Corriere 20.3.18
La banalità di Robespierre
È stato decisamente sopravvalutato dagli esaltatori come dai detrattori
La
biografia di Jean-Clément Martin edita da Salerno riporta alle giuste
proporzioni la figura del più noto leader giacobino. Venne usato come
capro espiatorio da coloro che lo eliminarono ma erano stati a lungo
suoi complici nel Terrore
di Paolo Mieli
Cinque
anni fa, nel 2013, in Francia si pensò di ricostruire la testa di
Robespierre come era davvero. Ma, quando il lavoro fu ultimato,
all’autore della «maschera» fu mosso il rimprovero di aver raffigurato
l’«incorruttibile» con «uno sguardo arcigno», una «carnagione butterata»
e un «cranio eccessivamente grande». Con l’intenzione appena
dissimulata, secondo gli accusatori, di «disprezzare la Rivoluzione»,
non solo quella del 1789, «ma anche tutte le altre, trascorse e a
venire». Un «episodio ai limiti del grottesco» lo definisce Jean-Clément
Martin in Robespierre , che la Salerno si accinge a pubblicare
nell’eccellente traduzione di Alessandra Manzi. Del resto è più di un
secolo che la città natale di Robespierre ha annunciato la costruzione
di un museo dedicato al principale artefice della Rivoluzione francese.
Museo di cui, però, la prudenza per decenni ha suggerito il perenne
rinvio. Persino della posa della prima pietra.
Sembra che, almeno
per quel che riguarda Robespierre, «la Rivoluzione non sia ancora
terminata». Non si capisce perché, si interroga Martin, si possa
tranquillamente discutere «della violenza di Marat, della venalità di
Danton o della frivolezza della regina Maria Antonietta», ma, non appena
si chiama in causa Robespierre, «subito la sensibilità nazionale viene
scossa». I suoi ammiratori non sono nemmeno disponibili ad ammettere che
avesse la pelle rovinata. Nel contempo, sulle sue spalle viene
addossato — dai detrattori — il pesantissimo fardello dell’intera
stagione del Terrore. Tutto ciò è stato frutto dell’astuzia di Bertrand
Barère de Vieuzac e di Jean-Lambert Tallien, i quali, dopo averlo
fiancheggiato e spesso scavalcato nei giorni più sanguinosi, ordirono
poi contro di lui la cospirazione del Termidoro (luglio) 1794, e lo
mandarono a morte assieme ad altri 71 «robespierristi». Furono Barère e
Tallien ad annunciare che il Paese — in quel momento e per merito loro —
si era sbarazzato del «tiranno» e poteva finalmente uscire dalla
dittatura. A Barère, a Tallien e ai loro sodali è «brillantemente
riuscito», scrive Martin, «il gioco di prestigio di far dimenticare le
loro specifiche responsabilità nel Terrore, nonché gli stretti rapporti
che avevano avuto a lungo con lo stesso Robespierre».
Tali
circostanze colpirono già nel 1824 i fratelli Michaud, che diedero alle
stampe la Biographie universelle , un’opera decisamente ostile alla
Rivoluzione, in cui si spiegava però come non si dovesse cedere alla
tentazione di immaginare che Robespierre fosse stato «l’autore di tutti i
crimini» addebitatigli. Molte di tali nefandezze Robespierre le aveva
condivise con alcuni di quelli che «dopo aver contribuito a rovesciarlo,
si sono presentati, ancora imbrattati del sangue delle sue spoglie,
come i difensori della giustizia e dell’umanità». La verità,
riconoscevano già due secoli fa i fratelli Michaud, è che — «similmente a
quegli animali impuri che alcuni popoli dell’antichità caricavano delle
nequizie di una nazione intera» — Robespierre è stato ingiustamente
ritenuto, dopo la sua decapitazione, responsabile non soltanto dei
crimini perpetrati con la correità dei componenti del Comitato di salute
pubblica, ma «persino di quelli commessi dai suoi nemici». Tutto questo
Martin lo ha ben chiaro. Il comandamento a cui ha deciso di obbedire è
stato, di conseguenza, quello di sottrarsi alla disputa tra ammiratori e
denigratori del rivoluzionario francese. E di esaudire la richiesta che
fu di Marc Bloch: «Robespierristi, anti-robespierristi vi supplico con
umiltà, limitatevi a dirci chi fu Robespierre!».
