Corriere 22.3.18
Psiche
Lo studio di Cecilia Di Agostino, Marzia Fabi e Maria Sneider (L’Asino d’oro) sarà presentato sabato alla fiera Book Pride di Milano
Depressione non è tristezza. E si può curare (senza pillole)
di Antonio Montanaro
«Spesso il male di vivere ho incontrato:/ era il rivo strozzato che gorgoglia,/ era l’incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato». Eugenio Montale descrive così, nei celebri versi della raccolta Ossi di seppia , quel dolore interno che qualche volta può essere tristezza, altre depressione. E quindi patologia. «Le due condizioni — spiega Marzia Fabi, psicoterapeuta e, insieme alle colleghe Cecilia Di Agostino e Maria Sneider, autrice del libro Depressione. Quando non è solo tristezza (L’Asino d’oro, pagine 148, e 14) — sono troppo spesso accomunate, come se si trattasse di un’unica cosa. Ma non è così: la tristezza è una reazione sana, fisiologica e necessaria di fronte a eventi della vita: separazioni, lutti, cambiamenti, insoddisfazioni. La depressione, al contrario, è una malattia che si sviluppa all’interno di rapporti interumani che non funzionano. È sempre una reazione patologica a eventi della vita particolarmente difficili, deludenti e ripetuti nel tempo. Compaiono così sentimenti di autosvalutazione, sensi di colpa, pensieri negativi su se stessi, un forte senso di insicurezza. Negli adolescenti in particolare la depressione si manifesta anche attraverso il corpo, con atti di autolesionismo, rabbia, agitazione o un consumo sfrenato di alcol e droghe».
Dunque, per capire fino in fondo quella che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2020 sarà la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari, bisogna partire dalla distinzione tra depressione e tristezza. E poi, continua la psicoterapeuta, «è necessario allontanarsi da una visione filosofico-religiosa che propone la presenza di un male originario insito nella natura umana, che proprio per questo sarebbe compromessa fin dalla nascita e dunque immodificabile». La depressione, insomma, come realtà naturale di tutti gli esseri umani. «Invece — argomenta Marzia Fabi — una cura è sempre possibile. In che modo? Attraverso la psicoterapia: un rapporto in cui bisogna affrontare un mondo non cosciente che si è ammalato, andare alla ricerca delle cause della malattia e avere come obiettivo la guarigione». Attenzione poi all’utilizzo degli psicofarmaci, considerati necessari da chi propone un’origine biologica della depressione (la causa è attribuita al cattivo funzionamento dei neurotrasmettitori): «Sono considerati “pillole della felicità” ma, in verità, sono utili, solo in casi gravissimi, per attenuare i sintomi, non per curare».
Il libro, il sesto della collana «Adolescenza», sarà presentato sabato (24 marzo, ore 15) al Book Pride di Milano. Oltre alla descrizione di casi clinici, l’ultima parte è incentrata su come il cinema e la letteratura hanno raccontato la depressione, con tanto di bibliografia e filmografia ragionate. «L’obiettivo che ci siamo poste — conclude una delle tre autrici — è spiegare questa patologia con un linguaggio semplice e immediato, partendo dalla teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli».
De Cesare sul libro di Roberto Esposito in uscita «Politica e negazione»
Corriere 22.3.18
Elzeviro Il saggio (Einaudi) di Esposito
La politica deve tornare propositiva
di Donatella Di Cesare
Che cosa vuol dire negare? Il «non» che compare così spesso nelle frasi quotidiane della lingua ha un valore esistenziale oppure solo logico-linguistico? Il tema della negazione attraversa tutta la filosofia da Parmenide fino alle odierne analisi logiche. Si potrebbe anzi dire che ne costituisca uno degli assi portanti. E se la negazione appare tradizionalmente secondaria rispetto all’affermazione, non mancano quei filosofi che ne riconoscono invece l’originarietà.
Nel suo ultimo libro Politica e negazione. Per una filosofia affermativa (Einaudi, pagine 207, e 22), complesso e stimolante, che si articola lungo un cammino già per molti versi familiare all’autore, Roberto Esposito accoglie la sfida difficile di trovare un nuovo nesso tra politica e negazione, per cercare una via propositiva e affermativa. Tema, dunque, scottante. L’intento è quello di uscire dall’impasse che ha segnato il Novecento portando ai crimini epocali, primo fra tutti quello dello sterminio.
Così, insieme alla paradigmatica logica amico-nemico di Carl Schmitt, questa volta Esposito riprende in parte anche la riflessione sviluppata da Heidegger nei Quaderni neri , e cioè il problema, dibattuto in questi ultimi tre anni, dell’annientamento, o meglio, dell’autoannientamento. Si ricorderanno infatti le parole che hanno rotto per sempre il silenzio di Heidegger sulla Shoah (è stato il «Corriere» a pubblicare in anteprima mondiale quei passi divenuti celebri). La negazione dell’altro assume un valore ontologico, diventa annientamento, al punto da presentarsi come autoannientamento. «Gli ebrei si sono autoannientati», questa l’interpretazione scioccante che Heidegger dà della Shoah. La negazione che trionfa è quella che porta il nemico ad autodistruggersi.
Se la negazione è «innegabile», occorre però — così suggerisce giustamente Esposito — uscire dall’impasse novecentesca che pesa ancora sulla politica, incapace di concepirsi se non a partire da un nemico esterno assoluto. È la politica del contro che non sa proporre. Serbare la negazione si può e si deve, evitando ogni esito estremo, ma anche ogni deriva nichilistica. Più che seguire la pista aperta da Platone, che nel non-essere vede l’essere altro (pista fin troppo frequentata nella filosofia contemporanea), Esposito guarda ai classici del pensiero politico, in particolare a Hobbes, che nello Stato moderno individua quell’atto creativo in grado di annullare il negativo, cioè lo stato di natura, che lo precede. Ma un ruolo di primo piano spetta, nell’ultima parte del libro, da un canto a Deleuze, pensatore della differenza, dall’altro a Foucault che ha saputo scorgere i meccanismi diffusi del micropotere.
Come contrastare il negativo senza negarlo? Assumere la negazione in piccole dosi immunitarie, far sì che sia opposizione tra positivi, determinazione: ecco l’indicazione che Esposito offre nelle ultime pagine a un pensiero che affermi e non neghi. L’autore di Communitas. Origine e destino della comunità (Einaudi, 2006), che ha segnato certamente un prima e un poi nella filosofia politica contemporanea, sembra essere, nel complicato scenario attuale, preoccupato non tanto di smussare il conflitto, quanto di trasporre il negativo in un «registro positivo», di trovare una via d’uscita a una negazione altrimenti sterile, che rischia, com’è facile constatare nel paesaggio politico di questi giorni, di essere alla fin fine condannata o a una autodistruzione oppure a una vuota sterilità.
Repubblica 22.3.18
Paradossi logici
Kant versus Leibniz
Essere o non essere un unicorno
La prova ontologica dice che se qualcosa è pensabile, e se non è contraddittoria, allora è: ovviamente un errore filosofico
di Maurizio Ferraris
Marco Polo non ha conosciuto né ornitorinchi né canguri ma, apparentemente, ha incontrato un unicorno. A Giava ha visto un rinoceronte e l’ha classificato come un unicorno anomalo, visto che aveva letto nei bestiari — i quali classificavano tanto animali esistenti quanto animali inesistenti — la descrizione di un animale vagamente simile a quello che aveva sotto gli occhi. Gli unicorni giavanesi non sono bianchi, sono tozzi, hanno piedi da elefante, il corno è nero, la testa non è quella di un cavallo bensì quella di un cinghiale, ma forse si tratta di unicorni. La domanda è: perché, invece che chiamarli “unicorni”, dimostrando che l’unicorno esiste, li si è chiamati “rinoceronti”, confinando gli unicorni nella inesistenza? È di qui che vorrei partire per dimostrare come, nonostante i buoni argomenti a favore dell’esistenza degli unicorni (per esempio il fatto che si possano distinguere dai cavalli e dalle chimere), questa esistenza è solo concettuale, ossia non è una esistenza biologica, quella che si esige da un animale e non, per esempio, da un triangolo.
La sentenza di Bertrand Russell secondo cui «la logica non deve occuparsi degli unicorni più di quanto non lo faccia la zoologia» deve essere rivista e indebolita.
Per Russell la logica è lo specchio dell’ontologia, ossia di quello che c’è, dunque non deve rendere conto di quello che non esiste. Per me, invece la logica è uno strumento essenziale dell’epistemologia, ossia di quello che sappiamo, o crediamo di sapere, a proposito di quello che c’è. Tra quello che sappiamo, o crediamo di sapere, c’è il fatto che gli unicorni non esistono. Dunque l’epistemologia fa benissimo a occuparsi di unicorni (è quanto stiamo facendo qui). Ma, se le cose stanno in questi termini, quando si passa dall’epistemologia (che contiene sia l’essere sia il non essere) all’ontologia (che contiene soltanto l’essere) c’è un cambio di registro decisivo.
