Il Foglio 21.3.18
Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche
Karl Löwith
Donzelli, 200 pp., 23 euro
di Maurizio Schoepflin
qui
https://www.ilfoglio.it/una-fogliata-di-libri/2018/03/21/news/dio--uomo-e-mondo-nella-metafisica-da-cartesio-a-nietzsche-karl-loewith-una-fogliata-di-libri-185243/
La Stampa TuttoScienze 21.3.18
Un video
L’inconscio secondo Jacques Lacan
Massimo Recalcati ci racconta l’incoscio secondo Jacques Lacan, il territorio della psiche che lo psicanalista in lunghi anni di lavoro ha esplorato cercando di capirne le leggi. Per Lacan l’incoscio non è luogo spirituale ma il luogo di una ragione e della verità. Questa è la tesi che lo rende uno dei protagonisti nella psicanalisi negli anni cinquanta.
http://www.lastampa.it/2018/03/21/multimedia/scienza/tuttoscienze/linconscio-secondo-jacques-lacan-TNyNI1P4ZpIIGXES7pCSII/premium.html
Repubblica 21.3.18
Oliver Sacks
L’Hearing Voices Movement. Oltre i luoghi comuni
Non abbiate paura delle voci di dentro
di Marco Belpoliti
Inostri cervelli, così come le nostre menti, sono piene di voci», scrive un giovane professore di psicologia alla Durham University nonché scrittore, Charles Fernyhough.
La frase si trova in un libro davvero interessante, La voci dentro (Raffaello Cortina, traduzione di di T. Boldrini, pagg. 287, euro 24) dedicato ai vari modi attraverso cui le voci abitano le nostre teste. E non si tratta non solo delle voci manifestamente allucinatorie, ma anche di quelle che appartengono al nostro dialogo interiore, che ci sono d’ausilio e di sostegno in momenti difficili o quando dobbiamo prendere decisioni ardue. Oliver Sacks, esploratore di zone liminari della nostra mente, aveva chiamato questo fenomeno “sentire cose” ricordando come nel 1911 Eugen Bleuler, psichiatra e direttore del grande ospedale psichiatrico di Burghölzli vicino a Zurigo, avesse descritto quest’universo che assediava i suoi pazienti schizofrenici.
Non era la prima volta che le voci si presentavano alla ribalta nella storia dell’umanità, poiché nelle culture antiche veniva loro riconosciuta una grande importanza; era in questo modo che gli dèi si manifestavano nelle teste degli eroi greci. Secoli dopo il cristianesimo le ha invece attribuite in modo alterno a demoni e angeli. Lo studio scientifico delle psicosi e dell’isteria aveva quindi introdotto una visione diversa del fenomeno dando loro un posto nella patologia psichiatrica. Tuttavia , ricorda Fernyhough, le voci non riguardano solo i cosiddetti “malati di mente”, ma ciascuno di noi. Lev Vygotsky, il geniale psicologo russo, censurato e messo all’indice durante il periodo staliniano, aveva parlato di “discorso interiore” ( Pensiero e linguaggio, Giunti).
Noi tutti parliamo a noi stessi, rimproverandoci, incoraggiandoci o sollecitandoci. Non si tratta di voci esterne, bensì di voci interiori, che nessuno pensa ad attribuire a entità divine esterne, per quanto, come spiega Fernyhough, esistano persone che sono tormentate da voci di tipo persecutorio, o altre cui, come accadeva alle mistiche del passato, capita di sentire Dio che parla.
Le voci dentro ha il merito di tracciare una topografia delle voci che ci abitano. Certo nelle psicosi ci sono fenomeni allucinatori, che assillano anche in modo grave uomini e donne, per quanto sia vero che «una mente isolata è in realtà un coro», scrive Fernyhough riprendendo Vygotskij.
L’autore sviluppa l’idea di un «pensiero dialogico», espressione che il russo non usa mai, ma che è figlia delle sue teorie. Negli anni Settanta in un geniale, e a tratti sconcertante libro, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza
(Adelphi), uno psicologo di Princeton, Julian Jaynes, ipotizzò che tutti gli esseri umani sentissero voci, le quale si generano nell’emisfero destro del cervello e sono udite da quello sinistro. Nella antichità queste voci erano interpretate d’origine divina, poi le voci furono interiorizzate e fatte proprie dagli individui. Così Achille nell’Iliade sente le voci divine, mentre Ulisse nell’Odissea, riflette tra sé e sé. L’opera dello psicologo inglese spazia in vari territori, dalle voci che entrano nelle menti di scrittori, come Charles Dickens, Virginia Woolf e Samuel Beckett, alle voci dei vari personaggi romanzeschi che sentono gli stessi lettori, sino alle allucinazioni in senso stretto.
L’autore ipotizza che il cervello comunichi con se stesso, sovente a scapito di quella che noi chiamiamo “coscienza”: lassù qualcuno ci parla.
Lo scrittore Daniel B. Smith ha scritto che con il fenomeno delle voci il cervello solleva la testa in superficie, come il mostro di Loch Ness; in questo modo per un breve istante si può davvero “vedere” o meglio “sentire” il cervello. Leggere questo libro, che è una via di mezzo tra un testo scientifico e un racconto, ma che non raggiunge mai l’abbacinante chiarezza narrativa di Oliver Sacks, si è insieme affascinati e sconcertati, e a tratti persino angosciati. Ci si fa continue domande su se stessi, sul proprio pensiero, sul dialogo interiore tra sé e sé, così che, quando finalmente si giunge ai capitoli in cui viene raccontata dell’esistenza dell’ Hearing Voices Movement, ci si tranquillizza. Si tratta di un’organizzazione che associa coloro che sentono voci. Grazie all’intervento di psichiatri illuminati il fenomeno allucinatorio delle voci in pazienti psichiatrici si è orientato verso l’interpretazione della guerra psichica che questi uomini e donne vivono. Le voci spesso sono strategie di sopravvivenza rispetto a esperienze traumatiche sovente d’origine sessuale, così che si può anche concludere che sentire voci è un aspetto abbastanza comune dell’esperienza umana. Per chi le sente non è cosa da poco.
Oliver Sacks è lo studioso che ha analizzato con più lucidità queste esperienze senza ricondurle solo all’ambito della schizofrenia
Un passo avanti contro la passata criminalizzazione arriva con la nascita dell’Hearing Voices
Movement, la prima associazione che unisce chi è colpito dal fenomeno
Nell’antichità erano il modo di manifestarsi degli dèi Poi, con l’affermarsi dell’io individuale, i dialoghi interiori si sono ridotti a fenomeno psichiatrico. Ma parlare con noi stessi è anche una risorsa: ecco perché
Decartes
il manifesto 21.3.18
Il capitalismo e la banalità dell’algoritmo
Facebook e Uber poco smart. Il mito dell’Intelligenza artificiale risale ai tempi di Cartesio. Ma da anni scienziati come Damasio o Cini hanno descritto quell’«impasto» di ragione e sentimento che è l’uomo
di Enzo Scandurra
Quello dell’Intelligenza Artificiale è un vecchio mito che sopravvive almeno dai tempi di Cartesio in poi.
La metafora del calcolatore moderno è infatti basata sulla distinzione tra corpo e mente.
Sulla distinzione cioè tra emozione e intelletto, sentimenti e capacità raziocinante. Secondo questo approccio riduzionista, il corpo dell’uomo, deteriorabile e imperfetto, ospiterebbe, proprio come l’hardware di un pc, una mente perfetta, il software, la parte nobile dell’essere umano.
Tra le due parti non ci sarebbe alcun rapporto: una rappresenta il contenitore, l’altra il contenuto. Peccato che l’avanzamento della scienza abbia smentito da tempo questo luogo comune.
Già nel 1984 il neurobiologo Antonio Damasio sconfessò questo mito con il suo celebre libro, L’errore di Cartesio, partendo dal famoso incidente capitato a Phineas Gage, l’operaio che sopravvisse alla ferita infertagli da un’asta metallica che gli trapassò il cranio da una parte all’altra.
GRAN PARTE dei sentimenti umani originano da uno stato corporeo. Il rapporto indissolubile corpo-mente è l’esito di un lungo processo evolutivo durato milioni di anni. La scienza e la medicina occidentale, invece, trattano separatamente i due elementi, il corpo e la mente, come fossero indipendenti, come fossero parti separate, parti di una macchina banale, per usare l’espressione di von Foerster che chiamava medici e chirurghi semplici banalizzatori, al pari dei meccanici che riparano le auto.
