Il Fatto 10.3.18
Governo Pd-5stelle per la Costituzione
di Salvatore Settis
È
tempo di ipotesi di governo, e dunque è tempo di appelli. Per esempio:
“Cari amici del Movimento 5 Stelle, una grande occasione si apre, con la
vostra vittoria alle elezioni, di cambiare dalle fondamenta il sistema
politico in Italia e anche in Europa. Ma si apre ora, qui e subito. E si
apre in questa democrazia, dove è sperabile che nessuna formazione
raggiunga, da sola, il 100 per cento dei voti. Nessuno può avere la
certezza che l’occasione si ripresenti nel futuro. Non potete aspettare
di divenire ancora più forti di quel che già siete, perché gli italiani
che vi hanno votato vi hanno anche chiamato: esigono alcuni risultati
molto concreti, nell’immediato, che concernano lo Stato di diritto,
l’economia e l’Europa. (…) Avete detto: ‘Lo Stato siamo noi’. Avete
svegliato in Italia una cittadinanza che vuole essere attiva e contare,
non più delegando ai partiti tradizionali le proprie aspirazioni. Vale
per voi, per noi tutti, la parola con cui questa cittadinanza attiva si è
alzata e ha cominciato a camminare: ‘Se non ora, quando?’.
Sembra
scritto ieri, questo appello; e invece fu lanciato il 9 marzo 2013, a
firma di Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Tomaso Montanari, Antonio
Padoa-Schioppa, Salvatore Settis, Barbara Spinelli. E il giorno dopo
Michele Serra lanciava un appello assai simile, firmato da alcune delle
stesse persone (fra gli altri, anche don Gallo, don Ciotti, Carlin
Petrini, Saviano).
In questo Paese distratto e smemorato,
richiamare quegli appelli non è vano esercizio archivistico. È, anzi,
consapevole scelta politica, e per almeno due ragioni. Prima di tutto:
se le stesse identiche parole ci appaiono ancora attualissime, tant’è
vero che vengono ripetute oggi in coro da molti, vuol dire che abbiamo
perso cinque anni di vita. Un’intera legislatura gettata al macero
inseguendo una riforma costituzionale scritta non coi piedi ma con le
zampe, una fallimentare retorica delle riforme, due leggi elettorali
sgangherate, l’egolatria di un bulletto di periferia, l’ostinata
occupazione di posizioni di potere. Ma la seconda ragione è ancor più
importante: se i nostri appelli fossero stati accolti allora (marzo
2013), si sarebbe creata un’alleanza tra Cinque Stelle e Pd, magari solo
sperimentale e di scopo, e forse con una scia di malumori e abbandoni.
Ma un governo di tale assetto, cinque anni fa, poteva significare
generosità e coraggio politico-istituzionale, lungimiranza, cura e
passione per la fabbrica sociale, visione del futuro, volontà di
indicare ai cittadini un traguardo. Poteva voler dire fiducia nella
Costituzione e nelle istituzioni, ma anche in se stessi: nella propria
capacità di tenere saldi alcuni punti programmatici pur dovendone
negoziare i dettagli con altre forze politiche.
Quell’occasione è
persa per sempre. Ma visto che identici appelli risuonano, cinque anni
dopo, con le stesse parole e rivolte agli stessi interlocutori (coi
Cinque Stelle in ancor più chiara posizione di forza e il Pd in fase di
suicidio assistito), possiamo ritrovare domani, in quanto comunità di
cittadini, lo stesso slancio e lo stesso ottimismo che nel 2013 furono
spenti da paure, miopie, sospetti, insicurezze? Chi ancora lo crede
possibile non deve illudersi che sia facile. Il rischio che oggi
corriamo non è che si ripetano i falsi movimenti del 2013 (raccontarli
sarebbe deprimente). Il rischio è che il tunnel dorato delle manovre
istituzionali e del galateo parlamentare contagi chi vi entra adesso
dopo tanto lunga esitazione. Che i negoziati per la formazione del nuovo
governo prendano la strada di una burocrazia cerimoniale, buona per
tranquillizzare l’esercito dei benpensanti ma non per offrire all’Italia
un progetto per il futuro.
Cinque anni dopo, è ancor più
necessario far balenare un prossimo orizzonte in cui si assicuri ai
giovani un lavoro, al nostro suolo martoriato un riscatto, alla sanità e
alla spesa sociale un’inversione di marcia, alla scuola e alla cultura
la priorità che meritano nell’interesse delle nuove generazioni, alle
città storiche la tutela del loro dna, ai cittadini investimenti
pubblici che inneschino creatività.
Questi e altri possibili punti
programmatici hanno un nome già pronto, se non vogliamo accecarci per
non vederlo: si chiamano, né più né meno, attuazione della Costituzione.
Se davvero il referendum del 4 dicembre 2016 è stata la camera di
incubazione delle elezioni del 4 marzo, a questa strada non ci sono
alternative. Ma nulla garantisce che verrà seguita, se non ci ricordemo
che il nostro compito non si esaurisce nella cabina elettorale, ma ci
impegna a tenere il fiato sul collo a chi abbiamo eletto.