È la tesi di Kant contro Leibniz. Ma Kant dice anche un’altra cosa, e cioè che il fatto di esistere non è un predicato reale, ossia non aggiunge niente al concetto di un oggetto. Lo fa per confutare la prova ontologica dell’esistenza di Dio (quella che dal fatto che è concepibile un essere perfetto concludeva che un simile essere fosse anche necessariamente esistente), ma l’argomento si applica anche a enti più ordinari: se al bar ordino una birra piccola, chiara e reale, hanno ragione di pensare che non è la prima birra della giornata, visto che “reale” non aggiunge niente alle caratterizzazioni della birra. Ma siamo sicuri che sia così? Se ordino una birra, implicitamente esigo che sia reale e non immaginaria e, contrariamente a quanto sostiene Kant in un esempio famoso, 100 talleri ideali non sono affatto identici, nel concetto, a 100 talleri reali, perché questo significherebbe che la mera immaginazione di 100 talleri equivale a 100 talleri.
Fa parte delle proprietà interne della birra che ordino al bar il fatto di essere diversa dalla birra disegnata nella pubblicità e di non poter essere pagata con talleri ideali, e fa parte delle proprietà interne di un unicorno il fatto di trovarsi nei negozi di giocattoli e non in quelli di animali. L’essere è dunque un predicato reale delle cose, perché è ciò che distingue l’esistente dall’inesistente, e non è poco. Ammettere questo non comporta la prova ontologica dell’esistenza di Dio, ma comporta una prova dell’inesistenza degli unicorni. La prova ontologica comportava una confusione tra epistemologia e ontologia: se è pensabile, se non è logicamente contraddittorio (epistemologia) allora esiste (ontologia). Ma ovviamente non è così. Si può benissimo immaginare qualcosa di impossibile, ma esistente (ad esempio un comico che diventa ideologo) e qualcosa di possibile, ma inesistente (per esempio, Kant ammette in linea teorica la possibilità della telepatia). Se ci lasciamo alle spalle la confusione tra ontologia ed epistemologia, abbiamo la dimostrazione della inesistenza degli unicorni.
Esistere, per un individuo biologico come un unicorno o un rinoceronte è anzitutto essere vivo e poi morto: sino a che non si troverà o un unicorno vivo, o i resti di un unicorno che è stato vivo, si avrà tutto il diritto di asserire che gli unicorni non esistono. Se diciamo che i cavalli e i rinoceronti esistono è perché ne abbiamo visti di vivi. Se diciamo che i dinosauri sono stati reali è perché ne abbiamo ritrovato i resti, che comportavano l’assunzione che fossero stati resti di esseri viventi. Se diciamo che le chimere non esistono è perché non abbiamo mai trovato resti di chimere morte, e al massimo abbiamo trovato frammenti di statue di chimere, di vasi raffiguranti chimere, ecc. Se i credenti ritengono che Cristo sia esistito, malgrado non se ne siano ritrovati i resti, è perché hanno testimonianze che giudicano fidedegne circa l’esistenza di Cristo come individuo vivente. Il che peraltro spiega l’importanza annessa alla Sindone: se l’essere vivo e poi morto non fosse la caratteristica fondamentale di un individuo biologico, non si capisce perché dare tanto peso all’autenticità o meno di un lenzuolo funebre.
L’esistenza qui è un predicato molto chiaro e determinato, che designa il fatto di essere sottoposti a processi entropici. Se spengo un frullatore, potrò sempre riaccenderlo, cosa che non avviene per un organismo, in cui, invece che l’alternativa reversibile acceso/spento, abbiamo l’alternativa irreversibile vivo/morto. Posso benissimo fabbricare un unicorno di peluche (il mondo ne è pieno) o disegnare degli unicorni, ma questo non dimostrerebbe in alcun modo che gli unicorni esistono, perché l’esistenza in senso biologico, l’unica che ci autorizzi a sostenere che gli unicorni esistono, comporta l’essere sottoposta a processi entropici, e l’unicorno di peluche, proprio come Madame Bovary, non conosce l’entropia.
Dunque non sarà mai l’oggetto di una battaglia animalista sebbene non si possa escludere che sorga una setta per la liberazione degli unicorni affine alla lega per la liberazione dei nani da giardino.
il manifesto 22.3.18
La Cei incalza: «Ora il governo», a tutti i costi o quasi
Le conclusioni dei vescovi. Nel discorso del cardinal Bassetti è chiaro il riferimento al Movimento 5 Stelle, con cui è in corso un reciproco avvicinamento. La bacchettata è indirizzata alla Lega
di Luca Kocci
Dare un governo al Paese. È l’imperativo dei vescovi alle forze politiche dopo le elezioni del 4 marzo.
«I partiti oggi hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di governare e orientare la società», ha detto ieri il cardinal Bassetti, presidente della Cei, nelle conclusioni del Consiglio episcopale permanente (19-21 marzo), introducendo così una novità di metodo: non più la prolusione solitaria del presidente che dettava linea ai vescovi ad inizio lavori, ma una conclusione che sintetizza gli interventi emersi in assemblea. «Il Parlamento – ha proseguito Bassetti – deve esprimere una maggioranza che interpreti non soltanto le ambizioni delle forze politiche, ma i bisogni fondamentali della gente, a partire da quanti sono più in difficoltà. Si governi, fino a dove si può, con la pazienza ostinata e sagace del contadino, nell’interesse del bene comune».
Un governo a tutti i costi quindi, o quasi. Senza preclusioni nei confronti di nessun partito, o quasi, perché alcuni paletti i vescovi li piantano.
Rispetto alla «inadeguatezza della politica tradizionale», ha sottolineato il cardinale, «ha avuto buon gioco una nuova forma di protagonismo e di consenso dal basso, attivo e diffuso, anche se non è ancora prova di autentica partecipazione democratica». Chiaro il riferimento al Movimento 5 Stelle, con cui è in corso un reciproco avvicinamento: da parte della Cei, sempre attenta ai rapporti di forza parlamentari; e da parte del Movimento (vedi la presenza del capo politico nonché premier in pectore dei pentastellati, Di Maio, nello scorso settembre, nel duomo di Napoli, per baciare l’ampolla con il sangue di San Gennaro dalle mani del cardinal Sepe).
Tuttavia «non ci sono facili soluzioni con cui uscire dalla notte invernale». Non porta da nessuna parte la populistica «scorciatoia di promesse di beni materiali da assicurare a tutti», ha ammonito Bassetti. La soluzione non è nemmeno un governo di minoranza, alla «ricerca di volta in volta di un accordo sul singolo problema». È necessario invece un governo vero, sorretto da «una visione ampia, grande, condivisa; un progetto-Paese che, dalla risposta al bisogno immediato, consenta di elevarsi al piano di una cultura solidale».
I primi punti all’ordine del giorno che il nuovo esecutivo dovrà affrontare: la disoccupazione, soprattutto quella giovanile; la povertà e l’impoverimento delle famiglie; i migranti. «L’inverno si esprime nella paura del diverso – ha puntualizzato il presidente della Cei, prendendo così le distanze dalla destra leghista e fascista -: una paura che spesso trova nell’immigrato il suo capro espiatorio» e che «è spesso indice di insicurezze e chiusure su cui rischia di attecchire una forma di involuzione del principio di nazionalità» (una critica alla mancata approvazione dello Ius soli?). La stella polare è la Costituzione, «con i suoi valori di lavoro, famiglia, giustizia, solidarietà, rispetto, educazione, merito. Con il valore essenziale della pace, senza la quale tutto è perduto».
il manifesto 22.3.18
Lettera di Ratzinger sbianchettata: si dimette monsignor Viganò
Vaticano. Lascia l’incarico il potente prefetto della Segreteria vaticana per la comunicazione
di Luca Kocci
Terremoto nel sistema dei media vaticani. Si è dimesso dall’incarico di prefetto della Segreteria per la comunicazione il potente monsignor Dario Edoardo Viganò. Papa Francesco ha immediatamente accolto – sebbene la lettera di risposta del pontefice dica «non senza qualche fatica» – la decisione del ministro vaticano delle comunicazioni di «compiere un passo indietro».
Le dimissioni non sono arrivate come un fulmine a ciel sereno. Al contrario sembravano inevitabili dopo il caos provocato dalla stesso Viganò e fatto esplodere da Settimo cielo, il blog del vaticanista ratzingeriano-ruiniano Sandro Magister, imbeccato, come già capitato in altre occasioni, da gole profonde e da anonime “manine” che abitano i sacri palazzi e che non amano particolarmente papa Francesco.
La vicenda è un concentrato di ingenuità goffe e maldestre e di tentativi di mettere toppe che si sono rivelate peggiori dei buchi da parte di monsignor Viganò, studioso ed esperto di cinema che, nel giugno 2015, lo stesso papa Francesco mette a capo della neonata Segreteria per la comunicazione, il nuovo superdicastero che centralizza e assume il controllo di tutti i media vaticani: quotidiano (Osservatore Romano), Radio Vaticana, Centro televisivo vaticano, casa editrice (Lev), servizio internet e sala stampa.