Per riuscire così
a rispondere ad una fondamentale e ineludibile domanda: come è mai
possibile che un uomo la cui esistenza si riduceva a pochissimo, che
«visse senza denaro», che «non disponeva di relazioni importanti», che
«mai ottenne poteri eccezionali», sia riuscito a conquistare un ruolo
tanto cruciale. Il fine è quello di comprendere «come e perché gli
elementi della sua breve vita abbiano potuto favorire la costruzione di
quella mostruosa impalcatura che lo ha seppellito e al tempo stesso reso
immortale». Cosa che, fa notare Martin «non ha invece avuto luogo per
nessun altro dei suoi contemporanei, neppure per quelli che gli furono
vicini, fossero amici o avversari».
Il saggio è molto accurato e
ricco di notazioni intelligenti nel descrivere la «carriera
rivoluzionaria» di Robespierre. Ma di ancor maggiore interesse è la
parte del libro che prende in esame la fase iniziale della sua vita. Non
ha alcun senso — scrive l’autore — far risalire il suo carattere
all’infanzia e giovinezza. È sbagliato fissarsi, come Max Gallo, sulla
«solitudine» infantile del rivoluzionario. È vero: Maximilien
Robespierre nacque a metà Settecento (1758) da un matrimonio
contrastato; fu orfano di madre a sei anni e poco dopo venne abbandonato
dal padre; rimase solo e poi fu un povero studente a pensione,
rinchiuso in un collegio di Parigi; quindi fu «un avvocato che
vivacchiava in una provincia poco accogliente». Ma, fa notare Martin,
anche Napoleone Bonaparte fu orfano di padre, anche Georges Danton e
Jean-Jacques Rousseau ebbero un’infanzia travagliata, anche il padre
dello stesso Rousseau e quello di Jean-Paul Marat si dileguarono quando i
loro figli erano ancora piccoli. E va ricordato che all’epoca almeno un
bambino su dieci perdeva il padre o la madre nei primi dieci anni di
vita. Capitò a Jacques-René Hébert, a Jérome Pétion. Joseph Fouché il
padre lo perse a dodici anni.
La Chiesa fu, in compenso, generosa
con lui. Robespierre studiò nel collegio religioso di Arras grazie ad
una borsa di studio dell’abbazia di Saint-Vaast assegnata direttamente
dal vescovo riformatore monsignor de Conzié. Soldi per la sua formazione
ottenuti per i buoni uffici di due sue zie. La leggenda vuole che, in
virtù dei suoi successi scolastici, sia stato scelto nel 1775 per
pronunciare, in nome del collegio in cui studiava, un omaggio al giovane
Luigi XVI. Ci sono dipinti che lo raffigurano inginocchiato sotto la
pioggia ai piedi della carrozza del re. Ma si tratta appunto di una voce
tramandata. Il suo più recente biografo, Hervé Leuwers, non ha trovato
tracce archivistiche che garantiscano l’autenticità dell’aneddoto. Nel
marzo del 1782, a 24 anni, Robespierre fu nominato giudice della corte
vescovile di Arras. Precoce: il che «attesta una volta di più che egli
poteva contare sulla protezione del vescovo e su una potente rete
familiare», scrive Martin. E non fu affatto un «avvocato senza cause e
senza successo» come più volte è stato scritto. Tra il 1782 e il 1789
patrocinò in media dai 12 ai 24 procedimenti (uno o due al mese) davanti
al Consiglio d’Artois, intervenendo in una ventina di udienze l’anno. A
queste, scrive Martin, vanno aggiunte «alcune cause patrocinate presso
altre giurisdizioni locali e le funzioni esercitate con l’incarico di
giudice della Camera episcopale, che lo portarono ad inviare al patibolo
un assassino». Esperienza che lo avrebbe «segnato profondamente».
La
ricostruzione di Martin è molto scrupolosa. Si scopre che Robespierre,
divenuto negli anni che precedettero la Rivoluzione direttore
dell’accademia di Arras, era assai meno «irrequieto» di un Marat o di un
Brissot «uniti nella denuncia dei pregiudizi nel rifiuto dei salotti,
nella contestazione delle gerarchie». Che lui, a differenza di molti
altri futuri rivoluzionari, frequentava i salotti e «piaceva in
società». Che non fu mai affiliato alla massoneria. Che era «un cantante
scadente ma un discreto ballerino». Che scrisse versi ritenuti da Henri
Guillemin di «nullità poetica, ma di buona fattura». Era insomma «un
giovane uomo alla moda». Lo studioso affronta poi il tema, più volte
analizzato, della «castità insolita, addirittura inquietante» di
Robespierre, il quale oltretutto aveva fin da bambino «un’autentica
passione per il ricamo».
