in Italia da Mimesis, al suo apparire trent’anni fa L’essere e l’evento pose le basi del sistema filosofico di Alain Badiou, che si completerà poi con Logiques des mondes (2006) e L’immanence des vérités di prossima pubblicazione. Nel saggio introduttivo alla nuova edizione italiana, gli autori Pierpaolo Cesaroni, Marco Ferrari e Giovanni Minozzi sottolineano come «Badiou si è poco a poco affermato come uno dei filosofi più letti e discussi al mondo, celebre per la sua incessante difesa della possibilità della filosofia, per la sua strenua invocazione di un pensiero capace di compiere un passo al di là delle apparenti condanne inflittegli dall’epoca postmoderna e di rimanere fedele a una vocazione universale; e, soprattutto, per l’impressionante quantità e varietà di temi che ha saputo affrontare, tratto che gli ha permesso di diventare oggetto di analisi negli ambiti di ricerca più disparati, superando le distinzioni imposte dal mondo accademico e dalla doxa filosofica contemporanea». Nella prefazione alla nuova edizione italiana, lo stesso Badiou ricorda che il libro è stato il risultato del lungo lavoro che ha accompagnato i «terribili anni Ottanta». «Terribili perché rappresentavano a tutti gli effetti l’inizio della reazione borghese e imperialista agli “anni rossi” (dal 1965 al 1976, ndr ), che avrebbe travolto la Terra per lungo tempo, dal momento che non ne siamo ancora usciti».
«L’essere e l’evento» è stato pubblicato per la prima volta in Francia trent’anni fa. Oggi viene diffuso in una nuova edizione in Italia. Gli anni trascorsi hanno cambiato il modo in cui il libro è stato accolto?
«Bisogna ricordare che alla sua uscita il libro ha ricevuto un’accoglienza praticamente riservata a qualche giovane filosofo particolarmente competente, e oggi conosciuto, come Quentin Meillassoux. La vera carriera del libro è cominciata all’estero, in particolare nel mondo anglofono, tra gli anni Novanta e Duemila. Oggi è considerato quasi come un classico».
Qual era il suo scopo principale quando l’ha scritto? E pensa di essere stato capito, durante questi trent’anni?
«L’intenzione principale era di contestare in modo reale, attraverso un’opera, la tesi della maggioranza dei “filosofi” della mia epoca, ovvero che una costruzione filosofica sistematica appartiene al passato. Questa tesi era quella di Heidegger tanto quanto della filosofia analitica americana. Ho voluto offrire un esempio contrario, scandendo una ontologia del multiplo, una teoria dell’evento, una teoria del soggetto, e una teoria delle verità, in modo costruttivo e logico, e facendo un uso ragionato della matematica».
Qual è la maggiore differenza con uno dei suoi maestri, Louis Althusser?
«Sono sempre stato lontano dalla filosofia di Althusser, pur riconoscendogli una tragica grandezza. La disposizione delle categorie filosofiche con le nozioni ideologiche da una parte e dall’altra i concetti scientifici, mi sembra troppo marcata per una tradizione positivista, un culto della scienza, combinato a una determinazione politica essa stessa rigida. Althusser ha proposto, con grande talento, di incorporare il marxismo alla tendenza strutturalista dominante. Proprio come Sartre aveva cercato, in Critica della ragione dialettica , di incorporare il marxismo nella corrente fenomenologica. Il mio approccio non è dettato dal marxismo, anche se ne offre una nuova lettura. Il mio contributo si pone come una sistematizzazione classica dei dati contemporanei».
Perché la matematica e la teoria degli insiemi di Cantor hanno un ruolo decisivo nella sua visione filosofica?
«Il mio postulato ontologico è che l’essere, in quanto essere, è molteplicità pura. Mi oppongo così formalmente a qualsiasi metafisica dell’Uno. E mostro che il pensiero di tutte le forme possibili del molteplice, un pensiero rigoroso e razionale, è realizzato storicamente dalla matematica. Ne risulta evidentemente un’importanza cruciale della teoria degli insiemi, che è la matematica delle molteplicità sia infinite sia finite».
Nell’introduzione lei presenta una tripartizione: l’essere, il soggetto, la verità. Qual è il ruolo di Dio, se ne ha uno?
«Il concetto metafisico di Dio non è che una interpretazione filosofica di un dato della religione, e cioè che l’essere è fondamentalmente Uno. O ancora, che solo Dio è realmente infinito. Ora, io credo di poter dimostrare che l’essere non è nella forma dell’Uno, ma in quella del molteplice; e che occorre separare l’Uno dall’infinito, perché dopo Cantor sappiamo che esistono molteplici forme diverse dell’infinito. Così scompare il concetto di Dio, in quanto concetto razionale».
E il ruolo dell’amore?
«Gli attribuisco una grande importanza: con le scienze, le arti e le politiche, l’amore è una condizione di esistenza della filosofia, perché è l’esperienza più radicale, più completa, di una relazione all’Altro».
Qual è il posto della filosofia oggi? E qual è il suo rapporto con la politica?
«La filosofia sostiene che esistano delle verità, e propone, in funzione dello stato contemporaneo delle sue condizioni (scienza, arte, politica, amore), di costruire un concetto di quel che è una verità appropriata alla propria epoca. La filosofia propone dunque un modo di distinguere le politiche senza verità, che sono puri conflitti di interesse e di potere, dalle politiche vere, che cercano di costruire quel che potrebbe essere una società realmente giusta. Da circa due secoli possiamo dire che, da questo punto di vista, la filosofia incoraggia le politiche comuniste, e critica tutte le ideologie che, talvolta sotto il nome usurpato di “filosofia”, non sono che delle perorazioni per la forma attuale dell’ingiustizia, ovvero il capitalismo globalizzato».
IL VERO PERICOLO!
La Stampa 11.3.18
Steve Banno
“Cinquestelle e Lega, è in Italia
il cuore della nostra rivoluzione”
L’ex ideologo di Trump: “Espressioni diverse, fenomeno unico nazional-populista Il mio sogno è di vederli governare assieme. Sarà Salvini la forza trainante”
di Maurizio Molinari
C’è un rivoluzionario americano che si aggira per l’Europa e pensa che le elezioni del 4 marzo abbiano trasformato l’Italia nel «centro del mondo in rivolta». Steve Bannon, 65 anni, ci riceve nella camera di un hotel di Milano dove si alternano visitatori italiani e telefonate dagli Stati Uniti. Camicia sportiva, barba poco curata e BlackBerry sempre in mano, Bannon si considera demiurgo e interprete del movimento nazional-populista che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016 ed ha fatto vincere Lega e Cinquestelle nel voto di domenica scorsa. Ascoltarlo significa immergersi in una lettura del presente che sfida, rovescia e irride schemi, istituzioni, valori e alleanze sulle quali l’Occidente al momento si fonda ed articola. Da «rivoluzionario» come si definisce descrive il nostro mondo in maniera lucida e provocatoria.
Al centro di tutto c’è il «nazional-populismo» che si è imposto in America «portando al centro gli individui, il ceto medio, privato del lavoro e del benessere da due fattori convergenti, il libero commercio ed i migranti». Nato a Norfolk, Virginia, in una famiglia di operai democratici, Bannon parla dei lavoratori come di vittime «a cui il commercio globale toglie prosperità e i migranti strappano i pochi lavori rimasti».
È una tenaglia che vede ripetersi ovunque «e spinge questi disperati a votare per la protesta ovunque possono, dalla Gran Bretagna alla Francia, alla Germania fino in Italia». Ed è qui, nel nostro Paese, che individua ora «il cuore della rivoluzione» perché di partiti espressione di tale «rivolta dei disagiati» ve ne sono ben due: Cinquestelle e Lega. «Il mio sogno è di vederli governare assieme» assicura, spiegando che «sono espressioni diverse dello stesso fenomeno e superano, assieme ad altre formazioni minori, la metà dei votanti». Ma preferisce Matteo Salvini a Luigi Di Maio «perché il leader della Lega rappresenta il Nord, ovvero tre quarti del Pil nazionale, mentre il leader Cinquestelle propone il reddito di cittadinanza, una versione dell’economia sussidiata, che manderà in fallimento le casse pubbliche in meno di due anni». «La realtà è che Di Maio guarda a sinistra, vuole essere come Obama e Macron e cerca per questo l’intesa col Pd - spiega - mentre Salvini sta con il popolo, ha un cuore, essendo stato comunista e pensa solo a combattere libero commercio e migranti». Su cosa avverrà in Italia sembra avere idee chiare: «Se Salvini governerà con i cinquestelle sarà lui la forza trainante, se Salvini resterà all’opposizione potrà rivendicare il merito di aver sconfitto i corrotti come Berlusconi, se vi sarà un governo di unità nazionale sarà sempre Salvini ad imporre gli obiettivi a cuore al ceto medio» dunque, comunque andrà, «nel futuro d’Italia c’è la Lega, che strapperà voti al Sud ai cinquestelle grazie alle posizioni sui migranti». Se tutto ciò trasforma l’Italia nella «forza trainante del nazional populismo» è perché «siete più creativi di britannici, francesi e tedeschi, siete una nazione abituata a produrre grandi cambiamenti» e «qui abbiamo vinto perché i leader non erano squalificati con il grande pubblico come avvenuto a Marine Le Pen in Francia». Bannon esclude che Trump - che lo ha allontanato dalla Casa Bianca, accusandolo di tradimento - possa sostenere Salvini o Di Maio «perché queste cose politiche non gli interessano» ma vede il tassello italiano parte di un mosaico più vasto. Su due fronti: in Europa «dove l’Ue sta già implodendo e l’Italia potrebbe rivelarsi determinante» e negli Stati Uniti «perché i nazional populisti nelle elezioni di Midterm per il rinnovo parziale del Congresso di Washington si batteranno contro il movimento Team Up». A suo avviso si tratta di uno scontro fra due rivoluzioni: «Noi vogliamo aggredire le sovrastrutture dei governi e restituire gli Stati ai cittadini, loro aggrediscono il patriarcato e vogliono famiglie senza figli». È uno scontro che potrebbe portare nel 2020 Oprah Winfrey a candidarsi con i democratici «e sono certo che lei batterebbe Trump perché la politica diventerà sempre più spettacolo, seguendo l’esempio di Berlusconi».
La possibilità di interferenze russe nelle elezioni in Paesi dell’Occidente non lo preoccupa affatto: «Ho combattuto i russi durante la Guerra Fredda, quando ero ufficiale in un sottomarino, e poi dal Pentagono ho assistito allo smantellamento del loro arsenale, li conosco e so che Mosca ha un Pil inferiore all’Italia ed allo Stato di New York, i suoi giovani fuggono all’estero più delle sue modelle, non è in condizione di minacciarci mentre è un nostro alleato naturale». Ed è qui che Bannon disegna un nuovo scenario di alleanze: «La Russia è bianca e anti-islamica, appartiene al nostro mondo euroamericano che deve invece guardarsi dai veri avversari ovvero Cina, Iran e Turchia». Mentre lo dice prende carta e penna e disegna su un foglietto il percorso della nuova «Via della Seta» di Xi Jinping «che unisce queste tre nazioni, frutto di civiltà antiche e combattive, tutte estranee alle cultura giudeocristiana». Dunque «preoccuparsi della Crimea invasa dai russi non ha senso, perché i veri nemici sono a Pechino, Teheran ed Ankara e ci stanno aggredendo nel Mar della Cina, nel Golfo e nel Mediterraneo». Da qui la conclusione che i legami della Russia con Lega e Cinquestelle «fanno i nostri interessi» a differenza di chi «continua a tramare con Bruxelles e Bce per impoverire sempre di più il ceto medio». L’intento della rivoluzione di Bannon «è rafforzare i cittadini e quindi le loro nazioni, indebolendo le sovrastrutture che li vessano e tassano come Ue e Bce». Per questi Stati «sovranisti» all’orizzonte c’è la necessità di spendere di più per la difesa «perché l’America non combatterà più per voi ed oggi spende assai più degli alleati in Europa e Asia, dove mettiamo soldi nella difesa e riceviamo in cambio guerre commerciali».
Ottimista sul futuro dell’Italia, convinto che la sorte dell’Ue sia segnata e nemico giurato di Pechino, Bannon non esclude che Trump «possa rinunciare a candidarsi nel 2020» ma assicura: «Se ciò dovesse avvenire, i nazional-populisti avranno nuovi leader capaci di vincere, come il senatore Tom Cotton dell’Arkansas e Nikki Haley, ambasciatrice all’Onu». La rivoluzione continua.
Repubblica 11.3.18
Bannon in casa Le Pen “ Vi chiamano razzisti? È una medaglia”
di Roberto Brunelli
«Vi chiamino pure razzisti e xenofobi: è un distintivo d’onore… vi chiamano così perché non sanno rispondere alle domande fondamentali che state ponendo». Accolto come una star, Steve Bannon, l’ex stratega-capo di Donald Trump, ieri era “l’ospite a sorpresa” al congresso del Front National a Lille. Qui ha tuonato la sua road map per il trionfo di quello che secondo lui è il movimento mondiale delle nuove destre, vera posta in palio nel Vecchio Continente come in America. «La storia è dalla nostra parte e ci porterà da vittoria a vittoria», ha scandito Bannon tra gli applausi: «Siete parte di un movimento globale che è più grande della Francia, più grande dell’Italia, più grande dell’Ungheria».
Un discorso a braccio, durato una mezz’ora buona, in cui l’ex consigliere dell’attuale inquilino della Casa Bianca è tornato ad attaccare «l’establishment, le banche e la stampa», quest’ultima ovviamente «condotta dai governi come un cane al guinzaglio». Bannon si è rivolto alla leader del Fn, Marine Le Pen - seduta in prima fila – dicendo che lei e «l’amato presidente Trump» vogliono rimettere al centro «il bene dei cittadini».
Attualmente impegnato in un tour attraverso l’Europa, l’ex direttore del portale dell’alt- right Breitbart News questa settimana ha incontrato anche la “pasionaria” del partito dell’ultra-destra tedesca, Alice Weidel, ed ha voluto osservare «da vicino» l’esito del voto italiano. L’annuncio della sua partecipazione al congresso di Lille era stato accolto su Twitter dal vicepresidente del Fn Louis Aliot con un post in cui viene citato anche il capo della Lega Matteo Salvini. «I popoli si svegliano e riprendono in mano il loro destino», ha scritto Aliot, secondo cui Bannon «incarna il rigetto per l’establishment, di cui uno dei peggiori simboli è l’Unione europea, e ha compreso, come Trump e Salvini, la volontà dei popoli di riprendere in mano il proprio destino». Per oggi è atteso invece il discorso di Marine Le Pen: proporrà di cambiare il nome del partito.