A gennaio Viganò scrive una lettera a Ratzinger, chiedendogli un’introduzione ad una nuova collana di libri (editi dalla Lev) dedicati alla teologia di papa Francesco. Una richiesta sgangherata, che si spiega solo con l’intenzione di Viganò di voler avvalorare la tesi della continuità Ratzinger-Bergoglio: il papa emerito, da tutti considerato eminente teologo, che scrive la prefazione ad un’opera dedicata alla teologia di Francesco – al contrario bollato dagli oppositori come teologo di scarso valore – in un colpo solo neutralizza i giudizi poco lusinghieri sul ridotto spessore teologico di Bergoglio, pone fine alla narrazione della contrapposizione Ratzinger-Bergoglio e sancisce la assoluta continuità teologico-pastorale Benedetto XVI- Francesco.
L’operazione sembra funzionare alla perfezione quando il 12 marzo, alla vigilia dell’anniversario del quinto anno di pontificato di Francesco, alla presentazione della collana della Lev, Viganò legge la lettera di Ratzinger (datata 7 febbraio, quindi conservata nei cassetti per oltre un mese) in cui il papa emerito declina l’invito, in maniera peraltro non particolarmente elegante («non mi sento di scrivere una breve e densa pagina teologica» perché «per ragioni fisiche, non sono in grado di leggere gli undici volumetti nel prossimo futuro», un passaggio letto da Viganò ma omesso nel comunicato stampa diffuso ai media dalla segreteria per la comunicazione), ma esprime un giudizio lusinghiero sul suo successore: «Plaudo a questa iniziativa che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi. I piccoli volumi mostrano, a ragione, che papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento».
Viganò però aveva usato il bianchetto. Dalla lettera di Ratzinger aveva infatti omesso un paragrafo molto critico, non tanto nei confronti di Francesco, quanto verso l’operazione editoriale della segreteria per la comunicazione, che aveva scelto di pubblicare nella collana anche un «volumetto» di un teologo tedesco, Peter Hünermann, forte oppositore di Ratzinger e prima ancora di Wojtyla. «Vorrei annotare la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor Hunermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per avere capeggiato iniziative anti-papali», aveva scritto Raztinger nel passaggio censurato da Viganò.
Una “manina”, evidentemente molto vicina a Ratzinger – dal momento che la lettera era bollata come «personale riservata» –, passa la lettera a Magister che la pubblica integralmente sul suo blog. Dopo qualche ora la sala stampa vaticana è costretta a pubblicare tutta la lettera, compresa la parte censurata. E a questo punto a Viganò non resta che presentare le proprie dimissioni a Francesco. Fra i sacri palazzi le lotte continuano.
La Stampa Vatican Insider 22.3.18
Il giallo della lettera cancellata costringe alle dimissioni Viganò
L’uomo forte di Papa Francesco inciampa sul pasticcio degli omissis. Ma la ristrutturazione della comunicazione andrà avanti senza di lui
di Andrea Tornielli
Monsignor Dario Viganò, l’uomo forte della comunicazione vaticana si è dimesso con una lettera a Papa Francesco datata 19 marzo. La rinuncia è stata accolta ieri «non senza qualche fatica» dal Pontefice, che a sua volta ha scritto al suo ormai ex «ministro» delle comunicazioni pregandolo di rimanere come «assessore» nello stesso dicastero, incarico inventato ad hoc. È l’epilogo per alcuni inevitabile, per altri sorprendente, del «giallo» della lettera di Benedetto XVI e dei suoi omissis. Un «giallo» che lascia ancora interrogativi senza risposta.
Lunedì 12 dicembre, presentando la collana di 11 volumetti dedicati alla «Teologia di Papa Francesco», monsignor Viganò leggeva una lettera a lui inviata dal Papa emerito. Benedetto XVI bollava come «stolto pregiudizio» il ritenere Francesco privo di preparazione teologica, parlando al contempo di «continuità interiore» tra i due pontificati. Il comunicato ufficiale presentava la missiva ratzingeriana come un endorsement al Pontefice in carica, limitandosi però a riprodurre solo i primi due paragrafi del testo. Durante la conferenza stampa Viganò dava lettura anche di un terzo paragrafo, nel quale Ratzinger declinava l’invito a scrivere una prefazione ai volumetti, spiegando di non averli letti e di non avere la forza né la possibilità di farlo. La mancata citazione di questo passaggio nel comunicato ufficiale faceva esplodere martedì 13 marzo una prima polemica, alla quale si aggiungeva quella sulla foto della lettera diffusa dai media vaticani, risultata sfuocata di proposito nelle ultime due righe.
Come se ciò non bastasse, sabato 17 marzo, mentre Francesco era in visita a nei luoghi di Padre Pio, si è diffusa l’indiscrezione sull’esistenza di un ulteriore paragrafo omesso: quello in cui Benedetto XVI faceva notare l’inopportunità della scelta di uno dei curatori della collana, il teologo tedesco Peter Hünermann, in passato critico contro lo stesso Ratzinger e Giovanni Paolo II. L’indiscrezione obbligava la Santa Sede a pubblicare finalmente il testo originale. Viganò ha scelto di divulgare una lettera privata, omettendone alcune parti, all’insaputa del suo autore Ratzinger? Oppure ha avvisato in qualche modo l’entourage di Benedetto XVI, e in particolare il suo segretario, l’arcivescovo Georg Gänswein? Domande ancora senza risposta. Sulla sua gestione del caso si è abbattuto uno tsunami di reazioni, con reiterate richieste di dimissioni del prefetto. Un «ministro» potente della Curia romana, perché nel giugno 2015 aveva ricevuto un mandato pieno e carta bianca dal Pontefice - che lo ha sempre difeso - per attuare la ristrutturazione dei media vaticani. Lo studio iniziale del progetto era stato affidato a McKinsey (consulenza da 420 mila euro, più altrettanti di spese). L’idea era quella di unificare le varie realtà informative, mettendole in rete e creando una piattaforma digitale unica sulla quale dispiegare articoli, immagini e podcast. Con il compito di ridurre l’importante deficit tagliando le spese.
Nella lettera di dimissioni Viganò non fa riferimento esplicito al pasticcio degli omissis. «In questi ultimi giorni - scrive il prefetto dimissionario - si sono sollevate molte polemiche circa il mio operato che, al di là delle intenzioni, destabilizza il complesso e grande lavoro di riforma che lei mi ha affidato e che vede ora, grazie al contributo di moltissime persone a partire dal personale, compiere il tratto finale». Viganò ringrazia il Papa per il sostegno e la rinnovata stima. Ma aggiunge: «Nel rispetto delle persone, però, che con me hanno lavorato in questi anni e per evitare che la mia persona possa in qualche modo ritardare, danneggiare o addirittura bloccare» il percorso della riforma, «e soprattutto, per l’amore alla Chiesa e a lei Santo Padre, le chiedo di accogliere il mio desiderio di farmi in disparte rendendomi, se lei lo desidera, disponibile a collaborare in altre modalità».
Francesco risponde elogiando l’impegno di Viganò e ne accoglie «non senza qualche fatica», la rinuncia, lasciandolo nell’organigramma del dicastero. Quindi difende il progetto sui media «da me approvato e regolarmente condiviso». Aggiungendo un paragrafo particolarmente significativo, dove tiene a precisare che la riforma è «ormai giunta al tratto conclusivo con I’imminente fusione dell’Osservatore Romano all’interno dell’unico sistema comunicativo della Santa Sede». Citazione non causale, perché proprio quest’ultima fusione era stata procrastinata dal direttore del quotidiano vaticano Gian Maria Vian con l’avallo della Segreteria di Stato. Il Papa ora ha messo nero su bianco di volerla portare a compimento anche senza Viganò.
La Stampa 22.3.18
Così la riforma di Bergoglio fa litigare i media vaticani
Braccio di ferro tra gli organismi curiali
di An.Tor.
All’origine della clamorosa rinuncia del prefetto della comunicazione vaticana c’è certamente la gestione comunicativa della lettera di Ratzinger. Ma è indubbio che all’uscita di scena di monsignor Viganò e all’epilogo di ieri abbiano contribuito tensioni con altri organismi curiali, in particolare con la Segreteria di Stato.
La riforma dei media ha accentrato nelle mani del prefetto un notevole potere, e la sua gestione ha causato più di un braccio di ferro. L’ultimo episodio risale a sabato scorso.
Il giorno precedente, la mattina di venerdì 16 marzo, Francesco aveva ricevuto in udienza seminaristi e sacerdoti dei collegi romani. Il Papa aveva dato indicazioni di non volere che l’incontro avvenisse con la diretta audio-video. L’Osservatore Romano, che ha un suo giornalista presente, pubblica sull’edizione in edicola quello stesso pomeriggio una cronaca stringata, riassumendo i contenuti ma senza alcun virgolettato del Papa.
Sabato mattina, mentre il Papa è a San Giovanni Rotondo, la Segreteria di Stato fa chiedere a Francesco se desidera che la trascrizione integrale del dialogo con i seminaristi venga distribuita ai giornalisti e dunque resa pubblica. Bergoglio avrebbe risposto di no, aggiungendo che la linea da seguire sarebbe stata quella della cronaca riassuntiva dell’Osservatore, senza virgolettati.