Una macchina è banale se è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra input e output, se, dato uno stimolo A, produce sempre la risposta B. Se fa sempre la stessa cosa, insomma. Schiaccio il pulsante, e vien fuori l’aria calda, giro la chiave e si accende il motore.
Secondo la (falsa) tradizione occidentale meccanicistica, l’essere umano sarebbe più o meno una macchina banale le cui parti risultano non connesse e pertanto sostituibili a piacere.
LE EMOZIONI o i sentimenti influenzano le nostre capacità raziocinanti e meno male che sia così! Quella intelligenza (semmai ci fosse) che non si fa condizionare dai sentimenti sarebbe una intelligenza fredda, incapace di comunicare con altri, astratta, incapace di comprendere il dolore, l’altruismo, la solidarietà, l’amore: l’algoritmo appunto.
Diceva Marcello Cini: «Il soggetto acquista “conoscenza” dell’oggetto di natura diversa perché non è più soggetto esterno, ma diventa un soggetto “interno” a un metasistema che lo comprende insieme all’oggetto, e questo coinvolgimento induce in lui, in quanto organismo integrato di cervello e visceri, un insieme di reazioni fisiche e mentali diverse da quelle che provoca in lui l’esperienza di chi descrive dall’esterno in modo che altri soggetti interagiscono con gli oggetti con i quali sono a loro volta coinvolti attraverso esperienze emotive» (Cini, 1999). Se fosse vera la dicotomia tra sentimenti e ragione, sarebbe una dicotomia allucinante che genererebbe mostri. Siamo invece un «impasto» evolutivo complesso tra capacità raziocinante e sentimenti, meschini o nobili che siano.
Queste semplici considerazioni mi sono venute leggendo l’articolo di Roberto Ciccarelli, Anche la-macchina-che-si-guida-sola di Uber uccide (il manifesto del 19 marzo) che descrive l’uccisione di un pedone che stava attraversando la strada da parte di un veicolo autoguidato, a Tempe, periferia di Phoenix.
Ancora sopravvive il mito che una mente infallibile basata su un algoritmo sia più sicura di un’auto guidata da un umano, perché – dicono le ditte produttrici di tali veicoli – una distrazione umana può causare un incidente mortale.
QUESTO FALLACE MITO è mantenuto in vita dalle grandi Corporation per battere la concorrenza degli avversari e mantenere alti i profitti. In quello che è il suo ultimo libro (Il supermarket di Prometeo, la scienza nell’era dell’economia della conoscenza, Codice edizioni, 2006), Marcello Cini si occupava di questo tema a lui caro, affermando che: «Il XXI secolo si sta sempre più caratterizzando come l’epoca in cui, grazie agli strumenti forniti dalla scienza e dalla tecnologia, la produzione e la distribuzione di beni materiali viene progressivamente sostituita dalla produzione e dalla distribuzione di un bene collettivo e non tangibile: la conoscenza, sia essa l’ultima frontiera della ricerca piuttosto che l’intrattenimento di massa. Tutto questo in nome di una presunta democratizzazione del sapere che però risponde ed è soggetta unicamente alle leggi di mercato imposte da un’economia capitalistica e sempre più invasiva. Ma c’è una contraddizione profonda fra la produzione di conoscenza frutto al tempo stesso di una creatività e del patrimonio culturale comune all’umanità intera attraverso un processo evolutivo non finalistico, e la crescita dell’economia che è finalizzata alla produzione di profitto».
Repubblica 21.3.18
Convegno su Regeni, la provocazione del pm Zucca
“Chi torturò al G8 è ai vertici della polizia Come possiamo chiedere giustizia all’Egitto?”
di Marco Preve
Genova La ferita del G8 del 2001 non si è mai chiusa, nonostante qualche estemporanea medicazione che politica e istituzioni hanno provato ad applicare durante questi 17 anni. E si è riaperta in maniera clamorosa ieri pomeriggio, nella sala dell’Ordine degli Avvocati di Genova, dove era in programma un convegno con i genitori di Giulio Regeni e la presentazione del docufilm di Repubblica “Nove giorni al Cairo” di Carlo Bonini e Giuliano Foschini. Accanto a loro, al tavolo dei relatori c’era il sostituto procuratore generale Enrico Zucca, che fu il pm simbolo dell’inchiesta sulla “macelleria messicana” della scuola Diaz.
Quando è il suo turno di parlare le parole che pronuncia sono pietre: «Fatte le debite proporzioni, noi chiediamo all’Egitto di consegnare dei torturatori quando la Corte europea dei diritti dell’Uomo, con le sentenze Diaz e Bolzaneto, riconosce che non siamo riusciti ad identificare alcun torturatore, cioè le nostre forze di polizia non ci hanno consegnato alcun torturatore e i torturatori, cioè coloro che hanno coperto quegli ignoti torturatori oggi, si può di nuovo dire, sono ai vertici delle forze di polizia. La possibilità che questa indagine ( sull’omicidio Regeni,
ndr) approdi a qualcosa è fortemente minata dalla nostra storia » . Le frasi pronunciate ieri da Zucca hanno avuto come immediata conseguenza l’intervento del ministero della Giustizia, che ha fatto sapere di avere acquisito le dichiarazioni. In realtà sono il completamento di una critica, senza dubbio impietosa, ma sempre articolata e motivata, che il magistrato porta avanti da quando, nel 2012, la sentenza di Cassazione ha condannato alcuni tra i più alti funzionari di polizia per i falsi verbali e le false bottiglie molotov che dovevano servire a coprire la mattanza della Diaz, riconosciuta come tortura — come pure le violenze ripetute della prigione di Bolzaneto — dalle sentenze di Strasburgo. Le accuse di Zucca alla inarrestabile progressione delle carriere dei fedelissimi dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, oggi presidente di Finmeccanica, sono esattamente quelle formulate in oltre cento pagine dalle sentenze della Cedu di Strasburgo. Ma mentre le sentenze si devono leggere, Zucca scrive su riviste giuridiche o parla a pubblici convegni.
Già nel 2015, nel corso di un dibattito a “ Repubblica delle idee”, le sue frasi provocarono la reazione dell’allora capo della polizia Alessandro Pansa che lo segnalò al Ministro della Giustizia. Ieri il nuovo capitolo che ha però un collegamento ben preciso nelle notizie che a ridosso di natale Repubblica pubblicò suscitando un forte dibattito nel Paese. Nell’estate del 2017 finirono, infatti, i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici inflitti ai condannati. Così, alcuni dei funzionari che, come scrissero i giudici di Cassazione, “ hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero” tornarono a indossare la divisa ottenendo posizioni di assoluto rilievo gerarchico. Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per falso, è oggi il numero 2 — vicedirettore tecnico operativo — della Direzione Investigativa Antimafia, fiore all’occhiello delle forze investigative italiane.
Pietro Troiani, il vicequestore che fece materialmente introdurre nella Diaz le molotov è diventato dirigente di una delle centrali più importanti della Polizia Stradale. Il Viminale spiegò che non si trattava di promozioni ma di posti assegnati in base al grado che avevano i funzionari al momento della sospensione. E il Ministero dell’Interno non ha mai voluto rispondere circa collaborazioni con i nostri servizi di Francesco Gratteri nel 2001 potentissimo capo dello Sco, potenziale futuro capo della polizia. Dal 2013 attende inutilmente risposta un’interrogazione parlamentare per sapere quali sanzioni disciplinari subirono gli agenti responsabili dei pestaggi della notte cilena. Il primo dei molti firmatari era Gennaro Migliore, allora deputato Sel poi sottosegretario alla Giustizia nelle fila del Pd. “ La politica — dissero nel dicembre scorso i portavoce del Comitato Verità e Giustizia per Genova — non ci ha mai aiutato davvero. Il partito della polizia è stato più forte”.
Repubblica 21.3.18
I femminicidi
L’uomo senza educazione sentimentale
di Chiara Saraceno
Di fronte al ripetersi quasi quotidiano di femminicidi tutte le parole sembrano inutili, non solo perché già dette e ripetute, ma perché paiono non produrre alcun cambiamento. Certo, possiamo continuare a consigliare alle donne che si trovano in rapporti violenti di andarsene e denunciare.