Repubblica 11.3.18
Polonia
Gli ultranazionalisti contro la guida italiana ad Auschwitz
di Anna Lombardi
“Auschwitz alle guide polacche”: è la scritta apparsa venerdì notte sul muro della casa di Cracovia dove vive Diego Audero, italiano di 35 anni che appunto accompagna i visitatori nel campo di sterminio nazista trasformato in museo della memoria. Una provocazione che segue di poco le affermazioni su Twitter di Barbara Nowak, responsabile dell’educazione della Malopolska secondo cui nel museo «serve personale polacco che protegga l’integrità della Polonia». E se da tempo anche il direttore del Museo, Piotr Cywinski, è nel mirino degli ultranazionalisti che ne criticano l’operato, anche la scritta sembra iscriversi nel clima di tensione legato anche alla controversa legge sulla Shoah entrata in vigore il 1 marzo che prevede pene per chiunque affermi che la Polonia è responsabile o co-responsabile di crimini commessi dai nazisti.
Il Fatto 11.3.18
Tomaso Montanari
“Macerie salutari per la sinistra. Il Pd faccia nascere governo 5S”
Lo storico dell’arte plaude all’anno zero elettorale della gauche: “Quel che c’era non andava più bene”
di Marco Palombi
Tomaso Montanari – storico dell’arte, intellettuale gauchiste e ogni tanto, per così dire, agitatore politico – non ha dubbi: “È andata bene”. Si riferisce ai risultati delle urne e, in particolare, alla batosta presa dalla parte politica a cui appartiene: “La sinistra che c’era in realtà non c’era: quella che non aveva più nulla di sinistra, cioè il Pd, ma anche la penosa operazione di Liberi e Uguali e il velleitarismo di Potere al popolo che non ha neanche i voti di Rifondazione. L’anno zero è un bene, si riparta dalle macerie”.
Domanda provocatoria: dice che con la sua “lista del Brancaccio” andava meglio?
Risposta provocatoria: se il M5S mi contatta per il ministero dei Beni culturali evidentemente pensa che il mio nome parli a quel pezzo di elettorato che oggi sceglie i 5 Stelle venendo da sinistra. D’altronde l’idea del Brancaccio era costruire una sinistra diversa – nel linguaggio, nelle proposte e nelle persone – che dialogasse col Movimento, mentre alla fine LeU ha deciso di competere col Pd per poi accordarcisi. Secondo me una lista costruita coi nostri criteri poteva davvero puntare al 10%.
E invece LeU ha preso il 3 e spiccioli…
Perché molti elettori di sinistra hanno votato 5 Stelle, hanno riconosciuto qualcosa nelle loro parole d’ordine: è evidente anche dal fatto che l’affluenza non è scesa poi così tanto. A meno che non si pensi che improvvisamente il 75% dell’elettorato sia diventato di destra.
Torniamo ai suoi rapporti coi 5 Stelle: farà il ministro?
Non lo so, vedremo. Il problema che ho posto all’inizio è la loro proposta di modifica della Costituzione, cioè l’introduzione del vincolo di mandato. Ora però si verifica una situazione bizzarra: Luigi Di Maio, che propone di vincolare i parlamentari al “mandato”, cercando intese post-voto si muove in modo costituzionalmente impeccabile in un Parlamento nato da una legge proporzionale; dal Pd rispondono che gli elettori li hanno messi all’opposizione, cioè ragionano – ammesso sia vero – come se ci fosse il vincolo di mandato.
Lei è dunque uno dei sostenitori dell’accordo di governo M5S-centrosinistra.
Berlinguer, con l’astensione del Pci, consentì nel 1976 la nascita del governo Andreotti e Andreotti non era uno antipatico, ma uno che secondo una sentenza definitiva in quel periodo aveva rapporti con la mafia. Che in Parlamento si dialoghi è normale, specie in una Repubblica parlamentare. Mi pare che l’establishment non abbia del tutto capito cosa sta succedendo.
Un bel pezzo però, anche a livello europeo, liscia il pelo agli ex populisti dei 5 Stelle.
L’idea di fondo in questi ambienti è che serva un potere stabile e, banalmente, si affidano a chi ha più forza numerica tra quelli che sperano “compatibili”. Ma il Movimento tiene finché resta anti-sistema, se riesce a capovolgere il sistema.
Il buon Longanesi diceva: “Un’idea che non trova posto a sedere è capace di fare la rivoluzione”.
È per questo che ho preferito rimanere in piedi. Io credo e spero che non si debba diventare democristiani appena si arriva al potere. Ho visto che hanno fatto una campagna rassicurante, ma se fossimo di fronte all’ennesimo episodio di gattopardismo della storia italiana sarebbe una tragedia.
Ma l’accordo col Pd non sarebbe già un segnale?
No, secondo me di fronte a due opzioni – un governo M5S e quello a guida Salvini – il Pd dovrebbe porsi un problema di responsabilità. Ovviamente non certo in cambio di nulla: ci si incontra, si discute del merito delle questioni, perché forme di reddito di cittadinanza, ad esempio, sono una storica proposta di sinistra. Io nel 2013 firmai un appello con altri per un governo 5 Stelle-Pd e allora Grillo ci prese in giro: oggi la penso come allora e spero che il veto non arrivi dall’altra parte.
Dal Pd potrebbero giustamente obiettare: rischiamo di scomparire.
Il Pd scompare se continua a fare la destra (vedi Calenda), mentre il suo popolo esiste ancora: quel popolo è andato a votare e in larga parte ha scelto i 5 Stelle. In nome di quale ortodossia ci si dovrebbe opporre a lasciar nascere un governo? Gramsci avrebbe detto: dov’è il popolo?
Quelli di LeU, invece, ci starebbero.
Su LeU voglio dire una cosa: è stato un episodio grave. Un ceto politico ha dirottato la richiesta di una sinistra diversa per garantire la propria perpetuazione e ora in Parlamento vanno gli Epifani, i Bersani. Dovrebbero sparire, dimettersi tutti e lasciar posto in Parlamento a qualcuno più giovane e meno compromesso. Mi dispiace farne una questione personale, ma è personale: nessun futuro passa attraverso di loro.
Corriere 11.3.18
Stare all'opposizione? Per il prof è eversivo
di Aldo Grasso
Sta facendo molto discutere un tweet di Gianfranco Pasquino: «Una sconfitta referendaria, una batosta elettorale, adesso l’eversione. Rifiutarsi di fare un governo nel Parlamento di una democrazia parlamentare, è non solo ignoranza ma protervia nei confronti dei cittadini elettori». Gli eversivi, i terroristi sarebbero il Pd e Matteo Renzi.
Non è nostra intenzione confutare le opinioni di un così raffinato studioso di politica (è professore emerito di Scienza politica e dal 2005 è socio dell’Accademia dei Lincei), né vorremmo cadere sotto gli strali della sua ironia, tacciati d’incompetenza. Tuttavia, poiché il professore, già direttore della rivista Il Mulino, già parlamentare di sinistra per tre legislature e reduce da un’intensa campagna per il No al referendum, è habitué dei media, gestisce un sito ed è vispo sui social, ci permettiamo un’osservazione di buon senso. Niente di più.
Per ora, il Pd ha deciso di stare all’opposizione, come in passato hanno fatto altri partiti. Poi si vedrà. Pasquino bolla questa decisione come «un atto di codardia politica», di «arroganza egoistica». È un suo diritto, anche se dalla codardia all’eversione il passo è lungo, molto lungo. Faceva prima a dire che Renzi gli sta sulle palle. Non è linguaggio accademico ma così avrebbe evitato di sembrare un D’Alema qualunque.
Il Fatto 11.3.18
La globalizzazione e la vecchia sinistra da “ricostruire”
di Giorgio Meletti
Susanna Camusso ci spiega che la sua Cgil è in piena salute, gli iscritti votano però Lega e M5S e perciò il prossimo congresso dovrà contribuire alla “ricostruzione della sinistra”. È la sintesi perfetta del marasma di un ceto obnubilato da disguidi esistenziali personali. Fa eccezione l’onesta ammissione di Pier Luigi Bersani: “Abbiamo visto il problema ma non abbiamo trovato la soluzione”. È un buon punto di partenza, ma la soluzione nessuno la trova perché nessuno la cerca. Lo scontro politico tra il partito della competitività (Pd-Forza Italia), quello della protezione sociale (M5S) e quello intermedio del protezionismo economico (Lega) elude la vera questione e parla d’altro.
Qual è il problema? Ci stiamo impoverendo e la razza italiana, dopo 200 anni di arricchimento ininterrotto, non ha le parole (se poi pensi che la scuola serva a formare tornitori ti meriti che ti crolli il mondo addosso e tu non sappia dare un nome a ciò che ti accade). Vent’anni fa il Pil nominale della Cina e dell’Italia erano alla pari. Da allora quello cinese si è decuplicato, il nostro non è nemmeno raddoppiato e, al netto dell’inflazione, è fermo. Vanno a gonfie vele le economie delle ex colonie a spese delle quali ci siamo arricchiti per secoli. Si chiama globalizzazione, pensata per sfruttare meglio i selvaggi senza prevedere il rinculo. L’Italia è la prima vittima (l’Europa seguirà) perché penalizzata da un’oligarchia cleptomane di imprenditori e politici. Mancano sei milioni di posti di lavoro e nessuno sa come crearli.
La globalizzazione mette in crisi il capitalismo stesso ma la nostra cultura provinciale si occupa di qualche miliardo di spesa statale. L’anima sovranista incarnata da Matteo Salvini dà la colpa all’euro e vuole difendere i posti di lavoro con i dazi e lo stop all’immigrazione. Il renzismo recita il mantra della competitività, bassi salari e incentivi alle imprese. Se altri popoli ci affamano producendo a costi inferiori, per tornare alla prosperità dovremmo riportare loro alla fame. Ma se la posta in gioco è chi mangia e chi no la competizione porta prima alle guerre commerciali alla Trump e poi alla guerra vera e propria, non certo alle photo opportunity con Marchionne. Le politiche redistributive che il M5S incarna nel reddito di cittadinanza funzionano solo nell’arricchimento, la redistribuzione con redditi calanti, ammesso che abbia senso, si chiama imposta patrimoniale. Vedete come nessuna delle proposte in campo intacchi il tema della competizione all’ultimo sangue in un mercato unico nel quale Internet e il crollo del costo dei trasporti hanno eliminato l’ultima barriera, la distanza. Però proposte semplici e concrete, anche se sballate o illusorie, hanno attratto voti.
Solo la sinistra di Liberi e Uguali non ha proposto niente. Ha mandato in tv un magistrato in pensione a predicare uguaglianza, sano principio che senza un programma politico sembra però più adatto al televoto del Grande Fratello. Eppure solo a sinistra può svilupparsi un pensiero in grado di indicare la strada. Il pensiero liberista non può e non vuole vedere la crisi profonda del capitalismo. Enrico Berlinguer, 35 anni fa, propose il “governo mondiale” come sbocco della globalizzazione (la chiamava “moto di emancipazione dei popoli del terzo mondo”). L’ultimo leader fu archiviato in fretta da epigoni sedicenti moderni, carrieristi avvolti nella bandiera del conformismo. Se le cariatidi intente da trent’anni a “ricostruire la sinistra” (ma attente solo alle loro poltroncine) togliessero il disturbo, l’Italia potrebbe puntare a una vera eccellenza: siamo i primi a subire i colpi della globalizzazione, potremmo essere i primi a vedere la via d’uscita. La prima a sinistra.
Il Fatto 11.3.18
Lorsignori
di Marco Palombi
Premessa: noi ovviamente non sappiamo cosa succederà, se ci sarà una maggioranza di governo e quale sarà, né possiamo prevedere al momento come si comporteranno quella maggioranza e quel governo di fronte alle prove non facili che la realtà gli metterà davanti (no, non pensiamo al debito pubblico, ma ad esempio agli scomposti tentativi di omicidio del nostro sistema bancario in arrivo da Bruxelles e Francoforte). Insomma non conosciamo, evangelicamente, né il giorno né l’ora in cui si paleserà il futuro, eppure c’è un’arietta che, quella sì, conosciamo: è l’arietta del nuovo “dover essere” verso cui si orienta l’establishment (non solo italiano). Di Confindustria e Marchionne che erano grillini antemarcia avrete letto; il Corsera ci ha gentilmente informato che Jean Claude Juncker dopo i risultati s’è rilassato perché i 5 Stelle a Strasburgo si sono sempre comportati bene e a tavola usano le posate quasi come quelli del Ppe; Il Sole 24 Ore vuole “il governo di scopo europeo” (fate presto!) e ci lascia capire chi dovrebbe farlo; il Financial Times ha magnificato Di Maio che, “a differenza dell’altro vincitore del voto populista, Salvini, ha cercato di guidare i 5 Stelle verso posizioni più moderate, in particolare sull’euro” ed è così gentile da “incontrare regolarmente” industriali, banchieri e ambasciatori Ue. Riassumendo, pare che il nucleo duro dello status quo abbia già concluso la ricerca dello Tsipras italiano (candidato piromane, eletto pompiere): magari sono lorsignori che stanno prendendo un granchio, per carità…
Il Fatto 11.3.18
Da Cacciari a Pif: gli sponsor del dialogo tra dem e grillini (pur di far fuori la Lega)
Anche in ambienti vicini ai dem c’è chi spinge per un’intesa sul governo
Sostenitori – Massimo Cacciari, Michele Emiliano, Sandro Ruotolo. Rosario Crocetta, Elisabetta Gualmini e Antonio Di Pietro
di Lorenzo Giarelli e Giulia Marchina
Questione di falchi e di colombe. A una settimana dal voto, la linea del Partito democratico sulle ipotesi di alleanze – in attesa della Direzione di domani – è ancora tutta da definire. Ma nel frattempo gli appelli per un dialogo con i Cinque Stelle, anche da ambienti vicini al Pd, si moltiplicano. Ieri Massimo Cacciari ne ha parlato al Fatto: “L’unica cosa ragionevole per il Pd è dare il via libera a un governo monocolore dei 5 Stelle”. Il motivo è lo stesso indicato dal giornalista Sandro Ruotolo: “Il primo dovere è evitare di consegnare il Paese a Matteo Salvini”. E qualcuno lo sostiene anche all’interno del Pd. Michele Emiliano, per esempio, è stato il primo a criticare la linea renziana: “Dobbiamo dare l’appoggio esterno a un governo 5 Stelle, hanno diritto a governare”. Con lui Francesco Boccia: “Piuttosto che con la coalizione incollata di centrodestra, sarebbe meglio parlare con i grillini”.
E a proposito di coalizioni “incollate”, c’è chi non dimentica gli accordi passati tra Pd e centrodestra. “Avete fatto un governo con Denis Verdini e Angelino Alfano – ha accusato il regista Pif – e ora fate storie per il Movimento?”. Gianfranco Pasquino, politologo, auspica un accordo: “Bisogna mettersi a disposizione per i superiori interessi del Paese. Hai visto mai che ci sia un governo che non potrebbe esistere senza il Pd?”.