Così la Segreteria di Stato, verso le 10,30, invia un messaggio a una decina di indirizzi e-mail dei media vaticani e della Sala stampa, per informare che la trascrizione del testo papale non si sarebbe pubblicata e che ci si doveva attenere alla cronaca dell’Osservatore.
Nel giro di pochi minuti, arriva a tutti gli indirizzi e-mail una dura replica di Viganò, all’oscuro del fatto che l’indicazione attraverso la Segreteria di Stato arrivava direttamente dal Papa: il prefetto denuncia «confusione», rivendicando l’autonomia della Sala stampa, e più in generale della Segreteria per la comunicazione, rispetto all’Osservatore Romano. Nella sua risposta aggiunge che gli altri media vaticani avrebbero riportato la cronaca del dialogo del Papa con i seminaristi come ritenevano più opportuno.
Quando questo scambio di e-mail avviene, la polemica con le indiscrezioni sull’ultimo paragrafo omesso della lettera di Ratzinger deve ancora scoppiare. La notizia sulle righe non divulgate del Papa emerito provoca l’ennesimo terremoto, e dopo un veloce giro di consultazioni tra Viganò, la Segreteria di Stato e l’entourage di Benedetto XVI si decide di pubblicare finalmente il testo integrale. [An.Tor.]
Corriere 22.3.18
Il vescovo è tra le persone più vicine a Francesco
Marcello Semeraro: «No a letture strumentali»
di G. G. V.
CITTÀ DEL VATICANO «Sono molto amareggiato da questa faccenda. Si ha l’impressione che non ci sia stata una lettura serena e molti abbiano voluto togliersi dei sassolini dalle scarpe...». Il vescovo Marcello Semeraro è tra le persone più vicine a Francesco, il Papa lo ha scelto come segretario del Consiglio dei 9 cardinali che lo aiuta nel governo e la riforma della Curia.
C’è chi ha letto la seconda e la terza parte della lettera di Ratzinger come una sorta di confutazione della prima. Che ne dice?
«Ma no, la logica non lo permette. Chi conosce lo stile e la limpidezza di Benedetto XVI non può pensare a una cosa del genere».
E allora?
«Nel testo ci sono tre momenti distinti. Nella prima parte parla della sua stima nei confronti di Francesco, ne elogia la teologia, deplora lo “stolto pregiudizio” contro entrambi e dice la continuità interiore dei due pontificati. Poi spiega di non poter fare la prefazione alla collana dei teologi perché non ha letto quei contributi. Infine fa una sua valutazione su uno studioso…».
Molto dura…
«Io non entro nel meri-to della vicenda, non so se la lettera fosse riservata o meno. Resta il fatto che la prima parte conserva la sua validità. Non ci vedo una strumentalizzazione. A essere strumentalizzate, semmai, sono state le altre due».
Corriere 22.3.18
L’analisi La crisi nella Santa Sede
Il primo dualismo fra i Pontefici. Così si è rotto l’incantesimo
di Massimo Franco
Ma Francesco difende il suo collaboratore, che non ammette l’errore
L a settimana che doveva segnare l’apoteosi del quinquennio di Francesco sta segnando una delle crisi interne più acute del suo papato. E esplode proprio nel cuore di Casa Santa Marta, l’albergo dove vive dentro la Città del Vaticano: in quella cerchia ristrettissima di collaboratori che hanno plasmato il suo profilo e la sua grande popolarità. In pochi giorni, si è incrinata la coabitazione armoniosa che l’attuale Pontefice e il suo predecessore erano riusciti a stabilire; e proprio sul tema della dottrina, uno dei più delicati. Senza che né Jorge Mario Bergoglio né Joseph Ratzinger volessero, si sono trovati al centro di un pasticcio tale da farli apparire distanti, segnalando divergenze mai prima emerse. Non solo. Il modo maldestro col quale è stata usata la lettera di appoggio di Benedetto a Francesco su una collana di scritti teologici rischia di sgualcire la credibilità dell’intera macchina comunicativa del Vaticano.
Per un lungo periodo, sembrava che non esistessero «due Papi». Miracolosamente, è il caso di dirlo, nessun dualismo né divergenza erano affiorati: come se ognuno dei due sapesse quanto fosse importante la proiezione di una Chiesa unita; tanto più dopo le dimissioni traumatiche di Ratzinger nel febbraio del 2013, le prime dopo settecento anni. Sebbene ultimamente apparisse meno scontata, l’idea di una continuità tra i due pontificati sopravviveva come una sorta di «verità vaticana» da proteggere e diffondere allo scopo di rassicurare il mondo cattolico. Anche quando veniva strattonato dagli ambienti più conservatori e ostili a Francesco, Benedetto si era limitato a rinnovare la sua lealtà e ubbidienza al successore.
Questa narrativa, adesso, promette di dovere essere ricalibrata. Benedetto ha parlato di «stolto pregiudizio» di quanti attaccano teologicamente Francesco; e di «continuità interiore», espressione così sottile da suonare lievemente criptica, tra lui e Bergoglio. Ma le sconcertanti omissioni sulle critiche di Ratzinger all’operazione editoriale, la divulgazione a tappe della sua missiva, e solo sotto la spinta di uno sconcerto crescente, hanno regalato sospetti di manipolazione, se non di censura. Il tentativo di puntellare le lodi di una serie di teologi nei confronti di Francesco con l’imprimatur del «teologo massimo» Benedetto, si è trasformato in un doloroso autogol: anche perché alla fine si è scoperto che tra i «lodatori» figurano un paio di studiosi riconosciuti da Ratzinger come detrattori ostinati sia del papato di Giovanni Paolo II, sia del suo.
La vicenda, almeno per ora, si conclude con una lettera di dimissioni formali quanto atipiche di monsignor Dario Viganò, l’uomo della comunicazione di Francesco. Si tratta di un gesto apprezzabile nella sua inevitabilità, che però può sollevare altre perplessità. L’atipicità sta nel fatto che Viganò, nella sua missiva a Francesco, non riconosce gli errori commessi. Non c’è un solo riferimento all’uso centellinato e pilotato delle parole di Benedetto. Si parla solo delle «molte polemiche circa il mio operato». Il prefetto motiva la volontà di «farmi in disparte» con l’esigenza di non «destabilizzare» le riforme della comunicazione affidategli da Francesco nel 2015. Fa un passo indietro per «imparare a rinascere dall’alto», scrive citando i testi sacri, e non offrire pretesti ai nemici.
È una versione che vela qualunque responsabilità. Ma il problema ormai va al di là della sua persona. A colpire è la risposta di Francesco, dalla quale si desume una certa resistenza a accettare le dimissioni. Il Papa spende tali e tante lodi sull’«umiltà e il profondo sensus ecclesiae », lo «spirito di servizio» del monsignore, da rendere tutto un po’ singolare: anche perché a Viganò vengono attribuiti piglio decisionista e modi sbrigativi. Il fatto stesso che accogliendo «non senza qualche fatica» le dimissioni crei per il «Reverendissimo Monsignore» un nuovo incarico, quello di «assessore», e gli chieda di continuare in attesa del nuovo prefetto, acuisce la confusione.
Perfino nella cerchia bergogliana si percepisce lo sconcerto. «Questo non è un caso di promoveatur ut amoveatur . Siamo all’ amoveatur ut conservatur », scolpisce un cardinale. E cioè: Viganò rimosso perché prosegua più o meno come prima; o comunque perché questo sia il messaggio dentro le Sacre mura. Ufficialmente, per il momento prenderà il suo posto l’attuale segretario del dicastero, l’argentino Lucio Adrian Ruiz. Ma la procedura conferma la determinazione con la quale il Papa difende le scelte compiute e i suoi collaboratori: anche quando provocano reazioni controverse e farebbero credere a un ripensamento.
La vicenda, tuttavia, non sembra archiviata. C’è chi sottolinea polemicamente la rapidità con la quale sono stati silurati riformatori designati da Francesco come il supervisore dei conti Libero Milone o il vicedirettore dello Ior, Giulio Mattietti. E la contrappone alla difesa del prefetto per la comunicazione: argomenti che gli avversari usano per accreditare l’affanno e le contraddizioni del papato.
Di certo, l’idea che la gestione della lettera di Benedetto possa essere usata per accreditare un complotto contro le riforme, lascia perplessi; ma può favorirlo. E, sullo sfondo di quanto è accaduto, fa riflettere anche il convegno organizzato a fine gennaio in Vaticano contro le informazioni manipolate e le fake news . Senza saperlo, il Vaticano poneva un problema che in qualche misura si sta rivelando anche suo. E ripropone in modo imprevisto, per la prima volta, la questione dei «due Papi».