Ma, come testimoniano almeno due dei femminicidi più recenti, andarsene e denunciare non sempre basta. Chi ha deciso di uccidere per “vendicarsi” dell’affronto dell’abbandono trova sempre il modo di farlo. Lo trova anche se gli è stato fatto divieto di avvicinarsi.
Lo trova anche se è stato condannato a una pena detentiva per le violenze commesse. Non sostengo che le denunce e le pene non servano. Così come sono convinta che occorra dare più risorse ai centri anti-violenza, perché offrano consulenza competente e rifugio temporaneo a chi non sa dove andare o ha bisogno di nascondersi dal persecutore.
Tuttavia, proprio la trasversalità — per età, istruzione, ceto, professione, territorio — del fenomeno induce a pensare che occorre anche intervenire alla radice.
Occorre contrastare in modo sistematico e capillare, in tutti gli ambiti, modelli di genere maschile e femminile fondati su sopraffazione, disprezzo, possesso e negazione della libertà. Ma occorre anche promuovere una educazione sentimentale che renda capaci di resistere ad aspettative di tipo fusionale, in cui si è tutto l’uno per l’altra e viceversa, capaci di considerare normali le prese di distanza, la ricerca di spazi per sé, e di sopportare il cambiamento, le eventuali delusioni, la sofferenza della incomprensione e l’abbandono, la fine di un rapporto. L’amore non è la ricerca della propria metà. E l’obiettivo di fare, con l’amore, il sacrificio o la violenza, uno da due è non solo destinato a fallire, ma sbagliato, per sé e per l’altra/o. Per amare occorre essere capaci di autonomia e di riconoscersi come reciprocamente altri.
È un equilibrio che si impara lentamente e deve essere continuamente re-imparato, ma i cui rudimenti devono essere appresi fin da piccoli, nei rapporti genitori-figli, in quelli amicali e di coppia.
Vale per gli uomini come per le donne, naturalmente. Ma sono statisticamente più numerosi gli uomini che la mancanza di una educazione sentimentale lascia senza controllo sulle proprie emozioni e aggressività, fino all’omicidio.
Non tutti gli uomini che uccidono le donne con cui stanno o vorrebbero stare sono uguali nelle motivazioni di questo gesto estremo. Ma in tutti mi sembra ci sia una incapacità di stare al mondo senza avere uno specchio in cui riflettersi — come prepotenti che si realizzano solo nel potere che esercitano sulla donna che ha avuto la sfortuna di incontrarli o, all’opposto, come così incerti sulla propria identità da non riuscire a sopportare che questa possa essere messa in crisi dalla rottura del rapporto cui avevano affidato il compito di rappresentarla e darle continuità.
Questi ultimi sono quelli che, spesso, dopo avere ucciso si uccidono, credo non per paura di andare in prigione e neppure perché non reggono l’enormità di quello che hanno fatto, ma perché non sono (forse non sono mai stati veramente) capaci di vivere al di fuori di quella relazione-specchio. Incapaci di amare veramente. Al punto da non curarsi neppure del destino dei figli che abbandonano (quando non uccidono) non solo alla perdita di uno o entrambi i genitori, ma al tragico compito di doverne elaborare e sopportare il modo.
Chiara Saraceno, sociologa, si occupa di famiglia, disuguaglianze, povertà e welfare Tra i suoi ultimi libri “Mamme e papà” (il Mulino, 2016) e “L’equivoco della famiglia” (Laterza, 2017)
il manifesto 21.3.18
«Dateci i migranti o vi uccido». Ecco come la Libia fa i soccorsi
Di mare in peggio. L’Italia e l’Europa fingono di non vedere come lavora la Guardia costiera di Tripoli
di Marina Della Croce
Ci sono le mail che dimostrerebbero come a ordinare alla ong spagnola Open Arms di sbarcare a Pozzallo i migranti che aveva tratto in salvo sarebbe stata la Guardia costiera di Roma, che coordinava i soccorsi. Così come ci sono le registrazioni sempre tra il centro di controllo marittimo di Roma e la nave Open Arms che dimostrano la richiesta di intervenire in soccorso di un gommone in difficoltà in acque internazionali. E infine c’è un video, che definire eloquente è dir poco, che testimonia senza ombra di dubbio le minacce rivolte dall’equipaggio di una motovedetta libica ai volontari della Open Arms. «Si fatica a trovare un fondamento per la contestazione del reato di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina» ha spiegato ieri l’avvocato Gaetano Mario Pasqualino, uno dei legali che assistono la Proactiva Open Arms dal momento in cui la nave della ong, dopo essere approdata a Pozzallo, è stata posta sotto sequestro dalla procura di Catania che ha anche indagato il comandante, Marc Reig e la capomissione Anabel Montes. «Quello del sequestro della nave è forse il caso più inquietante dall’inizio delle operazioni di discredito contro le ong che compiono salvataggi in mare sopperendo alle carenze degli Stati», ha proseguito il legale.
Come operano, le pressioni e le continue minacce che i volontari impegnati nel Mediterraneo sono costretti a subire è ben documentato nel video fatto circolare dalla ong spagnola. Pochi minuti nei quali si vedono le lance della Open Arms con già a bordo le donne e i bambini avvicinate dalla motovedetta libica che pretende che gli vengano consegnati i migranti tratti in salvo. Momenti concitati durante i quali dall’imbarcazione di Tripoli vengono rivolte pesanti minacce ai volontari: «Avete tre minuti per darci i migranti o vi uccido», urla un militare. E ancora: «Avete trenta secondi o vi uccido». A bordo delle lance donne e bambini seguono quanto accade con sguardi pieni di paura mentre i volontari cercano di prendere tempo e si rifiutano di obbedire agli ordine della Guardia costiera di Tripoli.
E’ il modello libico di ricerca e soccorso dei migranti, quello che l’Italia e l’Europa preferiscono far finta di non vedere. Con in più il fatto, non secondario, che la Libia non possiede una propria area Sar (ricerca e salvataggio) né può considerarsi un porto sicuro dove trasferire in migranti tratti in salvo come impone invece il diritto internazionale. Come non ha mancato di sottolineare l’avvocato Pasqualino nel contestare le accuse mosse alla ong dalla procura di Catania. ««Una zona Sar libica non risulta negli atti ufficiali delle organizzazioni internazionali», ha spiegato il legale. Per quanto riguarda poi un’altra delle accuse rivolte dai magistrati siciliani alla Proactiva, ovvero quella di non aver fatto sbarcare i migranti a Malta, porto più vicino al punto dell’avvenuto soccorso, il legale per il legale sarebbero mancate le condizioni per farlo: «I maltesi dopo aver aiutato l’equipaggio della Open Arms nelle complicatissime operazioni di soccorso della bambina di appena tre mesi che versava in pericolo di vita, non avevano dichiarato la propria disponibilità né avevano ricevuto la richiesta della Spagna» ad aprire un proprio porto. Richiesta che in seguito è stata invece accettata dall’Italia.
La scorsa estate la procura di Catania ha reso nota di aver avviato una clamorosa inchiesta sulle ong attive nel Mediterraneo centrale ipotizzando presunti contatti tra i volontari che salvavano i migranti e i trafficanti di uomini. Inchiesta che finora però sembra di fatto essersi arenata. Adesso le nuove, pesantissime contestazioni alla ong spagnola.
Sulla vicenda della Open Arms il neo deputato di +Europa e segretario di Radicali italiani Riccardo Magi ha annunciato di voler presentare un’interrogazione parlamentare ai ministri degli Interni e degli Esteri nella prima seduta della Camera. Nel frattempo le accuse alla ong spagnola, e il sequestro di una delle sue navi, riduce al minimo il numero delle ong impegnate nei salvataggi. L’allarme arriva da Sos Mediterranee, ormai rimasta sola a operare nel Mediterraneo: «Dopo un inverno in mare, la Aquarius torna nelle acque internazionali. Sarà l’unica nave di una ong ancora nella zona. Compromettere le operazioni di soccorso – conclude la ong – equivale a mettere in pericolo le vite dei migranti».