Al momento restano antichi rancori a complicare ogni dialogo. Questo nonostante in molti stiano riconoscendo al Movimento un cambiamento positivo. Persino Eugenio Scalfari, che a loro aveva dichiarato di preferire Silvio Berlusconi, si è ricreduto (salvo poi ripensarci un’altra volta): “Ora non sono più un movimento, ma un partito. Facendo un’alleanza con il Pd, io li voterei”. Spunti condivisi su Repubblica dal politologo Piero Ignazi: “I 5 Stelle hanno cambiato pelle. I flussi di voto dimostrano che Pd e M5S hanno elettorati affini”.
Gli appelli arrivano anche dai territori. Sergio Chiamparino, governatore del Piemonte, assicura: “Io quotidianamente dialogo con Chiara Appendino, non c’è nessun tabù. Se chi ha avuto dai cittadini il mandato di governare facesse delle proposte, dovremmo valutarle”. Rosario Crocetta, ex presidente della Regione Sicilia, è stato chiaro fin dal giorno dopo le elezioni: “É stata una disfatta, il Pd dichiari la disponibilità a supportare, anche dall’esterno, un governo a guida M5S”. Così anche Antonio Di Pietro, purché il Pd superi Renzi: “Il M5S si renda conto che non può fare tutto da solo, il Pd si metta a disposizione senza fare il primo della classe”. Scenario realizzabile, secondo la vicepresidente dem dell’Emilia Romagna Elisabetta Gualmini: “Non escludo che tra alcune settimane si arrivi a un sostegno del Pd nei confronti del M5S”. Ci vorrà un po’ di più secondo Gustavo Zagrebelsky, ma l’idea è la stessa: “Non lo troverei strano, la direzione è quella. Ma ci vorranno tempi lunghi”.
E se un governo a guida Di Maio fosse troppo per il Pd, resta la strada indicata da Paolo Flores d’Arcais su MicroMega: “I 5 Stelle dovrebbero proporre a Mattarella un governo sul loro programma, affidato a una personalità fuori dai partiti. Per il Pd sarebbe difficile dire no”.
il manifesto 11.3.18
Fratoianni: «Ora confronto con i 5 stelle, Leu deve cambiare passo»
Democrack. Respinte le dimissioni, il segretario di Si resta al suo posto. Il flop «non solo colpa di Bersani e D’Alema ma hanno influito». La replica di Rossi: «Pier Luigi e Massimo da ringraziare». C’è già il problema dell’alleanza col Pd alle comunali
di Daniela Preziosi
Prima del voto la «discontinuità» era quella dal Pd, dopo il voto – una «sconfitta drammatica», «la sberla» l’ha chiamata Luciana Castellina sul manifesto – la «discontinuità» è quella da se stessi, cioè da Liberi e uguali. La direzione nazionale di Sinistra italiana, riunita ieri a porte chiuse in un albergo romano, si conclude con la conferma di Nicola Fratoianni alle segreteria: le sue dimissioni, «atto dovuto» le definisce lui, vengono respinte con un solo voto contrario e qualche astenuto. Va aggiunto che un’area, non grande, di contrari alla lista con Mdp si è già autosospesi da Si. Il segretario resta al suo posto, la segreteria invece è decaduta e il core business della discussione, cioè se andare avanti o meno con il «progetto» di Leu, si affronterà nella prossima assemblea nazionale.
PER SINISTRA ITALIANA Leu deve andare avanti, su questo la discussione registra solo qualche sfumatura diversa. Ma molto deve cambiare. Fratoianni si assume la sua quota di colpa, ma ha un’idea precisa su cosa non ha funzionato: «Immaginare che la responsabilità di un risultato elettorale come quello di Leu sia di un singolo è un errore» «ma non c’è dubbio che la campagna elettorale è stata segnata dalla sovraesposizione di figure che hanno un linguaggio ed una cultura politica che evidentemente non hanno funzionato, hanno contribuito a rendere meno efficace il progetto; non credo che la colpa sia tutta di D’Alema o di Bersani ma questo ha influito». Troppo in tv, dunque, quelli che prima del flop erano i ’padri nobili’, «Il più grande errore è stato parlare agli elettori in fuga dal Pd con un linguaggio del Pd prima di Renzi o non sufficientemente discontinuo, coraggioso».
PAROLE CHE FANNO STORCERE il naso a casa Mdp. Da dove si esercita «santa pazienza» e si fa notare che la ’Ditta’ non ha convocato i propri organismi centrali: «Abbiamo appena firmato un appello per le assemblee territoriali del soggetto comune». Ma per ora un colpetto di freni ci sta, anche per assorbire i contraccolpi interni: Sinistra italiana ha eletto quattro parlamentari (alla camera Fratoianni, Palazzotto, Fassina, al senato De Petris), Possibile ha eletto solo Luca Pastorino.
IL PRESIDENTE DELLA TOSCANA Enrico Rossi invece si spazientisce: «lettura semplicistica», quella di Fratoianni, «anzi bisogna ringraziare la generosità di personalità come Bersani, D’Alema e altri senza il cui impegno in campagna elettorale oggi non saremmo neppure in partita». E poi meglio evitare le accuse reciproche: «Sarebbe come se noi spiegassimo il cattivo risultato dicendo alla nostra gente che posizioni improntate alla pura testimonianza e a un eccesso di radicalismo non ci hanno favorito».
IN REALTÀ su uno dei due nodi che agitano quel che resta della sinistra a sinistra del Pd, Fratoianni e D’Alema sono d’accordo: « Dobbiamo ascoltare le proposte del M5S ed eventualmente consentire che un governo parta, senza chiedere nulla, tantomeno posti», partendo dai punti in comune: abolizione dei finanziamenti per gli F35, lavoro, precarietà, alla scuola, dice il segretario di Si (sorvolando sul dettaglio che i numeri di Leu sono troppo bassi da essere utili ai grillini). «Se non le soluzioni, la direzione di marcia dei 5 Stelle è condivisibile», dice al Corriere della sera il presidente di Italianieuropei, rimasto fuori dal parlamento, «Se Togliatti dialogò con Giannini, il fondatore dell’Uomo Qualunque, il centrosinistra può dialogare con Di Maio». Ma una differenza fra le diverse anime di Leu c’è, anche se per ora resta sullo sfondo. L’appello di D’Alema al «centrosinistra» nasce dalla consapevolezza che se ai 5 stelle non arriveranno i voti del Pd per anche l’offerta di dialogo di Leu sarebbe inutile.
C’È ANCHE ALTRO. Nessuna marcia indietro è possibile eppure Mdp guarda con attenzione alla «derenzizzazione» in corso – i cui esiti non sono per nulla scontati – nel Pd.
ANCHE PERCHÉ IN PRIMAVERA, e cioè fra pochi mesi c’è una importante tornata elettorale, quella delle amministrative: si vota in un capoluogo di regione, Ancona, e in diciannove capoluoghi di provincia. Fra cui, per esempio, tre città toscane: Massa, Pisa e Siena. La sconfitta delle sinistre ormai è probabile, ma senza alleanza è certa. Nella ex rossa Toscana già Livorno e Carrara sono governate dai 5 stelle, mentre Arezzo, Grosseto e Pistoia dalla destra. Un’altra sconfitta dopo la batosta delle politiche, sarebbe un colpo mortale per il Pd, ma anche per Leu. Stesso discorso per le prossime regionali: in Molise il 22 aprile, in Friuli il 29 aprile, poi tocca a Trentino, Valle d’Aosta e Basilicata.
PAOLO CENTO, dirigente di Si che si è speso molto per l’alleanza di Leu con Zingaretti nel Lazio, guarda a queste date con preoccupazione: «Bisogna mettere in relazione la costruzione di una sinistra autonoma e popolare con un dibattito più ampio che dopo la definitiva sconfitta del Pd e di Renzi parli ad un popolo molto più ampio del nostro 3 per cento. Senza scorciatoie. Ma anche senza settarismi».
Repubblica 11.3.18
L’altra sinistra
Liberi e divisi Fratoianni contro D’Alema e Bersani
di G. C.
Non è per scaricare la colpa del k.o. su D’Alema e Bersani, ma anche sì.
Nicola Fratoianni non voleva essere ingeneroso, però nella direzione di Sinistra italiana, partito fondatore di Liberi e uguali, ha rassegnato le dimissioni da segretario. Che sono state respinte. E nell’analisi della sconfitta cocente, con appena il 3,3% raggiunto nelle urne, ha spiegato: «Immaginare che la responsabilità sia di un singolo è un errore, ma non c’è dubbio che la campagna elettorale è stata segnata dalla sovraesposizione di figure che hanno un linguaggio e una cultura politica che evidentemente non hanno funzionato, hanno contribuito a rendere meno efficace il progetto. Non credo però che la colpa sia tutta di D’Alema o di Bersani ma questo ha influito, come hanno influito i limiti oggettivi di tutti noi, me compreso». I due leader della “ditta” dem hanno insomma molto pesato nella sconfitta: è l’accusa della sinistra vendoliana.
La conclusione, aggiunge Fratoianni, è che ora occorre «discontinuità», bisogna ricominciare daccapo. E così lancia il dialogo tra Leu e i 5Stelle. Ipotesi subito bocciata dai bersaniani.
Ecco quindi che Liberi e uguali sembra destinata all’implosione in tempi più rapidi del previsto.
Enrico Rossi, un altro tra i fondatori di Leu, governatore della Toscana, avverte: «Quella di Fratoianni e di altri esponenti di Sinistra italiana è una lettura semplicistica delle cause della sconfitta elettorale di Leu. Bisogna ringraziare la generosità di personalità come Bersani, D’Alema e altri senza il cui impegno in campagna elettorale non saremmo neppure in partita. Parliamo di personalità rappresentative e conosciute la cui presenza è stata richiesta per iniziative e manifestazioni partecipatissime in tutta Italia e che hanno sostenuto le nostre ragioni nelle principali trasmissioni televisive».
Il nodo politico intanto è il rapporto con i grillini. Sergio Cofferati, che si era presentato in Liguria nell’uninominale come candidatura di servizio, è convinto che sia giusto sostenere i 5Stelle e che Leu vada superata. Stefano Di Traglia, a lungo portavoce di Bersani, è di parere opposto: «Non mi pare ci siano le condizioni programmatiche né politiche con i 5Stelle».
Stefano Fassina è per aprire.
D’Alema, a sorpresa, in un’intervista al Corriere della sera, giudica: «I 5Stelle non sono populisti, verificare se c’è un programma comune».
Pietro Grasso, il caposquadra, ne resta fuori.
g.c.
il manifesto 11.3.18
Il grande sconfitto è il mito europeista
di Gianpasquale Santomassimo
A tutti quelli che fanno analisi molto complicate e politicistiche, che ritengono che un certo partito abbia perso barcate di voti per una parolina sbagliata in tv, per un obiettivo errato nel programma, per quel candidato indigesto ecc., va ricordata una semplice verità: che il grosso dell’elettorato si orienta e ragiona in maniera molto più semplice. Se la «sinistra» è divenuta indigesta e invotabile agli occhi degli elettori questo si ripercuoterà a raggi concentrici, da Renzi a Grasso e ancora più a sinistra.
Le distinzioni che gli appassionati di politica fanno, spaccando il capello in quattro, non hanno alcun valore e non sono intellegibili per l’elettore comune. Si tratta di capire perché vi sia stato un rigetto così ampio e probabilmente definitivo di ciò che è stato considerato «sinistra» negli ultimi decenni. Un fenomeno non sorprendente, e che viene da abbastanza lontano, da un’inversione di ruoli e di rappresentanza di ceti e di stili di vita, raffigurato plasticamente da tutte le analisi del voto degli ultimi anni, che hanno contrapposto benestanti soddisfatti dei centri cittadini a popolo delle periferie che esprimeva un bisogno al tempo stesso di ribellione e di protezione.
Non è che mancassero offerte di sinistre possibili, anche molto variegate, se pure di scarsa qualità: a questo punto è mancata la domanda di sinistra, diciamo. Tutta la sinistra (moderata, radicale, antagonista) è stata percepita e giudicata dall’elettorato come parte integrante di un sistema da cambiare.
Assistiamo anche in Italia all’inabissamento della sinistra liberal che era stata a lungo egemone con la sua visione del mondo. La stessa cosiddetta «sinistra radicale» era stata null’altro che l’ala estrema di questa ideologia diffusa, sensibilissima alle tematiche dei diritti civili e delle battaglie «umanitarie», di fatto inerte sul terreno dei diritti sociali.
E anche complice della costruzione del mito europeista, che è sullo sfondo il grande sconfitto di questa consultazione. Parte integrante dell’establishment europeista il Pd, molto spesso ascari della «più Europa» i suoi critici di sinistra.
Non solo euro e regole ci troviamo di fronte, ma anche una ideologia complessiva potentissima e pervasiva, un fronte politico e culturale vastissimo, convinto che «più Europa» sia la soluzione ai problemi che l’Europa stessa ha posto con la sua folle attuazione. Si tratterebbe di affrontare un lavoro di lunga lena per demistificare – come si diceva un tempo – le risultanze di una egemonia costruita con molti decenni di impiego massiccio di risorse culturali, mediatiche, economiche, ma che riposa su basi storiche e teoriche fragilissime, testimoniate da quell’imbarazzante documento che è passato alla storia come «manifesto di Ventotene».
Il problema dell’europeismo di sinistra è che ormai non è più soltanto ideologia sostitutiva di quelle novecentesche crollate nell’89 e non è più solo «religione civile» imposta ai sudditi dall’establishment. Ma ormai è religione vera e propria, con i suoi dogmi, i suoi atti di fede cieca e assoluta, il credo quia absurdum (credo perché è assurdo) e anche una dose massiccia di sacrifici umani. Cominciare almeno a porre il problema, discuterne apertamente e laicamente a sinistra, sarà sicuramente un fatto positivo (oltre che doveroso).
Senza ripensare tutto sarà impossibile ripartire. Non mi faccio grandi illusioni, la Repubblica continuerà a delirare su populismo e «sovranismo», la sinistra continuerà a trattare da fascisti e razzisti le masse popolari che esprimono disagio per le loro condizioni di vita, continuerà a discettare di «ossessioni securitarie» e a immaginare che il “multiculturalismo” sia un pranzo di gala privo di lacerazioni e drammi. Si lascerà alla destra la difesa dell’interesse nazionale, e perfino l’esercizio della sovranità costituzionale per la quale avevamo votato il 4 dicembre del 2016.
«Non ci interessa la sovranità nazionale, siamo internazionalisti» dichiara la dirigente di una lista elettorale che ha preso l’1,1%. Ci si chiede da quando questa posizione, che ignora perfino il significato delle parole, e che sarebbe impossibile spiegare ai cubani, ai vietnamiti, ma anche ai curdi e a qualunque altro popolo, sia diventata luogo comune nella sinistra italiana.
