il manifesto 10.3.18
La sinistra se n’è andata da sé
«L’animo
nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è
stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle
accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina
«L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio»
di Marco Revelli
L’Italia
del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la
dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile,
quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe
da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia
di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara
che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare
indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di
pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando
per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo
malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del
fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso
movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale
(un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi
dall’inferno.
L’una attirata dal flauto magico della flat tax, l’altra da quello del reddito di cittadinanza.
In
mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di
rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte
dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in
progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Bisognerà
ben dircelo una buona volta fuori dai denti, se non altro per mantenere
il rispetto intellettuale di noi stessi: in questa nuova Italia
bicolore la sinistra non c’è più. Non ha più spazio come presenza
popolare, come corpo sociale culturalmente connotato, neppure come
linguaggio e modo di sentire comune e collettivo. Persino come parola.
La sua identità politica, un tempo tendenzialmente egemonica, non ha più
corso legale. L’acqua in cui eravamo abituati a nuotare da sempre è
defluita lontano – molto lontano – e noi ce ne stiamo qui, abbandonati
sulla sabbia come ossi di seppia. Disseccati e spogli.
NON È UNA
«SCONFITTA storica», come quella del ’48 quando il Fronte popolare fu
messo sotto dalla Dc atlantista e degasperiana, ma non uscì di scena. È
piuttosto un «esodo». Allora il giorno dopo, come dice Luciana
Castellina, si poté ritornare al lavoro e alla lotta, perché
quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo,
messo in minoranza ma consistente, e nelle fabbriche gli operai
comunisti ritornavano a tessere la propria tela come pesci nell’acqua,
appunto.
Oggi no: la sinistra del 2018 (se ha ancora un senso
chiamarla così) non è stata messa sotto da nessuno. Non è stata
selezionata come avversario da battere da nessuno degli altri
contendenti. Se n’è andata da sé. O quantomeno si è messa di lato. Gli
elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si
lascia una casa in rovina. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che i
blu e i gialli hanno potuto occupare tutto lo spazio perché dall’altra
parte non c’era più nulla. Da questo punto di vista questo esito
elettorale almeno un merito ce l’ha: ci mette di fronte a un dato di
verità. E a un paio di constatazioni scomode: che l’«onda nera» non era
affatto illusoria, è stata veicolata al nord da Salvini, ed è stata
neutralizzata al sud dai 5Stelle (come fece a suo tempo la Dc).
D’ALTRA
PARTE un tratto di verità ci viene consegnato anche dalla catastrofica
esperienza del quadriennio renziano. L’opera devastante di «Mister
Catastrofe», come felicemente lo chiama Asor Rosa, costituisce un ottimo
experimentum crucis. Utilissimo – a volerlo utilizzare per quello che
è: una sorta di vivisezione senza anestesia – per indagare che cosa sia
diventato il Pd a dieci anni dalla sua nascita, ma anche cosa rimanga
delle sue identità pregresse, delle culture politiche che plasmarono il
suo background novecentesco, dell’antropologia dei suoi quadri e dei
suoi membri, del suo radicamento sociale, del grado di tenuta o
viceversa di evaporazione dei riferimenti nel set di tradizioni che
definiscono ogni comunità. Matteo Renzi, nella sua breve ma tumultuosa
(quasi isterica) esperienza da leader nazionale ha stressato il proprio
partito in ogni sua fibra, ne ha rovesciato (e irriso) tutti i valori,
ha umiliato persone e idee che di quella tradizione avessero anche una
minima traccia, ha rovesciato di 180 gradi l’asse dei riferimenti
sociali (gli operai di Mirafiori sostituiti da Marchionne), ha provocato
a colpi di fiducia l’approvazione di leggi impopolari e antipopolari,
ha rieducato alla retorica e alla menzogna una comunità che aveva fatto
del rigore intellettuale un mito se non una pratica effettiva, ha
cancellato ogni traccia di «diversità berlingueriana» dando voce al
desiderio smodato di «essere come tutti», di coltivare affari e cerchi
magici, erigendo a modelli antropologici i De Luca delle fritture di
pesce e i padri etruschi dei crediti facili agli amici… Ora, con tutto
questo, ci si sarebbe potuto aspettare che, se di quella tradizione
fosse rimasto qualcosa, se un qualche corpo collettivo di «sinistra
storica» fosse rimasto dentro quelle mura, si sarebbe fatto sentire (“se
non ora, quando”, appunto). Tanto più dopo il compimento del gran passo
– del rito sacrificale – della scissione. Un esodo di massa, al seguito
del quadro dirigente che avevano seguito fino al 2013.
INVECE
NIENTE: fuori da quelle mura è uscito un fiume di disgustati, ma è
filtrato appena un esile rivolo, una minuscola «base» al seguito di un
pletorico gruppo dirigente. Il 3 e rotti percento di Liberi ed Eguali
misura le dimensioni di uno spazio residuale. Non annuncia – e lo dico
con rammarico e rispetto per chi ci ha creduto – nessun nuovo inizio, ma
piuttosto un’estenuazione e tendenzialmente una fine. Dice che non c’è
resilienza, in quello che fu nel passato il veicolo delle speranze
popolari. Né l’esperienza pur generosa (per lo meno nella sua componente
giovanile) di Potere al popolo – purtroppo sfregiata dal pessimo
spettacolo in diretta la sera dei risultati con i festeggiamenti mentre
si compiva una tragedia politica nazionale -, può tracciare un possibile
percorso alternativo: il suo risultato frazionale, sotto la soglia
minima di visibilità, ci dice che neppure l’uso di un linguaggio
mimetico con quello «populista» aiuta a superare l’abissale deficit di
credibilità di tutto ciò che appare riesumare miti, riti, bandiere
travolte, a torto o a ragione, dal maelstrom che ci trascina.
SI
DISCUTERÀ A LUNGO degli errori compiuti, che pure ci sono stati: delle
candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il
presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è
istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione
della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della
compromissioni di molti con un ciclo politico segnato da scelte
impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana
tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vedo la tendenziale e
apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo
europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di
“centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo.
PER QUESTO NON
BASTA fare. Occorre pensare e ripensare. Guardare le cose per come sono e
non per come vorremmo che fossero. Misurare i nostri fallimenti.
Costruire strumenti di analisi più adeguati. Perché questo mondo che non
riconosciamo, non ci riconosce più… Come il Montale del 1925
(millenovecentoventicinque!) mi sentirei di dire: «Non chiederci la
parola che squadri da ogni lato | l’animo nostro informe, e a lettere di
fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un
polveroso prato», per concludere, appunto, con il poeta, che questo solo
sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».