Il Fatto 21.3.18
I Servizi e il satellite militare per inseguire Ong e scafisti
Intelligence e Difesa impegnati anche oltreconfine: “Così sappiamo che si parlano”
di Antonio Massari
L’inchiesta della Procura di Catania, che ha portato al sequestro della nave Oper Arms della Ong spagnola Proactiva e conta tre indagati, con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è solo un tassello d’un mosaico molto più complesso. C’è un ruolo delle nostre agenzie di sicurezza nelle altre inchieste delle Procure italiane sulle Ong: il Fatto è in grado di rivelare che attività d’intelligence e di polizia giudiziaria procedono congiuntamente da mesi. È grazie a un satellite nella disponibilità del ministero della Difesa – e delle nostre agenzie – che i poliziotti del Servizio centrale operativo e gli investigatori della Guardia di Finanza, stanno raccogliendo informazioni essenziali. Elementi che portano le Procure a ipotizzare contatti tra scafisti e Ong impegnate nei salvataggi. Semplificando, è come se il satellite fosse stato dato in “subappalto” ad ufficiali di polizia giudiziaria, per realizzare quel che non possono fare di persona: intercettare e filmare in territorio libico. Oppure, se vogliamo metterla diversamente, grazie alla tecnologia dei nostri Servizi, la polizia giudiziaria è in grado di ottenere informazioni che poi, attraverso indagini sul territorio italiano, fa confluire nei fascicoli d’inchiesta. Nei fatti, stiamo svolgendo un’attività d’indagine in un Paese straniero, con tutti i relativi dubbi sotto il profilo diplomatico e giuridico. Utilizzabile o meno, però, c’è una verità che, per quanto scomoda, ha trovato conferma proprio grazie a questi mezzi investigativi.
Filmati e intercettazioni dei telefoni satellitari, per quanto risulta al Fatto, hanno convinto gli inquirenti che tra Ong e scafisti si siano realizzati nel tempo contatti che realizzavano, nei fatti, un duplice effetto. Per le Ong – che erano in condizioni di conoscere in tempo reale la partenza dei barconi – s’è concretizzata la possibilità di effettuare salvataggi con il minimo rischio per i migranti. Per i trafficanti, invece, ha preso corpo la possibilità di vendere ai migranti una sorta di viaggio in sicurezza, con incremento dei guadagni e riduzione delle spese, poiché hanno smesso di investire su natanti e gasolio.
In più di un’occasione, infatti, i filmati satellitari avrebbero riscontrato che, agli assembramenti dei migranti sulla costa, pronti a imbarcarsi, corrispondevano precisi movimenti delle navi di alcune Ong. Un movimento sincronico che consentiva ai volontari di essere nel posto giusto al momento giusto. Un dato che – per quanto difficile sia documentare in un processo – ha convinto gli inquirenti della collaborazione – ai soli fini umanitari, per le Ong – tra volontari e scafisti.
In soccorso ai nostri investigatori è giunta una sofisticata tecnologia israeliana. Anch’essa in uso ai nostri Servizi segreti, consente di ricostruire, con un buon margine di approssimazione, gli spostamenti dei natanti anche quando spengono i loro trasponder. Dopo l’analisi effettuata, negli spostamenti in questione sono emerse altre coincidenze sospette che rafforzano l’ipotesi dei contatti tra scafisti e volontari. Nessuno ha però messo in discussione che l’intento delle Ong sia esclusivamente umanitario. Altrettanto sicuro, tuttavia, secondo gli inquirenti, è che questi contatti abbiano in qualche modo agevolato il business dei trafficanti. Se possa poi configurarsi, come sostiene per esempio la Procura di Catania, il reato di associazione per delinquere finalizzato al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è tutto da dimostrare.
Di certo, però, c’è anche un altro dato: l’investimento del nostro Stato e dei nostri servizi segreti in Libia è sempre più intenso. Fonti qualificate confermano al Fatto quel che i Servizi smentiscono da tempo: i maggiori trafficanti libici sono pagati per interrompere gli sbarchi. L’Italia sta ufficialmente provvedendo a implementare le capacità libiche nelle operazioni di soccorso in mare. Non solo con le navi che il governo ha donato al leader libico Fayez al Serraj. L’obiettivo: dotare le guardie costiere libiche – sono ben due, una del ministero della Difesa, l’altra degli Interni – di una sala operativa adeguata. Al momento, l’unica sala operativa in funzione è dotata d’un solo telefono satellitare, un paio di radio, un fax e qualche computer. Mancano radar – le acque vengono monitorate attraverso il sito online Marine Traffic – e controlli aerei. La Libia chiede ulteriori investimenti per bloccare il flusso di migranti dal Niger. E minaccia di far ripartire gli sbarchi se l’Italia non s’impegna ad alleggerire il tappo che sta creando in questi mesi. Un tappo che, come dimostra il report firmato dal presidente Onu, Antonio Gutierres, sta moltiplicando le violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti.
il manifesto 21.3.18
Xi Jinping avverte «Batteremo ogni spinta separatista»
Il discorso del presidente cinese. Il presidente, riconfermato alla guida, chiude le «due sessioni» con un discorso dai toni nazionalistici: «Sappiamo combattere»
di Simone Pieranni
C’è un momento per tratteggiare i contorni di un futuro da controllare, da puntellare con le proprie forze – mentali e fisiche – e c’è il momento nel quale è necessario invocare forze storiche per legittimare un passaggio politico.
XI JINPING durante lo scorso congresso del partito, il diciannovesimo svoltosi a ottobre, aveva parlato tre ore e mezza sciorinando numeri e prospettive economiche e di global governance. Al termine dell’assemblea nazionale, invece, ha usato parole di fuoco, in grado di riscaldare quella nazione cinese che Xi Jinping vuole riportare ai fasti della sua storia.
E PER COMMUOVERE I CUORI cinesi basta fare riferimento all’unità e alla sovranità territoriale. Quel «mai più» che echeggia in Cina è proprio riferito alle umiliazioni patite nel recente passato dal paese: un momento umiliante, con il territorio cinese innaffiato prima di oppio e poi scalzato e rigirato tra le mani di potenze occidentali o nemici vicinissimi, come il Giappone.
Quel «mai più» risuonava già nelle parole di Mao e non ha smesso di percuotere i discorsi dei leader cinesi: Deng Xiaoping, Jiang Zemin, Hu Jintao, perfino lui, il triste e grigio predecessore di Xi.
TUTTI I LEADER CINESI sanno bene come toccare le corde del patriottismo e del nazionalismo cinese.
Xi Jinping, poi sembra saperlo meglio di tutti, lui ha costruito gran parte della sua popolarità su questo. Così alla chiusura dell’Assemblea che ha ratificato nomine, nuovo governo, snellimento di ministeri e nuovi potenti organi disciplinari, Xi Jinping ha infiammato la Cina: «È aspirazione comune dei figli e delle figlie della nazione cinese tutelare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale realizzando la riunificazione completa alla madrepadria».
E poi: «Ogni azione per dividere la Cina è destinata a fallire e a fronteggiare la condanna della gente e la punizione della storia. Neanche un centimetro della nostra terra potrà essere e sarà ceduto. La Cina ha volontà e capacità per battere ogni spinta separatista».
QUI NON SI TRATTA solo di Taiwan o Hong Kong, attenzione: Xi Jinping sta parlando dei complessi contenziosi irrisolti nel mar Cinese meridionale e orientale.
«La Cina – ha specificato continuerà a partecipare attivamente nella riforma e ricostruzione del sistema di governance globale e promuoverà la sua saggezza, l’idea e il potere al mondo per promuovere la pace, la sicurezza universale e comune prosperità e l’apertura ad ampio raggio».
il manifesto 21.3.18
Affinità e divergenze tra Putin e Xi Jinping
Russia e Cina. Questi due modelli, ripiegamenti autoritari dovuti alla fase mondiale e appoggiati su caratteristiche storiche dei due paesi, non è detto che possano costituire sempre una sorta di «asse» perché inseriti in un mondo non più bipolare ma a blocchi costantemente in movimento
di Simone Pieranni
Quasi in contemporanea, Putin ha vinto le elezioni in Russia e Xi Jinping è stato confermato alla presidenza della Repubblica popolare cinese.
Due eventi tra i più telefonati della storia: scontati eppure diversi. Come differente è il percorso dei due leader, nonostante alcuni punti in comune. Ma più in generale è importante chiedersi: in che modo la loro relazione – definita in questi giorni da Xi Jinping «nel momento storico più alto» – finirà per influenzare il nostro futuro?