Anziché evocare il Popolo bisognerebbe cominciare almeno a parlarci. Quando ci si deciderà a farlo non sarà mai troppo tardi.
il manifesto 11.3.18
La sinistra muore perché si è chiusa in se stessa
Dopo il voto. Sulle ragioni della sconfitta non basta il lamento, serve una spietata autocritica
di Gaetano Azzariti
Terrei ben distinte le questioni dell’attualità politica rispetto a quelle di prospettiva. Nell’immediato bisognerà dare un governo al paese in base ai risultati elettorali. Se si vuole evitare il ritorno alle urne senza nessuna possibilità di un’inversione di tendenza si dovrà giocare di rimessa, con l’unico obiettivo di cercare di non far precipitare il paese nella spirale del peggior populismo xenofobo e salvaguardare alcune casematte della sinistra.
Si potrebbe provare a condizionare un governo a direzione pentastellata (piaccia o no sono loro ad avere ottenuto il maggior consenso tra le forze politiche organizzate) individuando i temi e le formule di un possibile accordo. In fondo il reddito di cittadinanza e la questione del lavoro, il superamento delle politiche economiche restrittive e la messa in discussione del principio del pareggio di bilancio in costituzione, politiche sociali maggiormente favorevoli ai diritti dei cittadini sono terreni di possibile confronto. Su altri fronti si potrà cercare di limitare i danni cercando di volta in volta una mediazione possibile, sfruttando quel margine di intervento che c’è, vista la non autosufficienza dei 5 Stelle. Non necessariamente ciò deve portare ad un accordo di governo, basterebbe riscoprire il valore dell’attività parlamentare. D’altronde, la fine del bipolarismo dovrebbe portare «naturalmente» a quest’esito. Comprendo che non è facile cambiare passo in parlamento dopo venticinque anni di ubriacatura maggioritaria. Una storia alle nostre spalle che ha teso a considerare «inciucio» ogni possibile «compromesso» politico.
PER EVITARE ESITI degenerati sono necessari alcuni presupposti che garantiscano gli accordi che si vanno assumendo. In passato bastava la forte legittimazione delle forze politiche e dei loro leader (il Pci e Togliatti non avevano difficoltà a parlare con Giannini dell’Uomo qualunque o con le diverse anime delle Dc), oggi la trasparenza si rende necessaria per rassicurare un popolo – giustamente – diffidente. Dunque, non tanto nelle sedi di partito ma è in parlamento che deve svolgersi la discussione politica. In fondo, tra le cause di degenerazione degli accordi tentati nel più recente passato v’è proprio l’assenza di visibilità. Il patto del Nazareno contratto alla sede del Pd o quello della crostata a casa Letta sono stati definiti nell’ombra e tra leader di partito a titolo privato. In una situazione ancor più complessa che non in passato, con equilibri istituzionali più fragili e forze politiche ben poco riconosciute, rendere pubblici gli impegni raggiunti a seguito di un dibattito parlamentare aperto e trasparente credo rappresenti la maggiore garanzia per conseguire più solide mediazioni politiche.
NON MI ILLUDO certo che il metodo indicato, che privilegia il ruolo del parlamento, possa portare ad una rivincita della sinistra. Tutt’altro. La sinistra ha perso le elezioni e dunque, almeno nel breve periodo, potrà svolgere solo un ruolo di resistenza. La trincea parlamentare è certamente sguarnita, ma – dal punto di vista istituzionale – non ne vedo altre.
Preso atto dei ridotti limiti entro cui possono continuare a sopravvivere le politiche di sinistra radicale nel breve periodo, si deve necessariamente anche riflettere sulla prospettiva di più lungo periodo. Interrogarsi attorno alle ragioni della sconfitta storica subita e valutare realisticamente le possibilità di una sua «rifondazione» (termine orribile, abusato e ormai privo di significato, ma non riesco a trovarne un altro). Su questo terreno non basta più il lamento, c’è bisogno di una spietata autocritica. La sinistra non s’è disfatta per colpa degli altri, ma per le proprie debolezze.
ESSA STA MORENDO perché s’è chiusa in sé stessa. Non riesce più a prospettare un cambiamento reale della vita delle persone, le quali si sentono sempre più abbandonate dalle forze politiche di sinistra. E infatti i «dimenticati» guardano altrove, spesso alla destra populista. Per provare a sopravvivere la sinistra deve smetterla di pensare alle proprie piccole cose, che troppo spesso coincidono con la difesa di rendite di posizione personale e la voglia di regolare i conti solo all’interno delle proprie organizzazioni politiche ormai esangui. Per avere un futuro il pensiero critico deve ricominciare ad interpretare il cambiamento. Non in base a promesse roboanti (ne siamo stati sommersi in questi anni), ma mostrando il coraggio della concretezza. Si potrebbe iniziare cominciando a discutere con chi ha vinto le elezioni di temi che possono far maturare una coscienza anche a sinistra, in fondo un modo per mettere alla prova tutti: la forza degli altri, le nostre debolezze. Chissà che non ne esca qualcosa di buono?
Repubblica 11.3.18
La regola del tre
di Michele Ainis
Che cos’è un paradosso? La miglior medicina contro i pregiudizi, diceva Rousseau. Perché ci fa vedere la realtà sotto la maschera con cui essa spesso si traveste, e la realtà altrettanto spesso è assurda, irrazionale. Il paesaggio del dopo voto ne offre una riprova. Anzi più d’una, dato che in questo caso i paradossi sono nove, come le grazie di San Michele Arcangelo.
Primo: il 4 marzo hanno votato meno italiani rispetto al 2013 (73% anziché 75%), ma è cresciuta la partecipazione. Uscivamo infatti da un quinquennio d’urne sempre più deserte, fino a raschiare il fondo del barile l’anno scorso, quando l’affluenza alle comunali s’arrestò al 46%. Stavolta lunghe code ai seggi, anche per il bollino antifrode del Rosatellum. E nonostante la pioggia, la pessima campagna elettorale, la scheda incomprensibile, i pronostici d’un esito senza vincitori. La difficoltà ci stuzzica.
Secondo: questa nuova voglia coincide con il ritorno al proporzionale, dopo 25 anni di maggioritario. Un quarto di secolo, durante il quale sono naufragati fin troppi tentativi di cambiare le nostre istituzioni. Ci sarà un nesso fra tali accadimenti? Se il proporzionale alimenta la partecipazione, allora può ben darsi che le nuove Camere sappiano tessere la tela strappata dalle vecchie. Perché adesso si gioca ad armi pari, senza maggioranze drogate dai premi del Porcellum. Sta a vedere che a questa legislatura dichiarata morta in culla riuscirà il miracolo della Resurrezione.
Terzo: tutti a parlare d’un risultato anomalo. Macché, il responso delle urne conferma la regola non scritta delle democrazie parlamentari: vince il partito d’opposizione, perde chi governa. Swing of pendulum ( l’oscillazione del pendolo), la chiamano gli inglesi. Accadde durante l’altalena fra Berlusconi e Prodi; è accaduto nel 2013, con il successo (relativo) del Pd, sconfitto dal Pdl nella precedente tornata elettorale; e accade ora di nuovo, dato che i 5 Stelle incarnavano la principale opposizione in Parlamento. L’eterno ritorno dell’eguale, avrebbe detto Nietzsche.
Quarto: la regola-bis. Ossia l’assetto tripolare del Paese, confermato dalle ultime elezioni. Nessun terremoto dunque, semmai una scossa d’assestamento. E un criterio matematico per numerare le Repubbliche. Nella prima (1948-1994) ci fu sempre un primo partito, la Dc. Nella seconda ( 1994- 2013) i protagonisti erano due, destra e sinistra. E nella terza sono tre, of course. Ma la creatura non è nata adesso, come annunziano i suoi tanti profeti. Emise già un vagito nel 2013, anche se allora non l’avevamo udito. Urge un otorino.
Quinto: in questa gara a tre non trionfa mai nessuno, però c’è sempre un mezzo vincitore. La volta scorsa fu il Pd, grazie al premio di maggioranza; stavolta i 5 Stelle, grazie ai propri voti. E siccome il mezzo vincitore fa da calamita, gli toccano le chiavi del governo. Come dimostra per l’appunto la vicenda della XVII legislatura, ma altresì un precedente più remoto. Nel 1983, difatti, la Dc ottenne il 32%, la stessa percentuale che hanno raggiunto adesso i 5 Stelle. E mandò a Palazzo Chigi 15 ministri, ma sotto un papa straniero: Bettino Craxi.
Sesto: come insegna l’esperienza del 1983, e soprattutto quella del 2013, in questi frangenti non comanda il capitano. Nessuno dei leader che la volta scorsa si erano presentati agli elettori (Bersani, Berlusconi, Grillo) è poi divenuto presidente del Consiglio. Per quale ragione? Perché in una partita a tre serve una figura terza, contigua ma diversa rispetto ai primattori. È la regola del tre, il numero perfetto della kabbalah.
Settimo: gli ultimi eredi del Novecento, ossia la destra di Forza Italia e la sinistra del Pd, hanno ricevuto la batosta più sonora. Sommati insieme, raggiungono appena i voti del Movimento 5 Stelle. Dunque un mezzo vincitore e due perdenti: un altro tre. Eppure senza almeno uno di loro ogni maggioranza è pressoché impossibile ( salvo l’estrema ipotesi d’un governo degli estremi: M5S+ Lega). Morale della favola: chi perde il voto vince il dopo voto.
Ottavo: tutti s’attendono un miracolo da San Mattarella. Che però è come un’ostetrica: può agevolare il parto, non può generare lui il bambino. La fecondazione tocca ai partiti, sono loro a doversi mettere d’accordo. E se non ci riescono? Se si dichiarano impotenti? Allora il presidente diventa onnipotente: dalla separazione dei poteri al trasferimento del potere. Potere di morte, tuttavia, almeno in questo caso. Senza una soluzione politica imbastita dai partiti, Mattarella sancirà la morte della legislatura.
Nono: è il paradosso del traditore. Giacché lo stallo segnò pure l’avvio della legislatura scorsa. Se ciò nonostante quest’ultima è durata cinque anni bisogna ringraziare le scissioni di Alfano, di Fitto, di Verdini, di Bersani, bisogna genuflettersi dinanzi ai 566 cambi di casacca che hanno pompato ossigeno dentro la tenda dei governi. Insomma, la principale fonte di discredito della politica italiana ne ha permesso la sopravvivenza. Adesso il mercatino degli eletti può ripetersi, ci sperano già in molti. Errore: fateli pure gli accordi, le transazioni, i patti. Ma fateli alla luce del sole, come in Germania. Altrimenti dei partiti politici italiani, dopo questo paradosso, resterà soltanto l’osso.
il manifesto 11.3.18
Il Partito socialista francese in crisi di identità, alla ricerca di un leader
Primarie Ps. Il 15 e il 29 marzo le primarie tra i pochi iscritti rimasti per scegliere il nuovo segretario. Quattro candidati (Le Foll, Faure, Maurel, Carvouas) e due linee: opposizione frontale a Macron, rifiuto di un'opposizione sistematica. I socialisti schiacciati tra Macron e Mélenchon cercano disperatamente di ritrovare vita e alleanze. Il transfuga Hamon ha fondato un suo movimento, Génération-s
di Anna Maria Merlo
PARIGI Mercoledì prossimo, il 15 marzo, e poi il 29 per il ballottaggio, gli iscritti al Partito socialista francese sono chiamati a scegliere il prossimo segretario di quello che è stato per decenni il punto forte dello schieramento di sinistra, oggi ridotto a un’ombra di se stesso. Il Ps aveva 289 seggi all’Assemblée nationale nel 2012, dopo la vittoria di François Hollande all’Eliseo. Oggi, i deputati socialisti sono solo 31, quasi dieci volte meno. Benoît Hamon, candidato Ps alle presidenziali, che ha raccolto solo il 6,4% dei voti (quattro volte meno di Macron, tre meno di Mélenchon), è uscito dal partito lo scorso primo luglio e ha trasformato il suo Mouvement Premier Julliet in Génération-s. Hamon ha voltato pagina, ma in fondo ha gli stessi problemi di quelli che sono rimasti nel Ps: trovare uno spazio, tra La République en Marche e France Insoumise. Hamon si avvicina a Mélenchon, ma cerca di non farsi fagocitare. Il Ps deve combattere su due fronti. Nel governo di Macron, ci sono degli ex socialisti (ormai tutti usciti dal partito), in posti di rilievo: Gérard Collomb agli Interni, Jean-Yves Le Drian agli Esteri, che alla Difesa dopo un rimpasto ha lasciato il posto a un’altra ex, Florence Parly. L’elettorato tradizionale si è spaccato alle ultime elezioni, una parte ha raggiunto Macron, un’altra Mélenchon.
L’ultima importante fortezza del Ps resta Parigi, con la sindaca Anne Hidalgo.
Adesso tutto deve essere reinventato. Per la nuova direzione, ci sono quattro candidati. Tutti devono fare i conti, nolenti o volenti, con il «bilancio» della presidenza Hollande e il suo scacco finale, che ha impedito all’ex presidente di ricandidarsi. Olivier Faure, presidente del gruppo all’Assemblea (che adesso si chiama Nuova sinistra), promette «un rinascimento». Ha l’appoggio di alcuni pezzi grossi del Ps, da Martine Aubry a Jean-Marc Ayrault (ex primo ministro). Vuole «riunire», ma «rompere con i vecchi metodi del partito socialista». Stéphane Le Foll, ex ministro dell’Agricoltura e ora deputato, considerato l’«erede» di Hollande, si dice «uomo fedele ma libero». Vuole voltare pagina, ma conservare la linea di una «sinistra responsabile» pronta a governare: «Bisogna guardare l’avvenire – ha insistito nel dibattito tv tra i quattro candidati – il passato non è già stato purgato con le elezioni?». Emmanuel Maurel, eurodeputato rappresentante dell’ala sinistra del partito, che ha appoggiato la «fronda» ai tempi di Hollande, cerca «un’altra strada per il Ps e la sinistra». Anche il deputato Jean-Luc Carvouas si schiera a favore di un cambiamento netto rispetto al passato (ma deve far dimenticare di aver appoggiato Manuel Valls). In sostanza, ci sono quattro candidati e due linee rispetto a Macron: l’opposizione chiara e netta (Maurel, Carvouas) contro il «presidente dei ricchi», che rischia di dissolversi nella France Insoumise, a cui Faure risponde, seguito da Le Foll: «L’opposizione sistematica non serve a niente». Per il Ps del futuro, come del resto anche per Hamon, formazioni ridotte al minimo, resta aperta la delicata questione delle alleanze.
Il Fatto 11.3.18
Killing me softly: LabX, dove si studiano i veleni per i nemici della madrepatria
Il laboratorio. Così Mosca uccide senza spargimenti di sangue
di Sabrina Provenzani
Nato, pare, per sviluppare armi chimiche da utilizzare in guerra e poi virato, sotto il controllo del KGB, sulla ricerca e produzione di tossine letali per omicidi mirati. Omicidi di stato.