Corriere 22.3.18
il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti:
«Per il bene del Paese si deve trovare una maggioranza»
Una maggioranza per il bene dell’Italia: i vescovi italiani si appellano al Parlamento affinché si mettano da parte le «ambizioni politiche» e si rimbocchino le maniche per dare una risposta ai «bisogni fondamentali della gente, a partire da quanti sono più in difficoltà». È il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, a lanciare l’appello alla responsabilità a nome dei vescovi. In questo «Paese da ricucire», ha proseguito, dove permane «un inverno non solo meteorologico», fatto di paure e violenza, occorre far ripartire il «dialogo sociale». «I partiti oggi — ha sottolineato Bassetti — hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di governare e orientare la società». Per questo il Parlamento deve esprimere una maggioranza e governare fin dove si può nell’interesse del «bene comune».
Repubblica 22.3.18
Retroscena
Scontro in Vaticano gli uomini di Ratzinger dietro lo stop a Viganò
Tagli alla lettera del Papa emerito, lascia il capo della comunicazione Proteste non solo dai conservatori, interviene la Segreteria di Stato
di Paolo Rodari
CITTÀ DEL VATICANO
Lascia uno degli uomini chiave nel processo di riforma della curia romana messo in moto da Papa Francesco, dopo che contro di lui si è mossa la “cintura” dei fedelissimi del Papa emerito, questa volta anche coloro non pregiudizialmente contro Francesco. Ieri il prefetto della Segreteria per la Comunicazione, monsignor Dario Edoardo Viganò, ha rassegnato le dimissioni, accettate dal Pontefice. Viganò aveva pubblicato, omettendo un importante paragrafo finale, una lettera di Benedetto XVI dedicata a una collana teologica su Francesco. Viganò ha reso note le parole di Ratzinger sulla continuità fra il suo pontificato e quello del successore decidendo di non mostrare le sue critiche inerenti la scelta dei teologi chiamati a intervenire sulla collana stessa, su tutti il nome del teologo tedesco Peter Hünermann che contestò alcuni testi magisteriali di Giovanni Paolo II.
Le dimissioni sono maturate sentito anche il parere della segreteria di Stato, nei cui uffici le proteste dei ratzingeriani si sono fatte sentire. Oltre a queste, anche in generale i timori per l’immagine della Chiesa gravemente lesa dall’uscita della lettera hanno avuto un peso: in epoca di fake news, non può essere certo la Santa Sede a proporne una, anche se non voluta. Nel contempo, tuttavia, è stato giudicato positivo il lavoro di riforma dello stesso Viganò, tanto che Papa Francesco nella lettera con cui accoglie le dimissioni lo sottolinea chiedendo al monsignore nato in Brasile ma di origini ambrosiane di restare nel dicastero come “ assessore”, per poter dare il suo contributo «umano e professionale» al futuro successore.
Il lavoro di Viganò per snellire e ammodernare un settore, quello della comunicazione vaticana, ancorato a ritmi e stili giudicati antichi, è proceduto con velocità. Dentro un mondo abituato ad altre tempistiche, questo lavoro ha provocato qualche malumore. Alcuni ambienti che dal giorno delle elezioni contestano Francesco, in particolare, hanno soffiato su questi dissensi sostenendo che quella di Viganò è stata una «manipolazione» inaccettabile del pensiero del Papa emerito. Dentro la curia romana queste secche che resistono a Bergoglio si sono fatte scudo di Ratzinger per sostenere il proprio diniego verso Francesco. Benedetto XVI ha stigmatizzato nella lettera coloro che lo usano contro il successore, ma l’errore di omettere una parte del testo ha depotenziato le sue parole dando spago alla vulgata della manipolazione.
Una novità, tuttavia, risiede anche nel fatto che la presunta manipolazione è stata giudicata «troppo» anche da quella “cintura” ratzingeriana più moderata esistente oltre le mura leonine. Anche i fedelissimi del Papa emerito non avversi al nuovo pontificato hanno fatto sentire nei piani alti della Santa Sede la propria voce di protesta per un’operazione non gradita e ciò ha avuto un suo peso.
In ogni caso, parte della resistenza più ostinata a Francesco si muove sotto traccia, attendendo momenti opportuni per colpire. Un porporato emerito di aria conservatrice sentito ieri da Repubblica, ad esempio, dice senza mezzi termini: «La richiesta a Benedetto di un endorsement a Francesco per una collana di “volumetti” è povera e misera. E il teologo che Ratzinger contesta totalmente inadeguato ». Voci simili non sono isolate, in Vaticano: parlano di quello che viene denominato “ Lettergate” come di uno scandalo senza precedenti senza tuttavia riconoscere che Ratzinger si è smarcato pesantemente da chi, come loro, contesta Bergoglio.
Francesco non teme gli attacchi. Recentemente ha affermato di non leggere i siti e i blog che da tempo lo contrastano. Così, invece, non hanno fatto alcuni suoi collaboratori. La lettura della lettera di Ratzinger è probabilmente anche il tentativo di prendersi una rivincita verso questo sottobosco senza pensare che sarebbe stato meglio ignorarlo.
Il Papa conosce molti dei suoi nemici, ma contro di loro non fa nulla. Al contrario di chi lo descrive come un leader autoritario e spietato, non ha di fatto mandato via nessuno della vecchia curia romana che provocò Vatileaks. Dopo aver letto nel 2013 il dossier dei tre cardinali che per conto di Benedetto XVI hanno investigato sulla fuga di documenti riservati dalla Santa Sede non ha agito pensionando nessuno. Mentre molti detrattori continuano indisturbati a lavorare anche contro di lui.
Per quanto riguarda la Segreteria guidata fino a ieri da Viganò, Francesco ha già fatto delle indagini per assicurarle una nuova guida. Venerdì scorso ha ricevuto in udienza il sacerdote irlandese Paul Tighe, attualmente segretario alla Cultura. L’udienza viene letta Oltretevere come un primo passo verso una nomina imminente: prima della riforma dei media vaticani Tighe lavorarava nel dicastero allora dedicato alle Comunicazioni Sociali.
Repubblica 22.3.18
Il teologo della lite
“Vi spiego i dissidi tra me e Benedetto”
di Andrea Gualtieri
CITTÀ DEL VATICANO Peter Hünermann, 89 anni, è il teologo tedesco attorno al quale si è accartocciato il sistema della comunicazione vaticana. Di lui scriveva Benedetto XVI nel passaggio della lettera che Dario Edoardo Viganò ha omesso di rendere pubblico e per il quale ora il monsignore si è dimesso.
Al telefono dalla Germania, quando gli si chiede del polverone nei sacri palazzi, lo studioso ride imbarazzato. Poi si lascia sfuggire: «Mamma mia».
Professore, si aspettava che il Papa emerito prendesse posizione contro il suo testo di analisi del pontificato di Francesco?
«No, davvero».
Però le divergenze tra le e Ratzinger hanno radici consolidate.
«Nel 2005 lui si espresse in modo critico sul capitolo che io avevo scritto per il Commentario teologico del Concilio Vaticano II. E poi c’era la questione dell’enciclica “Veritatis Splendor” di Wojtyla».
Era il 1993: lei fu tra le voci che contestarono l’imposizione di dogmi papali assoluti sui temi morali. È ancora convinto della sua linea?
«Ci fu una grande discussione tra teologi e moralisti. Io ho preso posizione insieme a un gran numero di studiosi e poi la nostra linea è stata difesa in pubblico. La mia argomentazione teologica l’ho spiegata anche su una rivista specializzata».
Ha mai avuto modo di discuterne di persona con Ratzinger?
«Ci siamo incontrati e ci siamo confrontati».
Come vi siete lasciati?
«Sembra che la cosa non si sia chiarita (ride)».
Ritiene che le vostre osservazioni siano tornate attuali con il pontificato di Francesco?
«Lui si è espresso in modo chiaro nella esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, quando parla di comunione ai divorziati risposati e sottolinea l’importanza del discernimento e il ruolo del confessore».
Si può dire che negli anni ‘90 siete stati precursori del dibattito sinodale sulla famiglia?
«Chissà? Forse sì, in un certo senso».
Qual è l’elemento più rilevante nella riforma della Chiesa promossa da Bergoglio?
«Lo stile evangelico con il quale vive: è una spinta spirituale molto forte per tutti i cattolici, dai vescovi ai sacerdoti e ai laici. E poi l’importanza che attribuisce alle conferenze episcopali locali: è evidente che si aspetta da loro soluzioni creative per i problemi attuali».
La maggiore autonomia degli episcopati era un altro dei punti per i quali all’epoca vi batteste. Anche oggi però ci sono resistenze: il cardinale Sarah, ad esempio, ha preso una posizione rigida sulle declinazioni dei riti e dei sacramenti.
«È vero. Anche alcuni vescovi hanno dimostrato di non essere pronti: alcuni sono più aperti, altri più esitanti. E poi l’innovazione non è facile da trasmettere in termini pastorali.
Però su questo il Papa attuale è in sintonia con il Concilio Vaticano II. Anche se il suo accento risuona come una novità rispetto ai suoi predecessori, da Paolo VI a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI».
Ratzinger afferma che c’è una «continuità interiore» tra il suo pontificato e quello di Francesco. Lei è d’accordo?
«Ci sono molti elementi in comune ma anche tanti aspetti di discontinuità. Ci sono poi stili diversi, dalla comunicazione alla pastorale. Sono differenti i caratteri. E va detto che uno fu papa, l’altro lo è adesso».
