il manifesto 10.3.18
Sinistra, il fallimento delle élites
di Filippo Barbera
Ricominciamo.
Non dalla canzone di Adriano Pappalardo, anche se la voglia di gridare è
tanta. Ma da qualche parte, anche più di una, bisogna ricominciare. Per
una volta, ricominciamo dall’alto, dal potere e dalla sua gestione. Non
dai programmi, non dalle politiche industriali e del lavoro, non dai
fenomeni e dai fatti, non dai riferimenti ideologici e dai padri e madri
nobili. Ma dai processi di selezione della classe dirigente, dalle
élite della sinistra, da chi decide e da chi chiede il voto degli
elettori. Ricominciamo dalle persone.
La crisi della forma
partito, con i suoi limiti, ha consegnato il processo di selezione delle
classi dirigenti a pura riproduzione dei gruppi di potere dentro i
partiti e a scapito del paese. Il potere e la sua gestione sono tratti
costitutivi della politica, intendiamoci subito. Non c’è politica senza
potere. Ma neppure c’è politica senza attenzione per il governo della
polis. E se la selezione della classe dirigente è mediata solo dai
rapporti di forza e dalla fedeltà di corrente, solo dal controllo delle
risorse e dall’obbedienza cieca, l’esito è uno solo. Mediocrità e
cecità. Magari nascoste da abilità retorica, arroganza e capacità
comunicativa. Ma non a lungo.
Una domanda semplice: che rapporto
c’è tra la classe dirigente dei partiti di sinistra (centro-sinistra) e
l’intelligenza e passione diffusi nel Paese? Perché così è: le risorse
nel mondo dell’impresa, dell’associazionismo, dell’innovazione sociale,
del volontariato e delle mille pratiche ed esperienze che da Nord a Sud
abitano il Paese ci sono eccome. Come c’è la passione politica. Non si
tratta di sostenere che la società civile è buona e la politica è
cattiva. Ma di ammettere che i meccanismi di selezione e cooptazione
della classe politica non sono più capaci di attingere da quello che di
buono c’è nelle pratiche ed esperienze fuori dai partiti. Anche nella
società politica marginale e periferica, nei mille sindaci e
amministratori che fanno il loro lavoro con passione e competenza, ma
con sempre minori risorse. E quando di cooptazione esterna si tratta, si
riproducono comunque i meccanismi di ricerca del potere e il presidio
degli equilibri interni: l’obiettivo è il consenso tra élite. Il
risultato è che oggi le élite sono come apparecchi radio permanentemente
sintonizzati sulla modalità «trasmetti» e mai su quella «ricevi».
Parlano, ma non ascoltano. Far parte della classe dirigente di un
partito dovrebbe costituire un onore: uno status pubblico riconosciuto e
riconoscibile, mentre ora è materiale per barzellette e sarcasmo. Si è
rotto qualcosa.
Piero Ignazi e Fabrizio Barca hanno parlato di
«triangolo rotto» tra partiti, stato e società civile, non per buttare
via i partiti ma per immaginare nuove forme di raccordo capaci di
servire il governo della cosa pubblica. A riguardo, la ricostruzione dei
meccanismi di selezione delle classi dirigenti non può trascurare chi
élite non è. Il movimento 5 stelle questo lo ha capito. La sinistra di
partito no. Chiede di turarsi il naso al momento del voto, ma non si
mischia al popolo puzzone. Quale interclassismo – oltre a quello
ritualistico delle salamelle rimaste ai simulacri delle Feste dell’Unità
– caratterizza la vita quotidiana delle élite? Quali luoghi e persone
frequentano? Di quale riconoscimento sociale sono alla ricerca? Salotti?
Studi televisivi? Più o meno raffinati intellettuali? Dove vanno in
vacanza? Con chi parlano? Chi ascoltano? Scelgono un hotel a tre,
quattro o cinque stelle? In che classe viaggiano? Hanno gatti e cani che
si chiamano Cachemire?
Di Maio sbaglia i congiuntivi: diamogli
addosso, giusta strategia in un paese con un tasso elevatissimo di
analfabetismo funzionale. Le élite della sinistra sono snob. Come gran
parte della classe dirigente italiana, del resto. Ma chi ambisce a
rappresentare le istanze popolari, dei ceti e delle classi sociali più
svantaggiate, non può permettersi di essere snob. Non può solo fare
presenza. Non può stare seduto in disparte, per tornare a Pappalardo.
Presidiare il territorio, riconnettere il partito alla società vuol dire
anche questo. Mischiarsi e rimescolare, non separando e mettendo
barriere. Vuol dire uscire dai palazzi e dai circoli nautici.
Possibilmente togliendosi la molletta dal naso.