La funzione del LabX è stata ampiamente descritta nel libro Special Task: il memoriale, pubblicato nel 1994, di Pavel Sudaplatov, ex capo del servizio segreto sotto Stalin fin dal 1939 e uno degli organizzatori della missione internazionale per l’eliminazione di Lev Trockij, nell’agosto del 1940.
Secondo Sudaplatov era il direttore del laboratorio, Grigory Mairanovsky, ad infettare le vittime con veleni letali durante finti controlli medici di routine. Così sarebbero stati eliminati giornalisti ucraini, potenziali disertori e anche il diplomatico svedese Raoul Wallenberg, scomparso a Budapest alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Solo primi di una lunga lista di nemici politici, ex agenti segreti, dissidenti uccisi senza spargimento di sangue. L’Unione Sovietica prima e la Russia poi hanno una lunga tradizione di avvelenamenti strategici, interrotta solo negli anni di Mikhail Gorbachev e Boris Yeltsin. Nel 1988 il primo avrebbe chiesto informazioni sul LabX, scontrandosi con il niet del KGB. Secondo notizie più recenti, il LabX sarebbe ancora attivo, stavolta agli ordini del FSB, i servizi di sicurezza che hanno sostituito il KGB nella Russia di Putin. Avrebbe avuto un ruolo anche nella morte di Aleksandr Litvinenko, ucciso nel 2006 da un the al polonio.
Nel 2015 l’inchiesta britannica ha accertato che l’isotopo fatale era stato prodotto in un’altro laboratorio statale russo, a Sarov, ma l’ipotesi è che siano stati i tecnici del NII-2 a ad averlo reso trasportabile a Londra, forse dentro granuli gelatinosi. È successo lo stesso anche nel caso di Sergei Skripal, ex spia di alto profilo, nome in codice Forthwith? I tossicologi sono ancora al lavoro per determinare quale “agente nervino” abbia avvelenato lui, la figlia Yulia e, più lievemente, altre 21 persone. Duecento i potenziali testimoni identificati dalla polizia.
Scoprire di cosa si tratta può aiutare a determinare la provenienza della tossina, e da qui il mandante. Se le tracce portassero al LabX, la domanda è: perché usare una procedura tanto complessa per eliminare una ex spia in pensione?
Corriere La Lettura 11.3.18
Il leader del Cremlino sarà certamente confermato alle elezioni del 18 marzo
Il suo potere, che durada quasi vent’anni, si può definire una dittatura?
E va considerato una grave minaccia per l’Europa?Abbiamo messo a confronto due opinioni differenti
Guerre fredde (e guerre calde) dello zar Putin
colloquio tra Marcello Flores e Sergio Romano
In Russia si vota il 18 marzo e la rielezione di Vladimir Putin non è in dubbio. Di fatto il leader del Cremlino è al potere da quasi un ventennio, tanto da configurare un regime: una situazione sulla quale abbiamo chiamato a dibattere due studiosi collocati su posizioni diverse, Marcello Flores e Sergio Romano. L’interrogativo di fondo è come interpretare la leadership del presidente russo: una vera dittatura o una fase di transizione semiautoritaria, forse inevitabile in un Paese privo di tradizioni democratiche?
MARCELLO FLORES — Intanto l’era di Putin non si può considerare transitoria: è un significativo periodo storico, non il preludio a una ipotetica democratizzazione. Il presidente russo ha anticipato alcuni fenomeni che stanno prendendo piede nella crisi della globalizzazione e vengono accomunati sotto l’etichetta generica di populismo. Non è un dittatore, come di solito non lo sono i leader populisti, che hanno tendenze autoritarie, ma giocano su un terreno almeno parzialmente democratico. Però Freedom House, su una scala in cui il livello di autoritarismo più alto è 7, assegna alla Russia un punteggio di 6,5, peggiorato nel tempo. Quanto alla libertà di stampa, nelle classifiche internazionali la Russia è centoquarantottesima su 180 Stati. Non si contano i giornalisti minacciati, arrestati, spariti. Misure pesanti sono state prese per controllare internet. E non appena in politica emerge una personalità che sembra poter dare fastidio a Putin, il governo trova sempre il modo di sbarazzarsene con metodi ai limiti della legalità.
SERGIO ROMANO — Indubbiamente in Putin c’è un elemento di populismo, ma a mio avviso è in primo luogo un restauratore. Ha rilanciato l’unità dello Stato, il suo prestigio nel mondo, tutto quanto era stato reso precario prima del suo arrivo al potere. Non bisogna dimenticare che la Russia ha vissuto due grandi mutamenti falliti. Il primo fu il tentativo compiuto dal precedente leader Boris Eltsin di gestire la dissoluzione dell’Urss creando una sorta di Commonwealth panrusso con le ex repubbliche dell’Unione (a parte i Paesi baltici). Alcuni leader occidentali, tra cui George Bush padre, cercarono anche di aiutarlo, ma non fecero abbastanza e il progetto abortì. L’altro mutamento fallito fu il passaggio dall’economia di comando al libero mercato, da cui uscì una nidiata di oligarchi, ricchissimi affaristi senza scrupoli, che fecero strame del Paese. Ma se i mutamenti falliscono, che cosa possiamo aspettarci, se non una restaurazione? Putin è intervenuto nel momento in cui si trattava di recuperare la sovranità e l’autorità dello Stato, evitando ulteriori disgregazioni. C’è riuscito, e la Russia gli è riconoscente.
MARCELLO FLORES — Sono d’accordo nel definire Putin un restauratore, perché la coraggiosa trasformazione sperimentata negli anni Novanta non è andata in porto. La riconquista del prestigio e della potenza nasconde però, al di là della percezione positiva che ne hanno gli elettori, problemi molto gravi. Putin nel recente discorso alla nazione ha detto che lo Stato deve diminuire il suo intervento nell’economia, che però dal 2005 a oggi è raddoppiato. La Russia è il quarto Paese nel mondo per volume dell’economia sommersa rispetto al totale delle attività, superata solo da Nigeria, Azerbaigian e Ucraina. La quota della popolazione in stato di povertà è passata dal 10 per cento del 2010 al 14. Mosca ha concesso alla Cina lo sfruttamento delle risorse naturali della taiga siberiana, fondamentali per l’equilibrio ambientale planetario. Dietro i successi militari in Crimea e in Siria si avverte insomma una debolezza di fondo della restaurazione putiniana, che non ha le gambe per consentire al Paese di guardare al futuro con fiducia.
SERGIO ROMANO — La Russia ha un problema geografico che ne alimenta le paure e finisce per esporla troppo sul piano della potenza, ma bisogna ricordare che l’Occidente ha fatto il contrario di quello che avrebbe giovato alla stabilità di quell’area. E quindi non ha certo contribuito a modificare la linea politica di Mosca. Ci rendiamo conto che abbiamo imbarcato nella Nato Paesi che facevano parte prima dell’impero zarista e poi dell’Urss, come le repubbliche baltiche? E la Nato non è un’ordinaria alleanza diplomatica, ma un patto militare che serve a preparare la guerra e quindi ha bisogno di un nemico. Non ha alcun ruolo se non in funzione di un confronto bellico. Perciò quando uno Stato entra nella Nato, il suo vicino, in questo caso la Russia, deve concludere che ha un nemico in più. Non c’è da stupirsi che Mosca abbia deciso di reagire all’allargamento di un’alleanza che percepisce legittimamente come una minaccia. Ed è logico che cerchi di destabilizzare le componenti più fragili dello schieramento avverso.
MARCELLO FLORES — Senza dubbio gli Stati Uniti hanno sbagliato continuando a considerare la Russia un nemico. Ma ha pesato anche la debolezza dell’Europa, alla quale spettava di chiedere il superamento della Nato dopo la fine del regime comunista a Mosca. In quel caso l’ingresso nell’Unione Europea dei Paesi provenienti dall’impero sovietico avrebbe provocato meno tensioni. Questo però può giustificare la politica estera di Putin, non la sistematica violazione dei diritti umani all’interno della Russia.
SERGIO ROMANO — Lei ha ragione: gli europei avevano l’obbligo e anche l’interesse di sollecitare un riesame critico della Nato dopo gli eventi del 1989. Nella prima metà degli anni Novanta gli americani del resto erano incerti sull’argomento, poi prevalse l’idea di mantenere le basi militari in Europa sotto l’ombrello della Nato. E noi abbiamo lasciato fare. Del resto l’Ue è stata incapace di affrontare la crisi jugoslava e ha affidato una delega sui Balcani agli Stati Uniti, che se ne sono serviti per vincere, piegando la Serbia, quella che di fatto è stata una guerra contro la Russia. Pensiamo anche alla Georgia: quando nel 2008, in un vertice a Bucarest, George Bush figlio propose l’ingresso di quel Paese e dell’Ucraina nella Nato, Angela Merkel avanzò delle obiezioni, ma non si oppose risolutamente come avrebbe dovuto. Così gli Stati Uniti andarono avanti, tant’è vero che in Georgia, quando scoppiò il conflitto con l’Ossezia, c’erano 800 istruttori militari americani. Mettetevi nei panni di chi stava al Cremlino. Bisognava essere dei santi per non intervenire.
MARCELLO FLORES — Tutto ciò vale in un’ottica di potenza tipica della guerra fredda. Ma c’è anche un principio di autodeterminazione dei popoli, ci sono le norme del diritto internazionale. Nel momento in cui le ex repubbliche sovietiche sono diventate Stati indipendenti, è una forzatura da parte di Mosca pretendere di continuare a tenerle sotto tutela. Se il comportamento dei russi in Georgia e Ucraina è spiegabile, ciò non significa che si debba giustificarlo. Penso a questioni come la discriminazione verso i tartari, nella Crimea tornata sotto il controllo di Mosca, che non possono essere passate sotto silenzio. È giusto cercare soluzioni diplomatiche, ma va anche condannato il disprezzo delle regole internazionali da parte di Putin.
SERGIO ROMANO — Ma è stata in primo luogo Washington a conservare la logica della guerra fredda. Il problema della Russia è che ha ereditato, tra il Seicento e l’Ottocento, territori di tre imperi decaduti: ottomano, persiano e cinese. Così è diventata un enorme Paese multietnico e multireligioso, che si può tenere insieme solo con un forte governo centrale. Inoltre la Russia è circondata da piccoli Paesi, per esempio la Georgia, che non diventeranno mai come la Svizzera, non saranno mai capaci di mantenersi del tutto indipendenti e neutrali, ma andranno sempre alla ricerca di un protettore esterno. Se lei guarda a quegli Stati da Mosca, si accorge che essi sono destinati a essere vassalli di qualcuno: o della Russia o di altri, degli Stati Uniti nel caso della Georgia. Mi piacerebbe che il mondo funzionasse secondo le regole di civiltà ricordate da lei, ma purtroppo non è così. Se la Georgia mi scappa di mano, io al Cremlino so che diventerà un satellite di qualcun altro. Quanto all’Ucraina, è sempre stata parte dell’universo ortodosso russo. Io ho vissuto per diversi anni a Mosca e trovavo difficile distinguere i russi dagli ucraini, che appartenevano alla stessa cultura ed erano largamente presenti ai vertici del potere sovietico.
MARCELLO FLORES — Anche i georgiani lo erano: basti pensare a Stalin.
SERGIO ROMANO — Invece non si è mai visto un primo ministro indiano a Londra. Soltanto adesso, finito l’impero britannico, c’è un sindaco di origine pakistana.
MARCELLO FLORES — Di fatto però negli ultimi vent’anni in Ucraina si è costituita una coscienza nazionale. E non si tratta di uno staterello: Kiev può riallacciarsi a una tradizione importante, così come fa Putin in Russia. Si tratta di un Paese diviso, che può essere governato solo assicurando i diritti di tutte le comunità, ma se questo non è avvenuto la responsabilità è anche dell’Occidente e della Russia, che hanno soffiato sul fuoco. Però, se posso comprendere l’intervento di Mosca in Crimea, cioè in una regione storicamente russa che era stata posta sotto la giurisdizione di Kiev soltanto nel 1954, lo smembramento dell’Ucraina è un altro discorso. Certo, in questo conflitto le due parti fanno a gara nel violare i diritti umani, l’una peggio dell’altra. Ma credo che l’indipendenza e l’integrità del Paese vadano tutelate.
SERGIO ROMANO — Sin da quando si disgregò l’Urss, si pose il problema dei rapporti tra Mosca e Kiev, in particolare per via dell’importantissima base navale che la flotta russa ha a Sebastopoli, in Crimea. Negli anni Novanta Eltsin prese in affitto la base, pagandola lautamente. E Putin rinnovò la convenzione. C’era una volontà di convivenza. Ma quando nel 2004 esplose la prima sommossa di piazza Maidan contro il governo del filorusso Viktor Janukovyc, subito arrivarono a Kiev il presidente polacco Aleksander Kwasniewski e George Soros per appoggiare i dimostranti. Che cos’era, se non un’interferenza negli affari interni ucraini? E come poteva Mosca restare inerte? Passiamo al secondo conflitto: nel 2014 a Kiev i ministri degli Esteri della Russia e dei principali Paesi europei negoziarono con Janukovyc una transizione concordata. Ma poi in Parlamento l’intesa venne fatta cadere con una sorta di colpo di Stato, che l’Occidente avallò.
MARCELLO FLORES — Mi sembra improprio parlare di colpo di Stato, quando si pronuncia il Parlamento.
SERGIO ROMANO — Non sempre i Parlamenti sono tutori della democrazia. Comunque non ci siamo resi conto di come la Russia avrebbe percepito quegli eventi. E quando Mosca si è ripresa la Crimea, avremmo dovuto capire le ragioni di Putin, cercare un’intesa.
MARCELLO FLORES — Non so se il Cremlino si sarebbe accontentato. Ma se è giusto comprendere le preoccupazioni della Russia, bisogna considerare anche quelle della Polonia.
SERGIO ROMANO — Per carità. Secondo me dare retta a Varsavia è deleterio per l’Occidente. Troppo spesso la Polonia, a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, quando attaccò la Russia sovietica, si è comportata in modo irresponsabile.
MARCELLO FLORES — Tuttavia la Polonia di oggi, che è una democrazia e fa parte dell’Unione Europea, mi pare abbia tutto il diritto di sentirsi inquieta di fronte all’atteggiamento di Putin verso l’Ucraina.
SERGIO ROMANO — Varsavia ha il diritto di avere una voce in capitolo nella crisi di Kiev, ma ne ha fatto un pessimo uso. E gli Stati Uniti l’hanno appoggiata per esercitare un ruolo egemone anche in quella parte del mondo.
MARCELLO FLORES — Però Putin non fa nulla per risultare rassicurante, forse anche perché la situazione economica va peggiorando. La Russia è al dodicesimo posto nel mondo tra le potenze industriali e per competitività è addirittura trentottesima. Le promesse di benessere sono rimaste sulla carta e quindi il Cremlino inasprisce la repressione. Bolla come agenti di potenze straniere le Ong come Memorial, che si batte per far conoscere i crimini di Stalin. Chiunque critichi il potere rischia l’arresto con accuse di terrorismo. È una deriva illiberale da non sottovalutare.