Cosa ha scritto di Bergoglio nel volume “Uomini secondo Cristo” che la Libreria editrice vaticana le ha chiesto di curare e che Ratzinger non ha recensito?
«Sono partito dal presupposto che il Papa attuale non è un professore di teologia ma un pastore. Ho voluto quindi rileggere i suoi scritti dottrinali in controluce di uno dei volumi sui quali si fanno studiare i seminaristi, che è quello di filosofia antropologica redatto da Gabriel Amengual. Il risultato è perfettamente in linea con quel testo. Francesco lo conosce e ne trae chiaramente ispirazione nel suo magistero».
Ha parlato con Viganò della lettera di Benedetto XVI su di lei?
« No, non ho avuto contatti personali con Viganò»
il manifesto 22.3.18
Tortura, difesa d’ufficio: Gabrielli contro Zucca. Il Csm apre un’inchiesta
G8 Genova 2001. È bufera sulla frase pronunciata dall’ex pm del processo per la scuola Diaz. Md lo difende e ricorda: la condanna di Strasburgo impone di sospendere i responsabili
di Eleonora Martini
«Arditi parallelismi e infamanti accuse che qualificano soltanto chi li proferisce». Reagisce male, il capo della polizia Franco Gabrielli, alle parole pronunciate dal sostituto procuratore della corte d’Appello di Genova Enrico Zucca che durante un’iniziativa dell’ordine degli avvocati su Giulio Regeni aveva detto: «I nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?».
La sua però è una difesa d’ufficio un po’scontata e retorica: «Noi facciamo i conti con la nostra storia ogni giorno, noi sappiamo riconoscere i nostri errori – ha detto Gabrielli durante un’iniziativa ad Agrigento in ricordo di Beppe Montana, poliziotto ucciso dalla mafia nel 1985 – Noi, al contrario di altri, sappiamo pesare i comportamenti. Ma al contrario di altri, ogni giorno i nostri uomini e le nostre donne, su tutto il territorio nazionale, garantiscono la serenità, la sicurezza e la tranquillità».
EPPURE, NEANCHE UN ANNO fa in un’intervista a Repubblica Gabrielli affermava a chiare lettere che durante il G8 del 2001 nella caserma di Bolzaneto venne praticata la «tortura» e che se fosse stato al posto di Gianni De Gennaro si sarebbe «dimesso». Lui che nell’aprile 2016 venne spostato velocemente dalla prefettura di Roma al vertice della polizia proprio per dare manforte ad un governo che annaspava davanti alla Corte di Strasburgo chiamato a difendersi per le violenze alla Diaz. «La nottata non è mai passata – disse Gabrielli nell’intervista – A Genova, un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori».
Sei mesi dopo, uno dei protagonisti di quella storia, Gilberto Calderozzi, condannato in via definitiva a 3 anni e otto mesi per aver attestato il falso e coperto omertosamente le violenze e le torture inferte dalle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz divenne il numero due della Direzione investigativa antimafia.
IERI PERÒ, al solito bailamme sollevato dalle destre e dai sindacati delle forze dell’ordine – i funzionari di polizia parlano addirittura di «rischio disordini» – il presidente della Prima commissione del Csm, Antonio Leone, ha chiesto l’apertura di una pratica sul caso «per valutare gli eventuali profili di incompatibilità», anche se il vicepresidente Giovanni Legnini si è limitato a definire quella di Zucca «una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata». Mentre il ministero di Giustizia ha acquisito la registrazione integrale del convegno dell’ordine genovese degli avvocati.
Ma l’ex pm del processo Diaz – che considera «normale e doveroso» l’accertamento dei fatti da parte degli organi competenti – insiste sul punto: «La rimozione del funzionario condannato è un obbligo convenzionale, non una scelta politica, e queste cose le ho dette e scritte anche in passato. Il Governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Fa parte dell’esecuzione di una sentenza». E ancora, riferendosi al caso Regeni: «Se noi violiamo le convenzioni, è difficile farle rispettare ai Paesi non democratici. Il mio messaggio di ieri era: crediamo in primis noi ai principi, prima di pretendere che ci credano altri». I genitori di Giulio, il ricercatore torturato e ucciso al Cairo che non ha ancora ottenuto verità e giustizia, hanno voluto esprimere «la nostra stima e gratitudine al dott. Zucca per il suo intervento preciso ed equilibrato».
D’ALTRONDE IL PROCURATORE della Corte d’Appello genovese non ha fatto altro che fotografare la realtà. Lo ricorda Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, quando dice che Zucca «evidenzia qualche problema reale, non sta inventando niente». E lo ricorda Magistratura democratica con una nota in cui osserva «che le pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Europea dei diritti dell’uomo hanno qualificato i fatti di Genova in termini di tortura e hanno censurato il nostro Paese per non avere posto in essere quegli adempimenti procedurali – tra cui la sospensione dal servizio dei responsabili – necessari per prevenire e reprimere il delitto di tortura». «Sulla base di queste premesse condivise», la corrente democratica dell’Anm ritiene dunque «che non possa qualificarsi oltraggioso per le forze dell’ordine ribadire l’incidenza di quella grave vicenda sulla credibilità delle istituzioni», dentro le quali, «si collocano le forze di polizia con il loro quotidiano e indispensabile lavoro, nella legalità e a tutela della legalità».
Solidarietà a Zucca è stata espressa anche da Pap, Leu, e da numerosi giudici, legali, studiosi e cittadini comuni che hanno sottoscritto un appello – e invitano a firmare (appellozucca@altreconomia.it) – affinché si applichino le indicazioni prescritte nelle condanne Cedu per Diaz e Bolzaneto.
Repubblica 22.3.18
Lo scontro su G8 e Regeni
Polemica su Zucca ma lui rilancia “La polizia torturò anche le Br”
di Liana Milella
Roma Accuse « infamanti e oltraggiose » per il capo della Polizia Gabrielli. « Inappropriate e inaccettabili » per il vice presidente del Csm Legnini. Tali da spingere il Guardasigilli Orlando a chiedere una relazione dettagliata al procuratore generale di Genova e ad acquisire la registrazione. Non partono gli ispettori, ma poco ci manca. Mentre il Pg della Cassazione Fuzio, titolare dell’azione disciplinare, già avvia gli accertamenti preliminari. E Leone, il presidente della prima commissione del Csm delegata ai trasferimenti d’ufficio, chiede di aprire subito una pratica.
Con Enrico Zucca, l’ex pm di Genova protagonista delle indagini sul G8 e sulle torture della Diaz e di Bolzaneto, riconosciute anche dalla Corte di Strasburgo, oggi nel ruolo di sostituto procuratore generale, restano solo il suo capo Valeria Fazio – «Il suo era un discorso articolato e pienamente condivisibile » – e la sua corrente, Magistratura democratica, che non considera «oltraggiose le sue parole per la polizia » e riconosce ai magistrati « il diritto a partecipare al dibattito pubblico».
Ma tant’è. La frase di Zucca, al dibattito con i genitori di Giulio Regeni per presentare il docufilm di Repubblica “ Nove giorni al Cairo”, scatena la bufera. Serve a poco che Zucca chiarisca il contesto e quanto ha effettivamente detto. La battuta isolata dalle agenzie – «I nostri torturatori sono al vertice della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori? » – viene altrimenti spiegata. A Repubblica dice: «Non ho paragonato i fatti di Genova con la tragedia di Regeni. Ho detto che se l’Italia, come da plurime sentenze di condanna, viola le convenzioni, senza che ci sia nessuna reazione dell’ordinamento interno, perde l’occasione di invocare le convenzioni stesse, cioè il rispetto dei principi nei confronti di Paesi non democratici, ma dittatoriali, per quanto “ amici”. E lascia la sorte di Regeni alle contingenti esigenze e convenienze delle reciproche ragioni di Stato».
Zucca rimprovera alla polizia di aver rimesso in carriera i poliziotti «condannati» per le torture del G8. Ma il paragone con il caso Regeni fa infuriare Gabrielli che da Agrigento, dove ricorda Beppe Montana, il capo della catturandi di Palermo ucciso dalla mafia, parla di «arditi parallelismi e infamanti accuse che qualificano solo chi li proferisce » . Gabrielli chiede « rispetto » e lo fa « nel nome di chi ha dato il sangue e la vita, perché noi facciamo i conti con la nostra storia ogni giorno e sappiamo riconoscere i nostri errori». Ma Zucca resta della sua idea, tant’è che al Tg della 7 dichiara: «I morti della polizia e delle istituzioni non si negano. Ma non possiamo non ricordare che il sacrificio anche di vite umane dei giudici ha consentito di combattere con la legalità, con la regola, con processi regolari, il fenomeno del terrorismo, mentre la politica, il ministero dell’Interno, le forze di polizia percorrevano la scorciatoia della tortura».
La ferita del G8 è ancora troppo aperta per Zucca che, come pezza di appoggio, cita la sentenza di Strasburgo contro l’Italia dove si riconosce il reato di tortura e si chiede che i responsabili non occupino più posti di responsabilità. Cosa che, secondo Zucca, invece è avvenuto.