I noccioli della questione infatti sono i seguenti: Putin e Xi Jinping sono due leader che rappresentano una risposta all’odierna fase del capitalismo mondiale e vengono spesso rappresentati come parte di uno stesso «asse»: ma in che modo le due potenze collaboreranno o meno all’interno dello scacchiere mondiale in rapida evoluzione? Putin si è riconfermato alla guida della Russia per il probabile ultimo mandato al termine di un ventennio – intervallato dalla presidenza Medvedev, sua diretta emanazione – nel quale ha plasmato una nuova immagine internazionale di Mosca, determinata a riconquistare spazi in aree decisive del pianeta (come il Medio oriente) ma in un momento problematico dal punto di vista economico interno, a causa delle oscillazioni del petrolio e di una diseguaglianza che cresce in continuazione.
Xi Jinping, invece, ha iniziato il suo secondo mandato dopo aver ereditato un paese dalla crescita a doppia cifra, parzialmente depotenziata dalla crisi economica occidentale. Xi, inoltre, è salito al potere da «sconosciuto»: in tanti, poco prima della sua nomina a numero uno, si chiedevano che «animale politico» sarebbe stato.
Putin in questi anni dovrà organizzare la sua successione, concentrandosi, come ha specificato subito dopo il voto, sulla politica interna: significa che il paese dovrà concentrarsi sulle proprie sacche di povertà, mentre Putin dovrà sfogliare la margherita del suo successore (che al momento non si vede). Xi Jinping dal canto suo ha riportato il partito comunista al centro della vita politica nazionale (con una campagna anti corruzione nella cui rete sono finiti sicuramente nemici, ma che ha dato una nuova immagine positiva di un partito in crisi di fiducia con la popolazione), ha tolto di mezzo i potenziali successori (qualcuno è stato arrestato, altri sono stati piazzati in ruoli governativi minori) e se da un lato sta cercando di controllare il passaggio da un’economia trainata dalle esportazioni a una spinta dal mercato interno, nel suo immediato futuro sarà concentrato a porre il paese al «centro del mondo» dal punto di vista internazionale.
Due percorsi in «fasi» diverse, ma non privi di somiglianze: seppure – infatti – con sistemi politici differenti (per quanto conti, in Russia si vota ancora) le due potenze si assomigliano soprattutto nella gestione interna degli equilibri politici e perché la loro ritrovata «potenza» ha finito per squagliare quegli equilibri mondiali scossi dal mondo multipolare. Tanto Xi quanto Putin, per altro, hanno percorsi comuni all’interno dei propri paesi: di Putin si conosce il passato nel Kgb, nel cuore di quello che era il potere nell’Urss; Xi Jinping è un «principino», figlio di un padre della patria, da sempre avvezzo a frequentare il mondo della politica. Entrambi sono élite, ma si presentano come «persone del popolo» ed entrambi hanno rappresentato una risposta a una esigenza: Putin ha riportato la Russia ai fasti del passato, dopo aver salvato il paese dai lupi famelici del neoliberismo cui ha aperto la porta Eltsin.
Xi Jinping ha completato quel percorso che lo vede degno erede tanto di Mao quanto di Deng: oggi la Cina è forte all’esterno quanto all’interno. E veniamo alle potenziali fratture: innanzitutto potremmo dire che rispetto alla Russia Xi Jinping ha «vendicato» Mao. Al di là delle dichiarazioni di facciata e di chi ritiene pronto e cucinato un nuovo asse di contrasto al neoliberismo mondiale, come ha sottolineato la sinologa Alessandra Lavagnino su Agi, Xi è il primo leader cinese «a trattare con Putin dall’alto in basso» (mentre Mao soffrì moltissimo la relazione con il «fratello maggiore» russo): ai tempi della guerra in Ucraina, ad esempio, i due paesi strinsero un accordo trentennale sul gas, clamorosamente a favore della Cina.
E ancora: la Nuova via della seta disegnata da Xi e nuovo caposaldo cinese, nonché motivazione dell’esigenza di avere Xi al comando per parecchi anni ancora, va proprio a insistere su quello che la Russia considera «casa propria», ovvero l’Asia centrale. Per non parlare delle mire cinesi sull’Artico.
Questi due modelli, dunque, ripiegamenti autoritari dovuti alla fase mondiale e appoggiati su caratteristiche storiche dei due paesi, non è detto che possano costituire sempre una sorta di «asse» perché inseriti in un mondo non più bipolare ma a blocchi costantemente in movimento. Al momento a Mosca e Pechino conviene spingere sulla retorica della grande amicizia: in Siria la Cina ha accompagnato la Russia sulle risoluzioni Onu, così come in Ucraina, ma le visioni del mondo sono completamente differenti.
La Cina agisce da potenza di un mondo multipolare, evita lo scontro, preferisce «ferire» con le merci e chiudendo mercati (lo sanno bene a Bruxelles), Putin ha agito come potenza novecentesca, entrando in modo diretto all’interno dei conflitti contemporanei (suo malgrado, si può concedere questo a Mosca). Le due fasi che Putin e Xi Jinping stanno gestendo, dunque, potrebbero trovare fratture, ora come ora imprevedibili, proprio a livello internazionale.
Repubblica 21.3.18
I finanziamenti dalla Libia
Sarkozy e il fantasma di Gheddafi
di Bernardo Valli
Iprotagonisti della vicenda sono un dittatore morto ammazzato e un ex capo dello Stato scaduto a conferenziere, ma sempre sulla cresta della cronaca mondano- politica. Lui, Gheddafi, il fantasma, e Sarkozy, l’attore sopravvissuto, sono avvolti da un vortice di denaro. Una pioggia di milioni. È la storia di un illecito connubio tra i soldi del petrolio e la democrazia. I primi li elargiva il rais defunto, la seconda era rappresentata dall’ex presidente. Un abbraccio degradante, innaturale ma vantaggioso per entrambi. Gheddafi pagava la riabilitazione e gli onori annessi, Sarkozy otteneva il denaro necessario alla sua campagna elettorale.
La giustizia, partendo da una coraggiosa inchiesta giornalistica di Mediapart, un sito di informazione specializzato in inchieste politiche e giudiziarie, sta conducendo da cinque anni indagini su questo accoppiamento che raggiunge i vertici della corruzione. Non tanto per le somme in gioco, quanto per la sua natura. Ed è avendo acquisito indizi importanti — i denari in contanti e in nero distribuiti ai collaboratori di Sarkozy durante la campagna elettorale — che ha deciso di dichiarare in stato di fermo l’ex presidente, e di interrogarlo sulle origini di quel denaro, al fine di decidere se mandarlo davanti a un tribunale. Lui nega tutto. Nega di essere al corrente di quanto accadde nei mesi che precedettero il suo ingresso all’Eliseo. Lui era impegnato a conquistare la massima carica dello Stato. Non si occupava della sussistenza.
Nel caso di un rinvio a giudizio le imputazioni sarebbero le più gravi, in campo politico finanziario, formulate durante la Quinta Repubblica, che compie sessant’anni. Alcuni dicono che dai tempi del maresciallo Pétain, che tradì la Francia collaborando con l’invasore nazista, non accade nulla del genere. C’è un po’ di esagerazione in questo paragone storico, ma la notizia del fermo, e forse del processo, di un ex presidente della Repubblica accende le fantasie.
Tutto comincia quando Muhammar Gheddafi, a lungo considerato ispiratore del terrorismo anti- occidentale, diventa uno degli uomini più adulati da chi voleva distruggere ma che è attirato dai suoi petrodollari. Abdallah Senoussi, capo dei servizi segreti interni libici, era stato condannato nel 1999 dalla giustizia francese all’ergastolo come il principale organizzatore dell’attentato contro l’aereo di linea, un Dc- 10 dell’Uta ( 170 morti, dei quali 54 francesi nel 1989), eppure egli è ricomparso molto presto come intermediario tra Parigi e Tripoli. Collaborerà ai rapporti che culmineranno con la visita di Gheddafi sulle rive della Senna. Dove monta la sua tenda beduina, come ha fatto del resto a Roma, dove Silvio Berlusconi, pure lui affascinato dai petrodollari, arriverà a organizzare in suo onore qualcosa di simile a un concorso di bellezza. Una lotteria di ragazze.