SERGIO ROMANO — Mi pare tuttavia che il nostro sguardo occidentale non colga appieno il problema di governare uno spazio così enorme. Se lei fosse russo, avrebbe capito perfettamente la guerra in Cecenia. Se quella piccola nazione fosse diventata indipendente, la Russia avrebbe rischiato una progressiva frammentazione. È un Paese che o si governa da un centro forte, o si lascia andare.
MARCELLO FLORES — Però l’appoggio dell’opinione pubblica alla guerra in Cecenia crebbe dopo una serie di attentati terroristici sulla cui reale natura sono rimasti diversi dubbi. In precedenza i cittadini russi parevano disposti a fare concessioni ai ceceni.
SERGIO ROMANO — La crisi cecena intervenne in una fase di collasso dell’esercito russo ed è comprensibile che l’opinione pubblica fosse sfavorevole alla linea dura. Tuttavia anche in Cecenia, pur con mezzi non sempre onorevoli e appoggiandosi a un satrapo brutale come Kadyrov, Putin ha avuto successo in veste di restauratore. Così come ha ristabilito l’autorità dello Stato rispetto ai governatori delle regioni, che non volevano più versare le tasse a Mosca. A noi non piace come agisce Putin perché pensiamo che l’alternanza al potere sia un bene in sé, ma se per la Russia fossero più importanti la continuità e la stabilità?
MARCELLO FLORES — Anche senza arrivare all’alternanza, bisognerebbe almeno garantire un vero confronto democratico, con un’opposizione lasciata in condizione di operare.
SERGIO ROMANO — Oggi però c’è una libertà di stampa che la Russia in passato non ha mai conosciuto.
MARCELLO FLORES — Diversi giornalisti sono stati uccisi, imprigionati o ridotti al silenzio nell’era di Putin.
SERGIO ROMANO — Anna Politkovskaja non era una giornalista. Era una sacerdotessa della pace. E quando si combatte una guerra sporca come quella cecena, persone del genere finiscono per rimanerne vittime.
MARCELLO FLORES — Noi però riconosciamo come una pagina di libertà la pubblicazione in America dei documenti del Pentagono sulla guerra sporca in Vietnam, ora rievocata dal film The Post.
SERGIO ROMANO — All’epoca molti negli Stati Uniti considerarono un tradimento la pubblicazione di quelle carte. Ci volle una pronuncia della Corte suprema per legittimarla. E comunque si trattava di una situazione ben diversa, in una democrazia consolidata, mentre in Russia la libertà di stampa sta muovendo da poco i primi passi, a mio avviso rilevanti, dopo secoli di rigida censura.
Repubblica 3.11.18
Liu e Wang due Richelieu per l’imperatore senza scadenza
I fedelissimi pronti a diventare vicepremier e vicepresidente: Xi li conosce sin dalla gioventù
di Filippo Santelli,
Pechino Nell’aspetto hanno poco in comune, Liu He e Wang Qishan. Composto e distaccato economista il primo, formato sui banchi più prestigiosi del mondo, quelli di Harvard. Diretto e informale il secondo, un Mr. Wolf che ad ogni sigaretta risolve un problema. Ma il poco che Liu e Wang hanno in comune conta più di ogni altra cosa nella Cina di oggi: Xi Jinping li conosce fin da giovane, e di entrambi si fida. Nell’ascesa al potere assoluto nel Partito e nello Stato, Xi ha bisogno di consiglieri capaci a cui affidare le partite decisive: economia e controllo delle gerarchie. Ecco perché Liu e Wang, al termine di questa Assemblea nazionale che oggi incoronerà Xi leader a oltranza, dovrebbero ritrovarsi vicepremier e vicepresidente. Al di là dei titoli, che qui contano il giusto: alla sua destra e alla sua sinistra, per accompagnarlo fino al 2028, e poi chissà.
Così lunedì scorso nella Grande sala del Popolo agghindata a festa per l’inizio di quel Gran Galà del potere che è l’Assemblea nazionale, tutte le attenzioni erano per Wang Qishan. Chi doveva, ha notato che è stato uno dei primi ad entrare. Che con il suo completo blu scuro si è seduto in uno dei posti più vicini allo scranno dell’imperscrutabile Xi. E che gli alti gerarchi di esercito e Partito facevano pazienti la fila per stringere la mano a lui, piuttosto che all’ormai depotenziato premier Li Keqiang.
E pensare che Wang non doveva neppure essere lì. A 69 anni questo storico di formazione ha raggiunto l’età in cui i maggiorenti del Partito si ritirano. Ma chi può rinunciare a un curriculum del genere? Il “capo dei pompieri”, come qualcuno lo ha definito, si è fatto carico in serie dell’epidemia di Sars, dell’organizzazione delle Olimpiadi e della risposta alla crisi finanziaria del 2008. Allora l’amico di gioventù Xi Jinping, con cui aveva condiviso le pene dello Shaanxi, l’esilio rurale dove Mao spediva i figli dell’aristocrazia comunista a rifarsi una reputazione popolare, lo ha scelto per la sua prima battaglia decisiva, quella contro la corruzione. Da capo della Commissione disciplinare, Wang ha punito in cinque anni oltre un milione e 400 mila funzionari infedeli ( fanno 767 al giorno, uno ogni quattro minuti e mezzo), tra cui, per inciso, non i nemici di Xi. Ecco perché ora rientrerà nella squadra, pare da vicepresidente. Proprio mentre una nuova legge allarga il campo della “ sua” Inquisizione anti-corrotti ben oltre i limiti del partito, a tutti i funzionari dello Stato. Obiettivo, controllare il triplo dei sospettati. Wang ha pure ottimi contatti negli Usa, con cui nei prossimi mesi si dovrà discutere non poco di Corea e dazi. Anche se il riferimento indiscusso dell’agenda economica di Xi, interna e esterna, sarà il 65enne Liu He. Con il segretario la conoscenza è di lunghissima data, entrambi studiavano alla scuola dei figli dei quadri comunisti. Le loro strade accademiche si sarebbero divise, ingegneria per Xi, economia per Liu. Salvo poi ritrovarsi nella scalata alla gerarchia: da tempo, si dice, Liu è l’ispiratore della “ Xinomics”, oltre che il redattore dei suoi discorsi delle svolte. Nel 2013, in una rara manifestazione di riconoscenza, Xi disse « è molto importante per me » . E ora è pronto a consacrarlo: lo ha mandato al forum di Davos, poi a negoziare a Washington, dove Trump ha ben pensato di non riceverlo. Da questa Assemblea, stando ai dietro le quinte, uscirà come vicepremier con delega alla crescita, forse anche governatore della Banca centrale, una concentrazione di poteri economici mai vista in Cina. All’altezza della sua missione: sgonfiare la bolla finanziaria e accompagnare il Paese nella transizione produttiva, dalla massa alla qualità. «Nel Partito il potere si organizza attraverso le reti di contatti personali » , dice Filippo Fasulo, analista politico del Centro studi della Fondazione Italia- Cina e dell’Ispi. Xi insomma ha scelto due amici, con tutti gli asterischi che questa parola può avere tra sommi vertici del Partito. Nessuno osa contraddire un imperatore, neppure quando sbaglia: ecco quale potrebbe essere il vero problema della svolta autoritaria di Xi. Chissà se almeno il pompiere che risolve problemi e l’economista di Harvard - i due Richelieu del Re sole cinese - potranno alzare la mano.
Il Fatto 11.3.18
Iran, chi ha paura delle signore senza velo
La condanna. Tre mesi di reclusione per “avere pubblicamente incoraggiato la corruzione morale”
di Tiziana Della Rocca
È arrivata la notizia, non a caso a ridosso della festa della donna, dell’arresto della coraggiosa attivista anti hijab in Iran. La sua identità è nascosta, come se fosse un bene tenerla celata, eppure, come per una illuminazione, sembra proprio si tratti di Vida Movahed, la cui foto con il velo tra le mani, fece il giro del mondo e lo commosse, e spronò altre donne alla ribellione, a combattere la cupezza di certi uomini che le vorrebbero mute. Le triti ombre l’accusano di “avere pubblicamente incoraggiato la corruzione morale”, tre mesi e poi fuori, ma il feroce Abbas Jafari Dolatabi, il procuratore capo di Teheran, ha già detto che farà di tutto affinché la donna resti tutti i 24 mesi in carcere. E poi? Chissà. Si entra in certe prigioni, e le donne, una volta uscite, si sentono poi sotto osservazione costante, come se avessero dei guardiani che, godendo della loro spietatezza, le sorveglino giorno e notte.
Per capire da cosa sorge l’attuale protesta delle donne in Iran, occorre tornare al marzo del 1979 quando la rivoluzione iraniana non era ancora khomeinista e le donne chiamarono la femminista americana Kate Millet il 6 marzo del 1979 a festeggiare: trappole su trappole, proprio quel giorno Khomeini fece un discorso a Qom, invocando l’obbligo dell’hijab per tutte le donne. E nel giro di qualche giorno i pasdaran al grido di “roussari ya roussari” “velo sulla testa o botte in testa” attaccarono le manifestanti scese subito in piazza contro l’obbligo. Poi Khomeini introdusse la Sharia, quindi il divieto di abortire, la pena di morte per adulterio o blasfemia, le “spose bambine”… tutto quel che poteva nuocere alla libertà delle donne.
Oggi come ieri, le iraniane che protestano sanno benissimo quale sia il senso dell’imposizione del velo da parte degli ayatollah: umiliarle, tutto il resto è fasullo, poca cosa.
Proprio perché gli islamisti, in un modo o nell’altro le temono, devono sottometterle, e una volta riusciti a farlo, le costringono a girare vestite in quel modo, e non paghi dicono pure che è per il loro bene. È questo un altro lurido imbroglio, il modo con cui cercano di legittimare, e spesso ci riescono, il loro sadismo imposto sulle donne, con la forza e con il ricatto.
La derisione con cui Ali Khamenei considera il movimento occidentale #Metoo è sì sadica ma rivela anche il suo terrore e la fragilità della sua ideologia, come se potesse miseramente crollare sotto i colpi della protesta femminile. Khamenei dice che grazie al movimento #Metoo si è scoperto che in Occidente un numero notevole di donne ha subito stupri e abusi mentre in Iran grazie al velo queste cose non succedono! E ha aggiunto “il velo è immunità, protezione non costrizione” e poi “nella logica islamica il ruolo della donna è inserito in una cornice precisa. Una donna islamica è colei che è guidata dalla fede e dalla castità. Mentre oggi c’è un quadro deviante, un modello di donna che è offerto dall’Occidente”. Le parole di costui, che cercano di relegare in un morto quadretto le signore donne, è osceno, un invito allo stupro, dove sguazzare felici. Si può essere stupratori anche senza stuprare le donne, basta averne la voglia, o il disprezzo, o l’intenzione, e dire: “Care donne io vi copro così agli uomini passa la voglia di stuprarvi”. È questo in realtà il suo vero pensiero.
E questi sarebbero i grandi teologi, maestri e interpreti del Corano? Uomini che si credono potenti quando pensano di marchiare per sempre le povere ragazze? Eppure nel corpo e nella mente delle ragazze così violate qualcosa sempre resta, qualcosa di forte, di degno, di divino. Come in antichi tempi, le donne resistono al martirio, per quanto umiliate mai lo saranno. Il marchio semmai è altrove, resta nel corpo e nella nera testa di coloro che le violano.
La Stampa 11.3.18
“Gerusalemme sia il Comune di tutti. Io palestinese mi candido sindaco”
Il tabù sfidato da Ramadan Dabash: dal 1967 gli arabi boicottano il voto
di Elena Loewenthal
Gerusalemme è una città dove il tempo ha le sue misure. E’ apparentemente immobile come la pietra chiara di cui sono fatte le sue case, eppure ha una straordinaria e imprevedibile capacità di cambiare e far cambiare le cose.
Mentre il mondo discute intorno alle dichiarazioni di Trump e aspetta di vedere quando e come l’ambasciata americana (seguita a ruota, forse, da quella di altri paesi come il Guatemala e la Repubblica Ceca i cui presidenti si sono espressi in tale direzione) salirà da Tel Aviv a questa città tanto eterna quanto fragile, lassù succedono cose fino a poco tempo fa impensabili.
A ottobre di quest’anno ci saranno infatti le elezioni municipali in questa città che dal 1967 in poi ha visto avvicendarsi soltanto quattro sindaci – il mitico Teddy Kollek fino al 1993, Ehud Olmert (1993-2003), Uri Lupolianski (2003-2008) mentre da dieci anni ormai è saldamente guidata da Nir Barkat. Sempre nel 1967, all’indomani della Guerra dei Sei Giorni e di quella che per Israele fu la riunificazione della città e per i palestinesi l’inizio dell’occupazione, questi ultimi, che rappresentano circa il 37 per cento della popolazione totale di Gerusalemme, sancirono un boicottaggio politico sino ad oggi mai smentito. Partecipare alle elezioni municipali, sia da votanti sia da candidati, avrebbe per loro significato accettare in qualche modo la sovranità israeliana su Gerusalemme. Qui vivono infatti ebrei e arabi con passaporto israeliano oltre a residenti della zona est della città che hanno assistenza sociale e diritto di voto nelle consultazioni amministrative.
«Ritengo che per la popolazione sia giunto il momento di votare. Secondo alcuni questo sarebbe una forma di normalizzazione e “israelianizzazione” di Gerusalemme, ma io dirò loro che questo deve essere il comune di tutti, il paese di tutti», ha dichiarato Ramadan Dabash annunciando la creazione di un partito palestinese pronto a correre nelle prossime consultazioni.
Dabash è un ingegnere che vive a Gerusalemme est, ha il suo studio nella parte occidentale della città, ha studiato al Technion di Haifa e poi a Mosca, insegna a Tel Aviv, è presidente del consiglio locale del quartiere di Tzur Baher, ha quattro mogli, un sacco di figli e un programma politico animato di sano pragmatismo: «Non ho nessuna intenzione di rinunciare alla moschea di Al-Aqsa, di convertirmi all’ebraismo o abbandonare il nazionalismo palestinese. Ma dobbiamo avere il nostro posto in consiglio comunale».
La mossa di Dabash ha subito destato reazioni tanto animate quanto contrastanti. Per molti palestinesi di Gerusalemme esercitare il diritto di voto alle prossime elezioni municipali è ancora un tabù, ma tanti altri sono dell’avviso che le cose debbono cambiare, e così la pensa anche quel 60 per cento di israeliani della città favorevole alla partecipazione politica dei palestinesi. Proprio lo stallo del processo di pace e la crescente frustrazione con cui guardano all’inerzia dell’Autorità Palestinese potrà indurre le nuove generazioni di palestinesi di Gerusalemme a prendere l’iniziativa sul piano locale, prima di tutto andando a votare.