La Stampa 22.3.18
Promozioni in serie nonostante i falsi verbali: così hanno fatto carriera i poliziotti della Diaz
Caldarozzi dai domiciliari ai vertici della Direzione investigativa antimafia
di Matteo Indice
Un superpoliziotto che dall’Fbi italiano finì ai domiciliari, nell’interregno ha fatto il consulente del gigante pubblico Finmneccanica ed è tornato nel gotha dell’investigazione; l’uomo che fece portare le (false) molotov alla scuola Diaz, divenuto di recente numero uno del dipartimento che controlla la sicurezza sulle autostrade. E uno dei più famosi inquirenti degli ultimi vent’anni, andato in pensione e però rimasto in contatto con l’intelligence.
Quando il magistrato Enrico Zucca ribadisce che «chi coprì i torturatori del G8 di Genova è ai vertici della polizia» ha in testa tre nomi. Mentre se s’incrociano attualità e storia molto contemporanea se ne possono ripescare altrettanti: personaggi che nel clou dei processi sono stati promossi a ruoli di primo piano, ricoperti a lungo da condannati.
Proviamo a fissare qualche paletto. È del settembre scorso la nomina di Gilberto Caldarozzi a vicario della Dia, la Direzione investigativa antimafia, di fatto il leader operativo che ha il polso delle inchieste più delicate. Protagonista della caccia a svariati latitanti, è tecnicamente un pregiudicato per falso: la Cassazione fissò una pena a 3 anni e 8 mesi poiché aveva firmato in larga compagnia il verbale di perquisizione in cui si dichiarava che dalla scuola dove dormivano i noglobal, poi manganellati durante l’irruzione degli agenti, spuntarono due bottiglie incendiarie. Le stesse che furono esibite la mattina successiva nel corso d’una conferenza stampa, sebbene gli ordigni fossero stati in realtà introdotti dagli uomini in divisa. Sempre Caldarozzi, quando il verdetto divenne definitivo il 5 luglio 2012 (finì brevemente agli arresti nei mesi successivi) era il capo del Servizio centrale operativo. Sospeso durante l’interdizione dai pubblici uffici, scaduta nel luglio 2017, era stato ingaggiato da Finmeccanica nel momento in cui presidente era Gianni De Gennaro, ovvero il capo della polizia ai tempi del G8.
A dicembre 2017 risale invece il nuovo incarico di Pietro Troiani: comandante del centro operativo della Polstrada a Roma, il più importante d’Italia. Troiani, secondo le carte del caso Diaz, è l’uomo che nella notte del 22 luglio 2001 ordinò a un assistente di trasportare nell’istituto le bombe trovate il giorno prima in tutt’altra parte della città, e custodite su un furgone senza che ne fosse stato registrato il rinvenimento: ha preso 3 anni. Sull’affaire Caldarozzi - Troiani il Viminale aveva ribadito che non si trattava di avanzamenti, ma di posti assegnati in base al grado e alle professionalità dei funzionari al momento della sospensione.
Figura particolare è quella di Francesco Gratteri, il più noto fra i condannati per il verbale fasullo. Fra il 2001 e il 2012 (data della sentenza definitiva) diviene prima capo dell’Antiterrorismo, poi questore di Bari e, con il grado di prefetto, coordinatore del Dac, la divisione centrale anticrimine. È a un certo punto il numero tre della polizia italiana, e corona con successo indagini cruciali rimanendo in sella nonostante il verdetto sfavorevole. Va in pensione poco dopo il pronunciamento della Cassazione e nei mesi scorsi il Ministero dell’Interno aveva preferito non rispondere su successive collaborazioni con i servizi segreti, per comprensibili ragioni di riservatezza.
Nell’intervallo fra secondo e terzo grado avevano ottenuto promozioni altri condannati per le prove truccate sul blitz: Giovanni Luperi (divenuto capo-analista dei nostri 007 interni e a riposo post-Cassazione), Spartaco Mortola (scelto come questore vicario a Torino e rientrato nei ranghi, con mansione differente, terminata l’interdizione dai pubblici uffici), Vincenzo Canterini, nominato questore già dal 2007, mai sospeso e andato in quiescenza dopo la dichiarazione di colpevolezza della Suprema Corte.
Repubblica 22.3.18
La lite infinita sulle violenze di Genova
a cura di Marco Lignana
• Quale è stato il giudizio definitivo della giustizia italiana sui fatti del G8 di Genova?
Per l’irruzione nella scuola Diaz, la Corte di Cassazione il 5 luglio 2012 ha condannato per falso aggravato, tra gli altri, i funzionari di polizia Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Gilberto Caldarozzi, Pietro Troiani, con interdizione per 5 anni dai pubblici uffici. Per la Suprema Corte i vertici di polizia non sono intervenuti a fermare i pestaggi nei confronti delle persone presenti dentro la scuola, e anzi anno avallato false accuse verso i 93 presenti alla Diaz. Per quanto riguarda invece le violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto, il 14 giugno 2013 la Cassazione ha emesso 7 condanne e confermato la prescrizione per oltre 40 imputati.
• Cosa ha stabilito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo?
Il 7 aprile 2015 la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia e riconosciuto come torture alcune delle violenze dentro la Diaz. Il 26 ottobre 2017 la Cedu ha condannato nuovamente l’Italia, questa volta per i fatti di Bolzaneto. Nelle sentenze i giudiciscrivono che “nessuno ha passato un solo giorno in carcere per quanto inflitto ai ricorrenti”. E questo, sostiene la Cedu, anche per la mancanza di cooperazione della polizia con la magistratura.
• A chi si riferisce Enrico Zucca quando parla di vertici di polizia che hanno coperto i torturatori del G8?
La scorsa estate sono terminati i cinque anni di interdizione ai pubblici uffici per i funzionari condannati. Gilberto Caldarozzi è oggi il numero 2 della Direzione investigativa antimafia, Pietro Troiani dirige il Coa, il Centro operativo autostrade di Roma e del Lazio, il più grande d’Italia.
Mentre il capo della polizia ai tempi del G8, Gianni De Gennaro, è oggi presidente di Finmeccanica.
Il Fatto 22.3.18
I vertici del gruppo Espresso indagati per truffa all’Inps
Le accuse - Coinvolta Mondardini, oggi Ad di Gedi. I pm: pensioni anticipate per milioni di euro a dirigenti che erano privi del diritto
di Luciano Cerasa e Valeria Pacelli
Il cuore del Gruppo Gedi, la società che edita il quotidiano Repubblica e il settimanale L’Espresso (estranei alla vicenda), finisce sotto inchiesta. Truffa ai danni dell’Inps è il reato che la Procura di Roma contesta all’amministratore delegato Monica Mondardini, al direttore delle Risorse umane Roberto Moro e a Corrado Corradi, capo della Divisione Stampa Nazionale. Per questo ieri i finanzieri sono entrati nelle sedi della Gedi – il gruppo che oggi edita anche La Stampa di cui è presidente onorario Carlo De Benedetti, presidente il figlio Marco – e della Manzoni Spa, la concessionaria di pubblicità del gruppo editoriale, per acquisire documentazione relativa al prepensionamento concesso, secondo la Procura senza averne diritto, ad alcuni dirigenti di nove società del gruppo.
Il punto è questo: il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall’Olio sospettano che per far ottenere il prepensionamento, ossia il riposo anticipato, ad alcuni dirigenti che non avevano accesso al beneficio, siano stati utilizzati alcuni escamotage come il demansionamento a quadri o i trasferimenti. Da ciò la presunta truffa di milioni di euro. Le contestazioni riguardano fatti dal 2012 a oggi. L’indagine – che ora crea qualche grana al gruppo che nel 2016 vantava 705 milioni di euro di ricavi e 11,9 milioni di utili – nasce da un’informativa dell’Ispettorato del lavoro che evidenzia le anomalie nell’ottenimento dei benefici dei prepensionamenti, e che è stata inviata in Procura.
Le ispezioni della Direzione Vigilanza dell’Inps, da cui si sono avviate le indagini della Procura di Roma, hanno avuto impulso da una notizia del Fatto del settembre 2016, in cui si riportava il carteggio interno tra la presidenza, la direzione generale e alcune direzioni dell’Istituto scaturito da alcune email di denuncia, inviate al presidente Tito Boeri a partire dal maggio precedente. Una figura evidentemente a contatto con la società editoriale e poi ascoltata dagli inquirenti capitolini, segnalava a Boeri una presunta truffa per decine di milioni di euro ai danni dell’Inps operata dal gruppo editoriale tra il 2012 e il 2015.
La questione si rimpalla per diverso tempo tra gli uffici fino a quando Boeri decide di inviare una ricostruzione di quanto accertato dalle sue direzioni al ministero del Lavoro e incarica il direttore generale pro tempore, Massimo Cioffi – dimessosi di lì a poco per i forti contrasti con il presidente sulla gestione dell’Ente –, di stendere una lettera da inviare al ministro del lavoro, Giuliano Poletti. In questa lettera, Cioffi racconta che in occasione di due operazioni di ristrutturazione aziendale – la prima che si è conclusa nel 2012 e la seconda nel 2015 –, la società Manzoni Spa avrebbe chiesto 117 esuberi: poco prima lo stato di crisi però aveva assunto altro personale, proveniente – ipotizza l’Inps –, da società appartenenti al medesimo gruppo e in qualche caso anche dall’esterno.