L’epoca, fa notare l’autore, era
certamente segnata «dagli appetiti sessuali di un Mirabeau o di un de
Sade, o anche di Danton, ma la libertà di costumi non era in generale
diffusa». Marat, confessò di non aver avuto rapporti sessuali prima di
aver compiuto i 21 anni. Carnot, fallito nell’intento di sposare una
ragazza di Digione corteggiata a lungo, si sposò a 38 anni. L’astinenza
«non era poi così eccezionale in un tempo in cui bisognava essere
sistemati per costruire una famiglia e le statistiche ci ricordano che
l’età media di un uomo al matrimonio era attorno ai 27 anni».
E il
sangue versato nella fase conclusiva della Rivoluzione? Dopo anni di
ricerche, scrive lo storico, non si può che giungere ad un’unica
conclusione: è sbagliato indicare Robespierre come il solo responsabile
della violenza rivoluzionaria dal momento che, al di là delle
testimonianze interessate, «niente negli archivi come nella
memorialistica, permette di affermarlo». Fu senza dubbio «tra coloro che
inventarono la rivoluzione», ma lo fece «come tutti senza esserne
pienamente cosciente, il più delle volte senza dominarne gli sviluppi e
ancor meno le conseguenze». La sua peculiarità consiste nel fatto di
esser divenuto — come si diceva — un capro espiatorio, e soprattutto di
essere servito a dare una spiegazione «della svolta più significativa
della rivoluzione».
In questo non è del tutto solo. I girondini e,
«anche se a minor titolo», gli hebertisti (gli «esagerati», seguaci di
Jacques-René Hébert), oppure Georges Danton, ma soprattutto
Jean-Baptiste Carrier «che raggiunse Robespierre nell’obbrobrio», sono
stati «tutti gettati in pasto alle belve quando l’urto dei partiti e
delle fazioni lo richiese». Robespierre «subì però la cosa nel momento
più difficile, fu subito confuso con un sistema, quello del Terrore,
inventato per l’occasione» e, «tramite una propaganda spudorata», lo si
rese «colpevole delle peggiori atrocità». Certo, riconosce lo studioso,
«la sua personalità vi si prestava». L’uomo privato «si era dissolto in
un astratto spazio pubblico, quello delle tribune e dei discorsi». Non
era stato, a dire il vero, un «cospiratore e un manipolatore» come
Mirabeau, né un leader d’opinione come Brissot e non aveva «nessuno dei
tratti eccessivi di Danton»; non aveva neppure la «capacità politica» di
Barère, Vadier, Carnot o Fouché, tutti disponibili al compromesso e
«pronti, all’occorrenza, a farsi dimenticare». Insomma il 9 Termidoro
«la corona di spine non gli venne posta sul capo a caso». Molto più di
altri «aveva assunto un atteggiamento sacrificale, raccoglieva consensi,
faceva temere di puntare a una magistratura suprema», ma «non disponeva
di una precisa linea politica». Sapremo mai, si domanda Martin, quali
furono davvero le sue intenzioni in quei quattro anni di rivoluzione?
«Sicuramente no», risponde lo storico. No, dal momento che «non è
affatto sicuro che avesse una chiara idea delle cose». Ma, aggiunge, non
è che i suoi amici, poi divenuti suoi avversari, ne avessero una
migliore. Così, la manovra che scatenarono contro di lui sfuggì loro di
mano e provocò quell’onda d’urto che rafforzò e finì per fissare
l’immagine di Robespierre, dimostrando una volta di più due cose
fondamentali. La prima è che spesso (quasi sempre) «gli uomini non hanno
alcuna idea della storia che stanno producendo». La seconda: quanto sia
inutile oltreché falso attribuire a un individuo soltanto chiunque sia —
Robespierre in questo caso — «un ruolo eccezionale».
Nei giorni
che portarono alla destituzione e alla decapitazione del principale
protagonista della Rivoluzione francese, le cose, secondo Martin, furono
molto più banali di quanto si creda. Non ci fu «enigma, né
trascendenza, né abominio demoniaco»; solo «giochi politici e politiche
urgenze, rivalità tra uomini e drammatiche difficoltà di uno stato in
guerra». Ci fu soprattutto «la tradizionale alternanza di momenti di
forza e momenti di debolezza che scandiscono la vita dei grandi
protagonisti della storia». Ne vien fuori una ricostruzione assai più
convincente di quelle tradizionali. Siano state esse simpatizzanti o
grondanti ostilità nei confronti di Robespierre.