Dabash è fortemente motivato, sa che dovrà affrontare una strenua opposizione interna e per questo non ha aspettative troppo ambiziose. Ma il suo gesto è di per sé il segno non soltanto di un futuro cambiamento che sarà presumibilmente tanto lento quanto inevitabile, e che prima o poi trasformerà il volto della dirigenza gerosolimitana. E’ prima di tutto la testimonianza di quanto Gerusalemme sia per davvero al centro del mondo, per lo meno del suo – di quel Medioriente che per sopravvivere alla propria storia non può che diventare una palestra di convivenza: perché se di qui è uscita la parola del Signore, come dice la Bibbia, di qui e non altrove potrà venire anche quella “parola” creativa in grado di offrire soluzioni politiche praticabili, in un delicato ma necessario equilibrio fra passato e futuro.
La Stampa 11.3.18
Siria, il rischio di una collisione Usa-Turchia
di Charles A. Kupchan
Insieme alla penisola coreana la Siria è oggi uno dei luoghi più pericolosi del mondo. Un campo di battaglia dove si scontrano forze armate delle varie parti in gioco, Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran, Israele, il regime siriano, l’Esercito siriano libero, le Forze democratiche siriane, Hezbollah, e gruppi estremisti di varie bande.
Mentre continua il massacro dei civili, sembra profilarsi ora un particolare pericolo: gli Stati Uniti e la Turchia sono in rotta di collisione nel Nord della Siria. Le forze americane sono alleate con una fazione dei curdi siriani, le Unità di protezione popolare (Ypg), contro cui la Turchia ha recentemente sferrato un’offensiva militare. Le forze americane e turche potrebbero quindi arrivare a uno scontro sul campo di battaglia della Siria, contrapponendo così l’uno contro l’altro due membri della Nato e portando al punto di rottura il rapporto Usa-Turchia.
Washington e Ankara devono fare un passo indietro prima che sia troppo tardi. Gli Stati Uniti e la Turchia hanno ancora bisogno dell’aiuto reciproco per contribuire a stabilizzare un Medio Oriente in fermento. E se la democrazia turca è già messa in pericolo dalla svolta autocratica del presidente Erdogan, una rottura con gli Stati Uniti probabilmente lo spingerebbe a irrigidire ulteriormente le sue posizioni e potrebbe potenzialmente porre fine all’allineamento geopolitico della Turchia con l’Occidente - un duro colpo sia per la Turchia sia per la comunità atlantica.
In Siria gli Stati Uniti e la Turchia si trovano davanti a un ineluttabile scontro di interessi. Washington sostiene a buon diritto la sua collaborazione militare con le Ypg, le milizie curde incaricate di guidare l’attacco all’Isis e cacciarlo da Raqqa. Le milizie alternative non avevano i mezzi militari necessari per una missione del genere. Al contempo, Ankara ha tutti i motivi per essere profondamente disturbata dal sostegno degli Stati Uniti alle Ypg a causa dei legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il gruppo curdo separatista che a lungo ha condotto una campagna terroristica contro la Turchia.
Ora che Isis è in fuga, gli Stati Uniti e la Turchia dovrebbero darsi da fare per ricucire i rapporti. Ma stanno solo peggiorando le cose. Gli Stati Uniti stanno consolidando i legami con le Ypg, vedendo in quest’alleanza un mezzo per preservare l’influenza degli Stati Uniti nella Siria del dopoguerra. Sentendosi tradita da Washington, Ankara sta proseguendo la sua campagna militare contro queste milizie nell’enclave curda di Afrin e minaccia di arrivare fino a Manbij, una città a Est di Afrin dove c’è una considerevole presenza di truppe delle Ypg e statunitensi. L’offensiva turca ha già distolto le Unità di protezione popolare dalle fasi finali della lotta contro l’Isis.
Gli Stati Uniti e la Turchia devono invertire la rotta quanto prima. Con la sconfitta dell’Isis in vista, Washington può permettersi di ridimensionare il proprio sostegno alle Ypg e concentrarsi sulle priorità turche. Gli Stati Uniti sono riluttanti a fare un passo indietro rispetto ai curdi, perché temono che questo comprometterebbe la possibilità di fare affidamento su di loro per contrastare l’influenza iraniana e russa in Siria. Ma Washington sta sopravvalutando il ruolo dei curdi per controllare l’influenza regionale di Teheran e Mosca. Gli Stati Uniti possono adempiere al meglio a tale compito investendo nelle relazioni con la Turchia e aiutando Ankara a espandere la propria influenza in Siria.
Beninteso, gli Stati Uniti non possono abbandonare i curdi siriani; sono stati alleati leali e hanno sopportato pesanti sacrifici nella lotta all’Isis. Ma ora che è in fuga, Washington dovrebbe riprendersi le armi pesanti che ha dato all’Ypg per conquistare Raqqa e fare pressione perché ritirino i loro combattenti e restituiscano il potere politico alle comunità locali nelle aree non curde che hanno strappato al controllo dell’Isis. Gli Stati Uniti dovrebbero anche dire chiaramente ai curdi siriani che li aiuteranno a ottenere l’autonomia regionale che cercano solo se rinunciano al Pkk e alla sua campagna di terrore contro la Turchia.
In cambio, occorre che Ankara si ritiri dalla sua offensiva militare contro le Ypg - che si è già impantanata - e inizi a investire in una relazione pragmatica con i curdi siriani che li allontani dal Pkk e punti a renderli interlocutori responsabili nella Siria del dopoguerra. Idealmente, Erdogan dovrebbe fare leva sulle sue credenziali nazionaliste per cercare di riavvicinarsi alla più ampia comunità curda, incluso il Pkk. Con circa 15 milioni di curdi in Turchia e altri milioni nel Nord dell’Iraq e della Siria, la strategia del confronto militare è un vicolo cieco. Ma poiché Erdogan ha abbracciato il nazionalismo militarizzato in vista delle elezioni in programma per il prossimo anno, gli manca la lungimiranza necessaria per iniziare a breve negoziati per contenere il Pkk.
L’apertura di un dialogo con i curdi in Siria, tuttavia, offre a Erdogan una vittoria sia politica che strategica. Può dimostrare di avere abilità diplomatiche oltre alla spacconeria e alla spavalderia. E può uscire dal pasticcio strategico che ha combinato nel Paese.
Attaccando le Ypg, Ankara le sta spingendo tra le braccia del Pkk. Al contrario, comunicare con loro le allontanerebbe dal Pkk, approfittando del loro vivo desiderio di attirare il sostegno e la legittimazione internazionale mentre cercano di consolidare la propria posizione nel panorama politico post-bellico. Erdogan ha anche bisogno di una zona cuscinetto stabile sul lato siriano del confine turco, sia per tenere a bada l’estremismo e la violenza che probabilmente affliggeranno ancora per qualche tempo la Siria sia per garantirsi zone sicure in cui la Turchia potrà restituire i profughi siriani
Con i curdi che controllano la maggior parte della Siria settentrionale, Ankara ha bisogno della loro buona volontà, non della loro animosità. La Turchia ha bisogno di disgelo. Ankara è molto più che isolata. È estraniata dall’Europa e dagli Stati Uniti ed è in contrasto con la Russia, l’Iran e la maggior parte dei suoi vicini. In patria, la democrazia turca, a lungo modello per il Medio Oriente, sta tramontando.
L’Occidente sta perdendo la Turchia. Il primo passo per scongiurare questo esito è che Washington e Ankara arrivino a una soluzione per i curdi della Siria
Traduzione di Carla Reschia
il manifesto 11.3.18
Il diario di un secolo nel presente
Fuori Orario. Il programma dedica la notte di oggi (Raitre, a partire dalle 2.00) a Angela Ricci Lucchi, in prima tv «A propos des nos voyages en Russie»
di Cristina Piccino
Stanotte Fuori orario (Raitre, a partire dalle 2.00) propone uno speciale (a cura di Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto) per cui vale la pena «sintonizzarsi» sui fusi orari di Città del Messico o Los Angeles; «Fuori orario per Angela Ricci Lucchi» è infatti l’omaggio all’artista e cineasta da poco mancata, con la prima tv di uno dei lavori più recenti della coppia Ricci Lucchi e Gianikian, A propos des nos voyages en Russie, che in Italia è stato presentato la scorsa edizione di Filmmaker festival (Milano, dicembre 2016). E con la serie dei Frammenti elettrici (N.1 Rom, N.2 Vietnam,N.3 Corpi, N.4 Asia, N.5 Africa), Diario 1989. Dancing in the Dark, il sesto dei Frammenti elettrici ( 2009) che dialoga quasi come un controcampo con A propos des nos voyages en Russie. Anche questo è un «archivio» di immagini girate dai cineasti nell’estate dell’89 tra le feste del’Unità in Romagna, dove era cresciuta Angela che era nata a Lugo (il Pci, la Russia vista dall’Italia), in cui nella festa di musica e braci di cibo scivola il sentimento di una realtà che finisce per sempre.
Certo la televisione pubblica il cui compito dovrebbe essere quello di utilizzare il canone per illuminare teste e occhi edoveva proporre il lavoro di questi artisti conosciuti e omaggiati in tutto il mondo almeno in prima serata e non solo in forma di ricordo postumo, cosa che dice molto sulla politica culturale italiana così come la progressiva emarginazione di uno spazio quale Fuori orario, «unico» in una programmazione di donmattei e inguardabili talk show, che nel tempo ha fabbricato cinefilie eccentriche e sguardi intelligenti e ora sembra condannato a una probabile estinzione.
A propos des nos voyages en Russie (A proposito dei nostri viaggi in Russia) è stato realizzato per due giornate di studio dedicate all’opera di Ricci Lucchi e Gianikian a Parigi, nel 2016, dal titolo: «Politiche e uso critico delle immagini d’archivio». E il film è in sé una sorta di archivio, una valigia con gli strumenti di ricerca degli artisti: letture, oggetti, fotografie, immagini, esperienze, vissuti su cui si fonda il lavoro (sempre in progress) sulla Russia raccolto poi nella magnifica installazione prodotta da Documenta 14 a Kassel Journey to Russia. Che è anch’essa una sorta di «archivio»,o la sua rifondazione, un diario in cui confluiscono questo film e molti altri riferimenti comparsi nel loro lavoro durante gli anni, le interviste con alcuni protagonisti delle avanguardie russe a cui Angela Ricci Lucchi aveva già dato la silhouette dei suoi acquerelli trasferendo i suoi racconti in una narrazione (Note sui nostri viaggi in Russia, 2009).
«Li abbiamo filmati con rispetto, senza sovrapposizioni idelogiche» spiegano gli autori. L’idea è quella di documentare le loro parole e le loro testimonianze prima che scompaiano per sempre.
Una serie di fotogrammi fissi riprendono uno per uno i materiali: vecchie pellicole, fotografie dell’era zarista, della rivoluzione russa e degli anni a seguire, gli acquerelli di Angela Ricci Lucchi, le copertine dei libri di fiabe russe.
Cechov nel 1890, all’età di 30 anni, parte per Sakhalin, l’isola dei deportati a dodicimila kilometri da Mosca. Al suo editore scrive: «È cosa certa che noi abbiamo lasciato marcire invano, senza ragione, in modo barbaro; noi li abbiamo resi sifilitici, noi li abbiamo corrotti, noi abbiamo aumentato il numero dei criminali, e noi abbiamo rigettato la colpa sui guardiani della prigione dal naso rosso. Oggi tutta l’Europa colta sa quali sono i responsabili: non i guardiani ma ciascuno di noi». In una canzone di Vysockij, il cantautore «teppista» morto nell’80, amato da Josif Brodskij che lo aveva definito «il miglior poeta della Russia», si narra della manguste che un tempo vivevano allegramente, amate e rispettate. Poi all’improvviso hanno cominciato a essere perseguitate, non servivano più, non c’era più bisogno di loro…
A propos des nos voyages en Russie contiene gli elementi che attraversano con costanza la creazione artistica di Gianikian e Ricci Lucchi. La Russia, appunto, la sua cultura e i suoi conflitti, che diventano nello studio un terreno sensibile e un riferimento prezioso in quel «catalogo» della loro opera che è il Novecento. Di cui ogni film traduce i conflitti, le contraddizioni, liberando ogni singolo fotogramma dalle imposizioni temporali per tradurlo in una narrazione collettiva al presente. Guerre, colonialismo, imperialismi che esplora la loro opera costruiscono un dialogo ininterrotto di passato e presente, il laboratorio degli artisti e il racconto del mondo.
La Stampa11.3.18
il dilemma alieno che ci affascina
di Alessandro Defilippi
Per molti di noi il primo incontro con gli alieni avvenne da ragazzini. I cilindri metallici e infuocati che atterravano nei pressi di Londra, i Marziani che ne sgusciavano fuori, simili a piovre, con il loro implacabile raggio di calore: terribili e fragili al punto da cedere all’invisibile, ai batteri terrestri, troppo alieni per gli alieni. Tutto iniziò nel 1897, The War of the Worlds, La Guerra dei mondi, lo straordinario romanzo d’anticipazione di H. G. Wells. Altri alieni erano però già comparsi nei nostri pensieri, da La storia vera di Luciano di Samosata in poi. E molti seguirono, soprattutto nel cinema, fino al tenero E. T. di Spielberg, o alle straordinarie varietà del ciclo di Star Wars, o a quelle che sono a tutt’oggi le massime rappresentazioni dell’alterità: il parallelepipedo nero di 2001 Odissea nello Spazio, di Kubrick, e lo xenomorfo fantasticato da H. R. Giger e Ridley Scott per Alien. Alieni buoni, come il citato E. T., capace di stagliarsi in bicicletta contro la Luna, o come i dolci e fetali umanoidi di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ancora di Spielberg. Alieni incomprensibili e terribili, come lo xenomorfo o i Marziani - sempre loro -, del grottesco e delizioso Mars attacks!, di Tim Burton, capaci di cedere - la testa che esplode - solo alla musica country degli States.
Ma perché questa fascinazione per l’Altro, il diverso, in un Occidente che deve ora fare i conti con un’alterità concreta, con le ondate di migranti che reclamano un luogo, una vita? Perché nel 1974 nasce il Seti, Search for Extra-Terrestrial Intelligence, un programma che si propone la ricerca e il contatto con specie extraterrestri?