A stabilire il commercio canagliesco tra Tripoli e le capitali europee, naturale all’epoca in cui pochi resistono al fascino dei petrodollari e dei rais che li posseggono ed elargiscono, è il franco- libanese, Ziad Takieddine. È lui, grande mediatore, che mette in contatto Parigi e Tripoli. E sarà poi sempre lui, Takieddine, a raccontare davanti alle telecamere delle valigie gonfie di denaro che partivano dalla Libia dirette sulle rive della Senna. Ma le sue non erano denunce dettate dal pentimento, né dal desiderio di collaborare con la giustizia. Lo animava la voglia di vendetta per gli sgarbi subiti. E non fu creduto. Le sue testimonianze richiedevano conferme. Si è cercato invano per anni un collegamento tra il traffico di denaro e il finanziamento della campagna elettorale di Sarkozy. Fino al momento in cui il personale che vi aveva lavorato ha cominciato a dichiarare di avere ricevuto denaro in contanti, che non risultava nelle contabilità ufficiali. Ma Nicolas Sarkozy ha continuato a negare tutto. Lui non si interessava ai particolari. I giudici vogliono trasformare gli indizi in prove.
La guerra civile, all’inizio tra la Tripolitania e la Cirenaica, è iniziata dopo la rottura tra la Francia di Sarkozy e la Libia di Gheddafi. Sarkozy, colto all’improvviso da scrupoli umanitari e democratici, mise la sua aviazione al servizio dei ribelli della Cirenaica. Al suo fianco gli inglesi. Vista a distanza la decisione del presidente francese appare come un tentativo non solo di appoggiare i ribelli in lotta contro il dittatore, ma anche come l’intenzione di eliminarlo, in quanto suo finanziatore, quindi imbarazzante per il presidente di un Paese democratico come la Francia. Ero a Bengasi la sera del primo bombardamento anglo- francese. I carri armati di Gheddafi avanzavano appoggiati dall’aviazione e gli abitanti di Bengasi lasciarono in massa la città, convinti che i soldati arrivati dalla Tripolitania li avrebbero puniti per essersi ribellati al rais. Per sfuggire alla temuta repressione si rifugiarono nel deserto. Io con loro. Soltanto la mattina seguente scoprimmo che i carri armati di Gheddafi erano stati distrutti dall’aviazione anglo- francese proprio alle porte della città. Gheddafi si rifugiò a Sirte, ed è fuggendo da quella città che fu raggiunto dagli aerei francesi. Qualcuno, a terra, l’ha ucciso. Così non ha potuto testimoniare.
il manifesto 21.3.18
I due anni che sconvolsero Facebook e il suo mondo
Le vite degli altri. Dopo lo scandalo Cambridge Analytica, a Wall Street l’azienda è calata del 6,8% e ha perso 36 miliardi del suo valore, nove in 48 ore. I garanti per la privacy inglese, europeo e italiano preoccupati: «A rischio le elezioni europee del 2019». Regno Unito, sospetti di manipolazione anche sulla Brexit. A Zuckerberg è stato chiesto di essere ascoltato in una commissione parlamentare. Così ha fatto anche il parlamento europeo. La crisi è iniziata con le elezioni presidenziali Usa. Ecco la storia
di Roberto Ciccarelli
Il mito della crescita infinita di Facebook e il dogma religioso che lo considera una piattaforma aperta e neutrale sono un ricordo. Il caso Cambridge Analytica – la società accusata di aver sottratto i dati di milioni di profili Facebook per manipolare e influenzare i processi elettorali in tutto il mondo – è esploso al culmine dei due anni che hanno sconvolto uno dei campioni del capitalismo delle piattaforme. Ieri la creatura di Mark Zuckerberg ha perso il 6,8% a Wall Street e ha affondato gli altri social media: Twitter ha perso 9,68%, Snapchat 3,6%. Facebook ha bruciato 5 miliardi di dollari di capitalizzazione. A Zuckerberg poteva andare peggio. Dall’inizio del 2018 ha venduto 5 milioni di azioni della società e ha evitato un danno potenziale da 855 milioni di dollari. Alex Stamos, capo della sicurezza dei dati, lascerà Facebook. Lui ha precisato che lo farà a agosto.
LA CRISI della piattaforma – un colpo di genio che non produce contenuti che non siano la nostra forza lavoro digitale, affettivo, relazionale e cooperativa- è emersa con le elezioni presidenziali americane. Nel settembre 2017 Facebook ha riconosciuto che un gruppo russo ha pagato 100 mila dollari per 3 mila annunci «micro-targettizzati» a elettori americani. Nell’ottobre 2017 il ricercatore Jonathan Albright ha detto che sei account russi sono stati condivisi 340 milioni di volte.
L’USO DI FACEBOOK come «cavallo di troia» della pubblicità elettorale occulta è stato confermato dal caso Cambridge Analytica che porterà di nuovo Zuckerberg a rispondere davanti a una commissione del Senato americano. E, visto che la società londinese, ha operato nelle otto settimane di campagna per il referendum sulla «Brexit», anche gli inglesi (lato conservatore) vogliono sentire «Zucki». Ieri il presidente della commissione parlamentare per i media, Damian Collins, lo ha invitato a presentarsi perché – l’accusa è grave – «gli altri funzionari dell’azienda sono stati fuorvianti per la commissione». Elisabeth Denham, Garante britannico per l’informazione, ha chiesto un mandato di perquisizione per i server di Cambridge Analytica.
IL GARANTE Ue per la privacy, Giovanni Buttarelli, ha lanciato l’allarme: «le elezioni europee del maggio 2019 potrebbero essere il prossimo obiettivo di manipolazione elettorale attraverso l’uso degli algoritmi: il “modello” di Facebook è globale». Parere condiviso dal garante italiano alla privacy Antonello Soro che parla di «un processo ineluttabile», «questi soggetti sono in grado di consigliarci sia il prodotto da comprare sia il partito da votare». «Se confermato – ha detto la commissaria europea alla giustizia Vera Jourova – il cattivo uso per fini politici di dati personali è inaccettabile e orripilante».
L’UNIVERSITÀ DI CAMBRIDGE sta studiando le attività di Aleksandr Kogan, l’accademico coinvolto nello scandalo, colui che ha ceduto i dati a Cambridge Analytica dopo averli ottenuti e rielaborati da una platea di 270 mila persone reclutate su marketplace online. L’università ha chiesto a Facebook di fornire «tutte le prove rilevanti» su Kogan in relazione al suo coinvolgimento. Kogan è stato sospeso da Facebook, ma non dal suo ruolo a Cambridge. La conoscenza di questi aspetti è rilevante per stabilire in quale misura c’è stata una violazione dei dati e quanto invece riguardi l’attività di compravendita e uso politico a beneficio di Trump. Nell’inchiesta «coperta» su Channel 4, l’appena dimissionato Alexander Nix (ex Ceo di Cambridge Analytica) ha detto di avere avuto una stretta collaborazione con Trump e che la sua azienda era fondamentale per il successo della sua campagna. Tutto questo è avvenuto alle spalle di Facebook.
«SIAMO INDIGNATI, ci hanno ingannato» si è letto ieri in una nota dell’azienda. Ciò che fa «scandalo» è la sua incapacità di controllare l’uso degli utenti da parte di terzi. Una volta che i dati lasciano i server, Facebook non può, o non vuole, intervenire. Questa fatale incertezza è il vero problema di Zuckerberg
Corriere 21.3.18
Sanno tutto delle nostre vite Adesso tocca anche a noi aprire gli occhi
di Beppe Severgnini
Siamo ingenui, incoscienti, impotenti o incapaci? Probabilmente, tutt’e quattro le cose. Non si spiega, altrimenti, quello che abbiamo lasciato fare ai giganti del web: prendere i nostri dati, guadagnarci una montagna di soldi, cederli a chi li paga. O farseli soffiare dagli stregoni della politica, com’è accaduto a Facebook.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: basta aprirli. La conoscenza dei nostri comportamenti privati — anzi, intimi — non permette soltanto di suggerirci prodotti, servizi e notizie gradite. Consente anche di confonderci, spaventarci, aizzarci, condizionare il nostro voto e cambiare l’esito delle elezioni. Lo ha capito Cambridge Analytica, lo hanno capito i gestori di Donald Trump, lo ha capito qualcuno in Russia. Lo ha capito il Congresso Usa, per fortuna. Non lo abbiamo capito noi, cittadini delle democrazie. Oppure fingiamo di non capirlo, ed è peggio.