L’Altro è ciò che ci spaventa di più, come ci fa capire Elias Canetti in Massa e potere. L’Altro è l’ignoto, quello che sta alle nostre spalle e che c’insidia con il suo essere al tempo stesso diverso e specchio. Lontano e simile. Il fascino che esercita, la sua ricorrenza nell’immaginario, il bisogno e il timore che mostriamo nei suoi confronti, ci indicano che dentro di noi si annida qualcosa - qualcuno - che non conosciamo. Jung lo ha chiamato Ombra, la parte di noi che non accettiamo perché sconveniente, minacciosa, intollerante delle regole e delle abitudini, e che proiettiamo, come sullo schermo di un cinema, all’esterno. Il trasgressore, come trasgressori peraltro sono stati il Cristo e il Buddha, capaci di mostrarci i nostri limiti, la nostra miseria. L’Altro è inquietante, ma è anche colui che potrebbe redimerci, perché “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva”, come scrive Hölderlin. E d’altronde l’Altro assoluto che l’umanità ha potuto immaginarsi, simile a essa, profondamente diverso, non è altri che l’immagine e il desiderio di un dio, nelle sue ingannevoli e molteplici sfaccettature. A quanto pare cerchiamo quest’Altro perché, nonostante i miliardi di uomini che abitano la Terra, continuiamo a sentirci soli, a mendicare un padre o una madre. O almeno un fratello.
il manifesto 11.3.18
La metamorfosi come passaggio di stato/identità
Storie antiche. Rispetto a quelle ovidiane, «Le metamorfosi» di questo autore sconosciuto che visse tra II e III secolo, sottolineano l’idea del divenire. Da Adelphi
William Adolphe Bouguereau, Biblis, 1884, India, Salar Jung Museum
di Maria Jennifer Falcone
C’è un faraglione, nei pressi di Vieste, che porta il nome di Pizzomunno. La sua storia, ora musicata da Max Gazzè, narra l’amore tra l’omonimo pescatore e la bellissima Cristalda. La loro passione è invidiata dalle Sirene che, rifiutate dal giovane, trascinano la ragazza in fondo al mare e trasformano il suo amato in quel monolite calcareo che si staglia di fronte alla costa del Gargano. I due possono incontrarsi per una sola notte ogni cento anni, e così il loro amore, come la pietra, resiste al tempo e vince la morte. Trasformazione, poesia, amore, punizione, eziologia: sono molti gli ingredienti che rendono la raffinata ballata del cantautore romano un tassello moderno di quell’«infinito racconto delle metamorfosi» che affonda le sue radici nel mondo greco-romano.
Se l’opera antica più nota è senza dubbio il poema di Ovidio, un contenitore importante di racconti di trasformazione è costituito dalla raccolta di Antonino Liberale, Metamorphóseon Synagogé, ora proposta in traduzione italiana, con introduzione e note di commento, da Adelphi (Le metamorfosi, «Piccola Biblioteca», a cura di Tommaso Braccini e Sonia Macrì).
Dell’autore non si sa quasi nulla: il suo nome e alcune caratteristiche del greco in cui scrive lo lasciano collocare tra il II e il III secolo d.C., sotto gli Antonini o i Severi. Rocambolesca è la storia dell’unico manoscritto che riporta il testo, raccontata con chiarezza da Braccini nell’introduzione. Ora conservato presso la biblioteca universitaria di Heidelberg, il Palatinus graecus 398 faceva parte della cosiddetta Collezione filosofica del Palazzo imperiale di Costantinopoli, fatto copiare da Leone il Matematico nella seconda metà del IX secolo. Il testo delle Metamorfosi è arricchito da didascalie e interventi eruditi stratificati, iniziati nella tarda antichità. Riscoperto nei primi decenni del Quattrocento da un religioso domenicano che lo portò in Occidente, fu prestato, rubato, donato, trasportato, e si trovò così di volta in volta a Basilea, Heidelberg, Roma, Parigi, passando tra le mani di filologi importanti, come il Frobenius e lo Xylander (che lo tradusse per la prima volta in latino), per poi tornare finalmente a Heidelberg solo nel 1816 dopo la caduta di Napoleone.
Le quarantuno storie di trasformazione sono narrate in una prosa piana ma con dovizia di dettagli (mitografici, geografici, culturali in senso lato) sempre opportunamente chiariti nelle note di commento, che – ricche e ben documentate – si rivelano un ottimo strumento per gli specialisti senza spaventare il lettore meno esperto.
Numerosi sono i racconti dedicati agli animali, in particolare agli uccelli. È il caso di Cicno: il giovane, che impone al suo pretendente Filio una serie di prove, si getta in un lago (da allora chiamato Cicneio) dopo che questi si rifiuta di obbedirgli; disperata, sua madre lo segue in acqua e i due vengono trasformati in uccelli lacustri. Oltre a informare che una storia simile è nota da Ovidio, il commento ricorre agli studi sulla fiaba e sui racconti di folklore (in particolare, alla classificazione di Aarne-Thompson) interpretando i compiti dati a Filio come suitor tasks, prove imposte ai pretendenti.
Diverse sono le storie riguardanti amori incestuosi, con interessanti note storico-antropologiche sul tema dell’incesto nel mondo antico. Come la vicenda dell’irrefrenabile passione di Biblide nei confronti di Cauno, suo fratello gemello: la ragazza viene trasformata in una ninfa Amadriade, mentre dalla roccia dalla quale era pronta a gettarsi scorre ancora un’acqua detta dai locali «Lacrime di Biblide». O come quella di Smirna, follemente innamorata di suo padre, del quale rimane incinta (il bellissimo figlio di questa colpa, Adone, farà innamorare la dea Afrodite) e si trasforma nell’albero della mirra: «si dice che quest’albero ogni anno faccia trasudare il suo frutto dal legno come se piangesse».
Ci sono poi storie di amori osteggiati, come quello di Eracle e Ila: del ragazzo si innamorano le ninfe, che lo rapiscono e lo trasformano in eco per ingannare Eracle e costringerlo così a interrompere le ricerche. E non mancano vicende legate a mutamenti di identità sessuale, come quella di Leucippo, nato femmina ma allevato dalla madre come maschio per esaudire il desiderio del padre di avere un figlio, e infine trasformato in ragazzo dalla dea Leto: Antonino inserisce nel racconto altri protagonisti di cambiamenti sessuali, come l’indovino Tiresia, passato da uomo a donna e poi di nuovo da donna a uomo.
Proprio come per il Pizzomunno in Puglia, anche nel mondo antico le metamorfosi spesso sono legate a scogli e sassi: come quella di Batto, punito da Ermes per aver rivelato un suo segreto e per questo trasformato in pietra, le cosiddette «Vedette di Batto».
Se il fascino e l’attualità tematica di certi racconti di trasformazione narrati da Antonino ne dimostrano la vicinanza alla nostra cultura, nell’interessantissima prima sezione dell’introduzione Macrì mette in guardia dal rischio di sovrapposizione, ponendo l’attenzione sulla lingua e ricorrendo a un approccio antropologico. Mentre, infatti, l’italiano, parlando di ‘metamorfosi’ e ‘trasformazione’, fa riferimento anzitutto al mutamento del sembiante, ovvero della ‘forma’ (morphé, in greco), nella raccolta di Antonino Liberale il verbo metamorphóo compare solo due volte e il tema dell’aspetto sembra essere eluso. Piuttosto, viene sottolineata l’idea del ‘divenire’, dell’avvicendamento di condizioni che si sostituiscono ad altre, come dimostrano i verbi egéneto (‘divenne’), metébalen o katébalen (‘cambiò’), éllaxe tèn phýsin (‘cambiò la natura’). Piuttosto che sui corpi, come faceva Ovidio nelle Metamorfosi (vv. 1-2: in nova fert animus mutatas dicere formas / corpora, «l’ispirazione mi spinge a narrare il mutare delle forme in corpi nuovi»), Antonino si concentra sui passaggi di stato e sul tema dell’identità personale. Questa è inserita in un contesto sociale caratterizzato da una successione chiara di tappe prestabilite, il cui superamento è necessario per portare a compimento la propria natura, come dimostrano e contrario i miti narrati: Biblide, per esempio, che dovrebbe diventare adulta nel matrimonio, resta eternamente una Ninfa a causa del suo amore colpevole.
Altrettanto importante e opportunamente messa in luce da Macrì è la prospettiva fortemente antropocentrica che caratterizza il paesaggio antico, contemporaneamente sfondo e risultato delle vicende, e che sostanzia il ricorso all’aition (la narrazione, cioè, che giustifica un toponimo o un rituale legato a un luogo) in quanto fondamento della memoria culturale della comunità.
Dalla Grecia a Vieste, passando per tutte le città in cui il manoscritto di Heidelberg è stato letto e studiato, la metamorfosi è davvero «un’esperienza che ancora oggi non cessa di esercitare fascino e di essere raccontata», che è capace di dare vita a piante, luoghi, animali. Grazie alla filologia e allo studio di raccolte come quella di Antonino, non dimentichiamo storie lontane (e, come visto, espressione di una cultura altra) come quelle di Cicno, Biblide e Smirna, Ila, Leucippo, Batto. Allo stesso tempo, grazie al folklore, alla poesia e alla musica, ne recuperiamo e apprezziamo di più vicine, come quella di Pizzomunno, scoglio e pescatore eterno del Gargano: «e quell’ira accecante lo fermò per sempre. E così la gente lo ammira da allora, gigante di bianco calcare che aspetta tuttora il suo amore rapito e mai più tornato!».
La Stampa 11.3.18
1938, l’Anschluss
Hitler si prende l’Austria cattolica
Ottant’anni fa le truppe tedesche entravano a Vienna Con l’offerta del passaporto austriaco agli altoatesini si rischia oggi un’annessione simbolica al contrario
di Gian Enrico Rusconi
Ottanta anni fa l’Austria veniva «annessa» alla Germania hitleriana. Anschluss è il termine rimasto legato a quell’evento, acquistando col tempo un significato negativo o quanto meno equivoco. Sinonimo di annessione forzata, subìta, ingannevole. Ma storicamente non è stato così. Anschluss era il termine carico di pathos che indicava l’aspirazione storica della stragrande maggioranza degli austriaci (compresi i socialisti) a ricongiungersi con la nazione tedesca. In nome di una comune irrinunciabile identità tedesca, mediata innanzitutto dalla lingua. Di fatto però il coronamento di questo sogno collettivo è diventato realtà tramite un’azione militare dall’esterno e da parte di un regime antidemocratico. Da qui la intrinseca ambiguità dell’ Anschluss.
Immancabilmente i documentari storici ci fanno vedere un Hitler che, raggiante sulla sua Mercedes scoperta, entra a Vienna tra folle osannanti. Ma questo trionfo di piazza è stato preceduto da intrighi, ricatti, ultimatum di Berlino ai responsabili legali dello Stato austriaco che avevano costretto alle dimissioni il cancelliere Schuschnigg e alla sua sostituzione con il nazista Seyss-Inquart che chiedeva l’intervento delle truppe tedesche. Il tutto in un clima di virtuale guerra civile. In quel marzo 1938 non ci sono soltanto folle esultanti ma gruppi di cittadini che finiscono nei campi di concentramento. E non si tratta soltanto di ebrei, vittime designate nel clima di un imperante antisemitismo. Ci sono liberali, conservatori, cattolici non conformisti, persino «austrofascisti».
Incominciamo da qui, da questa espressione, per capire quello che accade. Il sistema che tracolla infatti non è esso stesso democratico ma è un sistema autoritario, antidemocratico, clericale cui si dà il nome complessivo di «austro-fascismo». Il riferimento al fascismo segnala un rapporto positivo con il regime mussoliniano e un legame personale tra il duce e il politico cristiano-sociale al governo Engelbert Dollfuss. Questi durante il suo cancellierato (1932-1934) punta alla creazione di uno «Stato corporativo», mescolando paternalismo e ideologia antidemocratica, antimarxista, antisemita controbilanciata dalla presa di distanza dal nazionalsocialismo hitleriano. Soprattutto reclama una specifica identità austriaca contrapposta a quella tedesca sequestrata dal nazismo. Ma si tratta di una competizione più che di un autentico contrasto di principio. L’austrofascismo infatti si fa interprete degli stessi valori della «comunità di popolo». Ma non c’è nulla di più distruttivo che le contrapposizioni in nome dell’identità.
C’è solo un aspetto originale a Vienna . Il collante dello Stato corporativo austriaco sul piano culturale e negli istituti-chiave della vita sociale è fornito dalla chiesa cattolica. Un favorevolissimo concordato le affida il controllo del sistema scolastico, della normativa matrimoniale e della pubblica moralità, la supervisione della intera vita culturale. Da questo punto di vista non è una polemica esagerazione parlare di clerico-fascismo.
Per un certo tempo Dollfuss riesce là dove in Germania avevano fallito i governi presidenziali conservatori tedeschi, cioè il contenimento del movimento nazionalsocialista. Il partito nazista austriaco viene addirittura messo al bando. La mossa si rivela a doppio taglio: il 25 luglio 1934 un pugno di nazisti assalta il palazzo del governo uccidendo Dolffuss. Ma il putsch fallisce anche per la pronta reazione di Mussolini che aiuta direttamente le forze lealiste e mobilita dimostrativamente due divisioni al Brennero.
Il destino dell’Austria degli anni Trenta dipende molto dall’Italia mussoliniana e dalla sua politica estera. Ma questa muta drasticamente proprio tra il 1934 e il 1938, con l’occupazione dell’Etiopia e l’intervento nella guerra civile spagnola. La conseguenza più evidente è l’avvicinamento alla Germania hitleriana che si concretizza con l’abbandono di Vienna al suo destino. Senza il consenso del duce, nel marzo 1938 il Führer non avrebbe osato «annettere» l’ Austria. L’Anschluss diventa così un tassello importante della fatale alleanza italo-tedesca. L’Austria intanto, parte e provincia del Terzo Reich, perde la sua autonomia statale e persino il suo nome (diventa Ostmark) . Ma gli austriaci combatteranno lealmente con i tedeschi - spesso con particolare zelo - nella guerra mondiale sino all’ultimo.
Nel frattempo però si registra una decisione diplomatica di assoluta rilevanza. Il 30 ottobre del 1943 a Mosca le tre grandi potenze Usa, Urss e Regno Unito rilasciano una dichiarazione nella quale si afferma che l’Austria è stata «la prima vittima dell’aggressione». Questa dichiarazione (ripresa e perfezionata nel trattato di pace del 1955) diventerà la prova decisiva a sostegno della legittima continuità dello Stato austriaco nonostante l’intermezzo dell’ «annessione». E indirettamente il riconoscimento di una specifica identità austriaca.
Avremmo concluso qui l’analisi della complessa vicenda austriaca, se inaspettatamente oggi non stesse accadendo a Vienna qualcosa di ambiguo, proprio in tema di identità austriaca, che coinvolge direttamente il nostro paese. Mi riferisco alla proposta avanzata, poi ridimensionata e al momento poco chiara, di offrire agli altoatesisi/ sudtirolesi italiani di lingua tedesca anche la cittadinanza austriaca. Un gesto simbolico solo apparentemente innocuo. L’indiretta offerta della cittadinanza austriaca , assolutamente inutile data l’ottima condizione di autonomia di cui godono i cittadini sudtirolesi di lingua tedesca, aprirebbe un’ ambigua rivendicazione identitario-linguistica che farebbe regredire ai tempi del nazionalismo più ottuso. Una specie di Anschluss simbolico perpetrato questa volta in senso contrario dalla stessa Vienna.