Credo che Zuckerberg & Co abbiano partorito una forza di cui hanno perso il controllo. Un colosso che possiede un fascino indiscutibile, e una sua evidente utilità. Peccato che, durante la marcia, rischi di schiacciarci. In poco tempo Facebook è passato dalla rimozione del problema («Siamo una tech company!») all’ammissione di responsabilità. («Dobbiamo creare una comunità globale che vada bene per tutti»). Troppo tardi: il genio era uscito dalla bottiglia.
E chi ha tolto il tappo? Noi.
Siamo noi che clicchiamo «Accetta» senza leggere le condizioni, ad ogni aggiornamento di un’applicazione. Siamo noi che, in cambio di comodità, offriamo la nostra intimità. Siamo noi che fingiamo di non capire questo: chi offre la pubblicità mirata di un prodotto (dopo il test di gravidanza, ecco le offerte di culle e passeggini), può proporre anche propaganda o diffamazione, con precisione chirurgica. Qualcuno dirà: qual è il problema? Il problema è che, in questo modo, la democrazia affonda.
Certo: per due secoli, l’establishment occidentale ha usato i mezzi di comunicazione a proprio vantaggio. I padroni del vapore britannici, dopo la Prima Rivoluzione Industriale, controllavano i giornali; i banchieri e gli industriali americani, dopo la Seconda Rivoluzione Industriale, pesavano prima sulla radio e poi sulla televisione. Questa è la Terza Rivoluzione Industriale, basata sul digitale. Con una differenza: nel XIX e nel XX secolo l’editore di un giornale di Londra, o il proprietario di una televisione di New York, avevano nomi e facce.
Ora non più. Le società che possiedono i nostri dati sanno quasi tutto della nostra esistenza; e noi sappiamo poco del modo in cui agiscono. Non sono tutti uguali, i nuovi padroni. C’è chi più distratto, come Facebook; e chi più attento, come Amazon. C’è chi è più esteso, come Google o Apple; e chi è più specializzato, come Uber o Skype. Ma tutti hanno a disposizione una mole di dati con cui possono agevolarci o distruggerci, se volessero. Ma non vogliono!, dirà qualcuno. E noi dobbiamo rispondere: la nostra vita e le nostre democrazie possono dipendere dalla buona volontà di uno sconosciuto consiglio di amministrazione?
Il Fatto 21.3.18
L’ora più buia di Facebook: a picco pure la reputazione
Alla fiera della privacy - Il social travolto dallo scandalo di Cambridge Analytica ri-crolla in Borsa. Emergono le falle nella protezione degli utenti, ora in rivolta
di Virginia Della Sala
La sola elencazione di tutto ciò che sta accadendo in queste ore basta a tracciare il quadro della situazione. Lato Facebook: l’azienda perde il 9,7 per cento in Borsa (ha bruciato 9 miliardi di dollari in due sedute) il posto di Alex Stamos, responsabile per la sicurezza di Menlo Park, sembra sia prossimo a saltare, si è parlato del rischio che se ne vada anche la direttrice generale Sheryl Sandberg e per venerdì è stato annunciato un incontro con tutti i dipendenti ma sembra che il fondatore Mark Zickerberg non ci sarà. Ricordiamolo: Facebook è accusato di aver permesso a una società esterna – che aveva sviluppato una app autorizzata dal social – di cedere illecitamente ad altri molti dati raccolti. Ma soprattutto, di averlo saputo da un paio di anni e di averlo taciuto.
Lato Cambridge Analytica: è la società accusata di aver effettuato micro dossieraggi, psicologici ed emotivi, sugli utenti per cucirgli addosso la propaganda politica. Ieri ha sospeso l’ad Alexander Nix: un’inchiesta dell’emittente britannica Channel 4 aveva mostrato Nix proporre operazioni sporche per vincere le elezioni a quello che credeva essere un potenziale cliente, dalla diffusione di notizie false sul web a trappole per screditare i politici con ragazze compiacenti. Ieri sera, poi, è venuto fuori che in una delle conversazioni Nix avrebbe affermato di aver incontrato molte volte Trump e di aver ammesso “Lo abbiamo fatto vincere noi”.
Cambridge Analytica, infatti, si è direttamente occupata della campagna elettorale del presidente Usa, essendo strettamente legata e pagata dagli ambienti repubblicani. Quello che sarebbe venuto fuori in più rispetto alla sola targetizzazione di 50 milioni di utenti (dati stimati dal WsJ e dal Guardian nell’inchiesta che ha dato origine a tutto): Nix avrebbe ammesso di aver inserito nel circuito contenuti “non attribuibili e impossibili da tracciare”. Negli Stati Uniti l’Autorità in tutela dei consumatori ha aperto un’inchiesta e in Gran Bretagna la commissione Cultura, Media e Digitale della Camera ha convocato Mark Zuckerberg, invitato anche dal presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani.
Lato vigilanza.E mentre sui social network montava la protesta a colpi di hashtag contro Facebook, ieri il garante Ue per la privacy, Giovanni Buttarelli, ha presentato il rapporto annuale sulla privacy. Una delle vulnerabilità segnalate, la pratica della micro profilazione a scopi politici. Tra i riferimenti contenuti nel rapporto c’era infatti un’interessante ricerca del sito ProPublica che ha raccontato sia come gli utenti siano catalogati da Facebook in base ai loro interessi (con una app sono riusciti a identificare almeno 52 mila categorie, che includono definizioni come “Ama scrivere in luoghi strani” oppure “Allattamento al seno”) ma anche in base a dati che Facebook acquista da aziende terze, i cosiddetti broker di dati (chi scrive ha analizzato la pagina “Le tue preferenze relative alle inserzioni” e ha scoperto tutte le categorie a cui Facebook crede di poter legare i suoi gusti: molte sono decisamente distanti dalla verità).
Lato Italia. Se Buttarelli ha lanciato l’allarme per le prossime elezioni europee e ha ammesso che non c’è al momento evidenza di ingerenze modello Usa nelle elezioni italiane del 4 marzo, ieri si è risvegliata l’Agcom nel suo recente ruolo di sceriffo del web (assunto l’anno scorso per difendere gli italiani dalle fake news). Ha sostenuto di aver chiesto a Facebook informazioni sulla gestione dei servizi durante la campagna elettorale “con particolare attenzione alla ‘parità d’accesso’”. Poi il numero di messaggi pubblicitari a carattere politico, degli inserzionisti, delle visualizzazioni, la lista dei soggetti politici coinvolti, quelli che hanno pubblicato contenuti. Il punto, però, ora è uno: il web può essere regolato alla stregua della tv?
Corriere 21.3.18
I profili social venduti da Fb senza permesso
di Martina Pennisi, Davide Casati
1. Cos’è successo, esattamente?
Due giornali, Observer e New York Times , hanno rivelato che una società di consulenza politica di Londra, Cambridge Analytica (CA), ha usato senza autorizzazione un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook. Quella società ha effettuato una meticolosa profilazione di 50 milioni di statunitensi e ha venduto i dati ai suoi clienti. Non si è tecnicamente trattato di spionaggio: CA ha acquistato i dati da un’app, Thisisyourdigitallife , cui gli utenti li avevano ceduti per poter accedere. Il punto è che le condizioni di servizio di Facebook vieterebbero la compravendita di quei dati tra app e società di consulenza. Secondo la «talpa» dei due quotidiani, Facebook sapeva di questo uso improprio da almeno due anni, ma non avrebbe fatto nulla.
2. Ma che c’entra Trump?
Robert Mercer, il più importante dei donatori di Trump, versò 15 milioni a Cambridge Analytica perché desse vita a uno strumento di profilazione degli elettori. Stephen Bannon — ex consigliere di Trump alla Casa Bianca — era stato vicepresidente di CA; e proprio CA fu assoldata dalla campagna elettorale del tycoon (guidata da Bannon). Le dimensioni della profilazione, e dell’utilizzo fatto dal team di Trump, non sono al momento note. Secondo l’ Observer , CA è stata al centro anche della campagna per far uscire la Gran Bretagna dall’Ue.
3. Perché Facebook è crollata in Borsa?
Facebook è la piattaforma che ha reso possibile la raccolta dei dati. Dei 270 mila che hanno scaricato l’app Thisisyourdigitallife e hanno usato le loro credenziali del social network per usarla. E dei loro 50 milioni di amici, che essendosi iscritti a Facebook prima del 2014 hanno accettato che i loro dati potessero venire pescati da app terze. Non però che potessero essere venduti, come è accaduto. Facebook sapeva, ma non è intervenuto. Perché? Chi dovrebbe rispondere è l’ad Mark Zuckerberg. Ma tace, mentre in dubbio ci sono il caposaldo del suo business e la fiducia degli utenti, e personaggi di livello inferiore nell’organigramma, come il capo della sicurezza Alex Stamos, cancellano tweet e cambiano ruolo in azienda. I miliardi di capitalizzazione bruciati in poche ore sono ormai l’ultimo dei problemi.
I profili social venduti da Fb senza permesso
Martina Pennisi ,Davide Casati
1. Cos’è successo, esattamente?
Due giornali, Observer e New York Times , hanno rivelato che una società di consulenza politica di Londra, Cambridge Analytica (CA), ha usato senza autorizzazione un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook. Quella società ha effettuato una meticolosa profilazione di 50 milioni di statunitensi e ha venduto i dati ai suoi clienti. Non si è tecnicamente trattato di spionaggio: CA ha acquistato i dati da un’app, Thisisyourdigitallife , cui gli utenti li avevano ceduti per poter accedere. Il punto è che le condizioni di servizio di Facebook vieterebbero la compravendita di quei dati tra app e società di consulenza. Secondo la «talpa» dei due quotidiani, Facebook sapeva di questo uso improprio da almeno due anni, ma non avrebbe fatto nulla.
2. Ma che c’entra Trump?
Robert Mercer, il più importante dei donatori di Trump, versò 15 milioni a Cambridge Analytica perché desse vita a uno strumento di profilazione degli elettori. Stephen Bannon — ex consigliere di Trump alla Casa Bianca — era stato vicepresidente di CA; e proprio CA fu assoldata dalla campagna elettorale del tycoon (guidata da Bannon). Le dimensioni della profilazione, e dell’utilizzo fatto dal team di Trump, non sono al momento note. Secondo l’ Observer , CA è stata al centro anche della campagna per far uscire la Gran Bretagna dall’Ue.
3. Perché Facebook è crollata in Borsa?
Facebook è la piattaforma che ha reso possibile la raccolta dei dati. Dei 270 mila che hanno scaricato l’app Thisisyourdigitallife e hanno usato le loro credenziali del social network per usarla. E dei loro 50 milioni di amici, che essendosi iscritti a Facebook prima del 2014 hanno accettato che i loro dati potessero venire pescati da app terze. Non però che potessero essere venduti, come è accaduto. Facebook sapeva, ma non è intervenuto. Perché? Chi dovrebbe rispondere è l’ad Mark Zuckerberg. Ma tace, mentre in dubbio ci sono il caposaldo del suo business e la fiducia degli utenti, e personaggi di livello inferiore nell’organigramma, come il capo della sicurezza Alex Stamos, cancellano tweet e cambiano ruolo in azienda. I miliardi di capitalizzazione bruciati in poche ore sono ormai l’ultimo dei problemi.
La Stampa TuttoScienze 21.3.18
Le teorie di Stephen e gli esperimenti di Kip a caccia del Tutto
Il futuro di una sfida iniziata nel 1970 a Cambridge
di Attilio Ferrari
L’Institute of Astronomy, una tranquilla, accogliente costruzione nella campagna a pochi chilometri dal centro di Cambridge, un edificio su un solo piano, di facile accesso. Spesso negli anni 1970 vi giungeva una macchinetta a tre ruote. Accorrevano professori e ricercatori che aiutavano Stephen Hawking a scendere e a sistemarsi sulla sedia a rotelle, che poi guidava nel suo studio. Era appena stato pubblicato il suo libro «The Large Scale Structure of Spacetime», scritto con George Ellis. In quegli anni Hawking, nonostante le difficili condizioni di salute, era l’anima della ricerca internazionale che stava affrontando in modo originale lo studio della Relatività generale, formulata da Einstein 50 anni prima, ma rimasta dormiente in attesa di fenomeni su cui sperimentarla.
Nel 1960 l’astrofisica aveva mostrato che l’evoluzione finale delle stelle doveva portare alla formazione di oggetti densi ad opera della forza gravitazionale che, non più controbilanciata da reazioni termonucleari, ne doveva produrre il collasso: stelle di massa vicina a quella del Sole avrebbero dato origine a stelle di neutroni, una sorta di nucleo atomico di dimensioni di alcuni chilometri con dentro tutta quella massa. E nel 1968 al Cavendish Laboratory, a pochi passi dall’Institute of Astronomy, Jocelyn Bell e Antony Hewish avevano scoperto le pulsar, stelle di neutroni magnetizzate e rotanti. Era quindi concepibile che stelle con masse molte volte quella del Sole generassero campi gravitazionali così intensi da non permettere di arrestare il collasso: dovevano invece portare alla formazione di buchi neri, abissi senza fine, in cui tutto viene inghiottito e nulla può più uscirne. L’astrofisico John Wheeler dell’Università di Princeton li aveva battezzati con quel nome per indicare che non potevano emettere alcuna informazione. Uno degli studenti di Wheeler era Kip Thorne, a cui fu affidata una tesi sul collasso di stelle verso la configurazione di buco nero. Kip visitò Stephen a Cambridge e tra loro iniziò un lungo dibattito e una profonda amicizia, con incontri a Cambridge e al Caltech di Pasadena. Insieme iniziarono a cercare di comprendere come «vedere i segni» dei buchi neri.
Stephen era essenzialmente un fisico matematico che cercava nelle equazioni di Einstein fenomeni nuovi, forse irraggiungibili: i buchi neri, i tunnel gravitazionali e la cosmologia del Big Bang. Uno dei più interessanti risultati che ottenne negli anni 1970 fu che i buchi neri non sono in realtà così neri, hanno una temperatura e quindi possono «evaporare», ritrasmettendo energia all’esterno, diminuendo la propria massa fino a scomparire in un lampo finale.
Kip era un astrofisico interessato a cercare i segni di fenomeni esotici che suggeriscono la presenza di buchi neri. Giunse a proporre che, sebbene la materia nel buco nero sia invisibile all’osservazione, tuttavia prima di essere inghiottita verrà compressa e riscaldata. Nel 1970 Riccardo Giacconi con l’osservatorio «Uhuru» aveva scoperto una sorgente di raggi X nella costellazione del Cigno, le cui caratteristiche indicavano una massa superiore a quella compatibile con una stella di neutroni: forse proprio un buco nero. Stephen e Kip fecero quindi una scommessa. Pur convinto all’80% dell’esistenza dei buchi neri che così accanitamente aveva studiato, Stephen volle scommettere (per scaramanzia?) che la sorgente non fosse un buco nero, mentre Kip era convinto al 100% che si trattasse di un buco nero. Solo nel 1990 nuovi dati convinsero Stephen: pagò a Kip un abbonamento a «Penthouse». «Ho perso - disse - ma ho la prova che il mio lavoro non è stato sprecato».
Uno degli obiettivi di Stephen era l’unificazione della teoria quantistica e della Relatività. All’interno di un buco nero, in fondo all’abisso, la gravità diventa infinita, si incontra una singolarità, dove la Relatività è inadeguata e deve essere riscritta, tenendo conto della meccanica quantistica. Ma non possiamo sperimentare laggiù le regole della gravità quantistica, perché non possiamo avere segnali dall’interno del buco nero.
Tuttavia, secondo Hawking, già avvicinandosi all’orizzonte degli eventi possono avvenire fenomeni interessanti: fluttuazioni quantistiche del «vuoto», che non è mai veramente vuoto. Si realizzano in coppie di materia e antimateria, particella-antiparticella. Una cade nel buco nero, l’altra sfugge portando via energia: è l’origine dell’evaporazione dei buchi neri da lui proposta nel 1974. La produzione e annichilazione di materia-antimateria è caotica e trasforma l’orizzonte in una sfera di fuoco, un «fireball», con una struttura a due pareti, una interna che corrisponde all’orizzonte della Relatività e una esterna di scala determinata dalla teoria quantistica.
Ed ecco che torna in gioco l’amico Kip che nel 2015 ha guidato l’esperimento «Ligo» di rivelazione delle onde gravitazionali emesse dalla fusione di due buchi neri. Le teorie di Stephen saranno infine messe alla prova sperimentale e, forse, si giungerà all’unificazione Relatività-quantistica, quella su cui i due sognavano nei prati dell’Institute of Astronomy.