Cioffi scrive così che nell’ambito dei citati 117 esuberi sono stati segnalati all’istituto 7 nominativi di dirigenti, trasformati in quadri per poter essere prepensionati.
Sempre secondo le segnalazioni pervenute all’Inps, tutti i dipendenti assunti non sarebbero neppure usciti dalle aziende di origine. Dalla banca dati ministeriale delle comunicazioni obbligatorie sono emerse 248 segnalazioni di inizio di attività lavorativa nei 4 mesi che hanno preceduto la dichiarazione di esubero e la conseguente messa in cassa integrazione straordinaria dei dipendenti, con il prepensionamento di poligrafici e giornalisti.
Tra il 2011 e il 2015 sono stati concessi per decreto ministeriale al gruppo editoriale Gedi e alla Manzoni spa 187 prepensionamenti di poligrafici e 69 di giornalisti, mentre per altri 554 lavoratori sono stati attivati contratti di solidarietà. Il direttore dell’Inps accludeva anche la scheda di ciascuno dei dirigenti che sarebbero stati demansionati a quadro per permettere loro di accedere al pensionamento anticipato.
L’iniziativa di Cioffi arrivava dopo una serie d’informative interne che gli organismi centrali e regionali dell’Inps si scambiano fin dall’aprile del 2012. Tra silenzi e solleciti di verifiche, il rimpallo all’interno dell’istituto va avanti da anni. Le ispezioni avviate hanno investito anche altri gruppi editoriali, come la Mondadori, il gruppo Riffeser e del Sole 24 Ore (gruppi estranei all’indagine).
A dare notizia della presenza dei finanzieri nelle proprie sedi, ieri, è stato lo stesso gruppo Gedi. “L’ufficio del personale del Gruppo – scrivono in una nota – sta fornendo piena collaborazione agli inquirenti per consegnare copia dei fascicoli dei dipendenti demansionati e trasferiti. La Società fa sapere di avere piena fiducia nell’operato della magistratura e si dice certa di dimostrare la assoluta regolarità delle pratiche di accesso alla cassa integrazione e al prepensionamento”.
Il Fatto 22.3.18
L’Onu stronca la Polizia arbitro della verità sul web
Il relatore per la libertà di espressione contro il piano Minniti di usare la Postale per combattere le “fake news” durante le elezioni: “Pericolo per la democrazia”
di Carlo Di Foggia
La sintesi è durissima: la lotta alle fake news messa in piedi dal ministero dell’Interno viola la libertà di espressione dei cittadini italiani ed è “incompatibile con gli standard internazionali fissati dalle leggi sui diritti umani”. Parole del Relatore speciale per la promozione e la tutela del diritto alla libertà di opinione e di espressione dell’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu. In una lettera di 5 pagine inviata ieri al governo italiano, l’inglese David Kaye fa a pezzi lo strumento istituito dal ministero durante la scorsa campagna elettorale, bollandolo come un’iniziativa da Paese non proprio democratico.
Breve riassunto. Il 18 gennaio scorso, il ministro Marco Minniti e il capo della polizia Franco Gabrielli hanno presentato il cosiddetto Red Button per segnalare le fake news (definite “notizie false”) direttamente dal portale del commissariato digitale della polizia postale. Una scelta che ha scatenato polemiche feroci, visto che non è compito dello Stato stabilire la verità, anche perché vincolata solo alla durata della campagna elettorale. Attraverso il pulsante gli utenti potevano “indicare contenuti attribuibili a notizie false” attivando così gli agenti della postale, incaricati di “viralizzare contro-narrative istituzionali”, scrive Kaye, cioè dare risalto a smentite ufficiali. In un primo comunicato la polizia parlava addirittura di “oscuramento di contenuti inappropriati”, senza specificare quali, e “identificazione degli autori”, salvo poi eliminare il passaggio (senza comunicarlo). Queste cose le può decidere solo un giudice, non la Polizia.
Nella sua lettera Kaye si dice “preoccupato” e chiede al governo di ripensare il provvedimento, che cozza con gli standard internazionali per la tutela della libertà di espressione. Secondo il Relatore Onu, il “pulsante rosso” è incompatibile con i criteri di “legalità, necessità e proporzionalità” fissati dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici – sottoscritta dall’Italia nel 1978 – in difesa del “diritto di ogni individuo di avere un proprio parere senza interferenze e di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni tipo e con qualsiasi media”. Secondo l’Onu, i criteri per individuare le fake news fissati dal protocollo della Polizia sono “indefiniti e quindi sollevano preoccupazioni sulla loro vaghezza”. Non solo. Il protocollo lega la lotta alle fake news alle leggi penali contro la diffamazione, che in Italia, secondo Kaye, sono già molto pesanti perché impongono “sanzioni significative”. L’Onu cita un rapporto dell’ottobre 2016 che parla di oltre 5000 denunce per diffamazione presentate in Italia ogni anno. Secondo il documento, nel 2015 i tribunali hanno condannato 475 giornalisti per accuse di diffamazione, con 320 condannati al pagamento di un’ammenda e 155 a pene che prevedono la reclusione. “Sono preoccupato – spiega il relatore dell’Onu – che ciò conferisca al governo una discrezionalità eccessivamente ampia per perseguire dichiarazioni che sono critiche nei confronti di personalità pubbliche e politiche. La mancanza di chiarezza su come opererebbe il Protocollo, unita alla minaccia di sanzioni penali, solleva il pericolo che il governo diventerà arbitro della verità nel campo pubblico e politico. Di conseguenza, temo che il Protocollo sopprimerebbe in modo sproporzionato un’ampia gamma di condotte espressive essenziali per una società democratica, comprese le critiche al governo, le notizie, le campagne politiche e l’espressione di opinioni impopolari, controverse o di minoranza”. Secondo Kaye, insomma, la lotta alle fake news tentata dal governo italiano è molto più pericolosa per la democrazia delle stesse fake news. Il Relatore dell’Onu sollecita l’esecutivo a prendere in considerazione “misure alternative”, come “la promozione di meccanismi indipendenti di controllo dei fatti, il sostegno dello Stato a mezzi di informazione pubblici indipendenti, diversi e adeguati, e l’educazione pubblica e l’alfabetizzazione mediatica, che sono stati riconosciuti come mezzi meno invasivi per affrontare la disinformazione e la propaganda”. Considerazioni che in tempo i datagate sembrano scritte non solo per il caso italiano, ma quasi ad arginare, per così dire, la tendenza di certi pezzi di classe dirigente in diversi Paesi di scegliere la scorciatoia della censura di Stato invece di capire come mai l’elettorato non vota come vorrebbero.
“L’iniziativa aveva il solo scopo di facilitare, in un periodo pre elettorale, la possibilità per i cittadini di segnalare una notizia falsa che avrebbe potuto condizionare “l’opinione pubblica orientandone pensiero e scelte”, ha spiegato ieri il Viminale. Il contrario dei rischi rinvenuti da Kaye. Dopo il 4 marzo, il ministero ha rimosso il “Pulsante”. Sui suoi risultati è buio fitto. Secondo il Corriere, a fine febbraio erano state “bloccate” “128 fake news”. Come riportato da Valigia blu, però, gli unici risultati disponibili parlano di sole 14 smentite di fake news.
Il Fatto 22.3.18
Cari dem, fate un referendum per le alleanze
di Luisella Costamagna
Caro Partito democratico, ora che, come si dice a Roma, sei “arrivato” – ma, per carità, non poniamo limite al peggio – è il caso davvero di guardarsi in faccia e dirsi la verità.
Personalmente, ho sempre considerato naturale un incontro tra te e il M5S. Già nel 2013 ho pensato – sbagliando – che potesse/dovesse esserci sintonia tra voi su molti temi: ambiente, lavoro, battaglie civili, tagli a privilegi e costi della politica, questione morale, lotta a corruzione ed evasione fiscale… Mi sbagliavo, perché in questi 5 anni abbiamo visto tutt’altro. E non solo per colpa di Renzi.
Forse – dico forse – il M5S ha svelato un Pd e un centrosinistra imprevisti, illuminando ciò che erano stati per 20 anni di apparente opposizione al centrodestra berlusconiano. Forse – dico forse – il M5S è stato una sorta di cartina al tornasole, che ha spinto molti tuoi elettori a pensare (capire) che quella che avevano creduto opposizione in realtà era consociativismo (inciucio) su (quasi) tutto, e che le distanze erano sempre più sintonie.
Forse – dico forse – è per questo disvelamento progressivo che ti hanno bocciato il 4 marzo e hanno scelto le Stelle. Le analisi del voto sono chiare: i nuovi elettori 5S sono arrivati dall’astensione e – oltre 2 milioni – dal Pd e da chi nel 2013 aveva votato Scelta Civica; ora chi glielo spiega agli autorevoli editorialisti del “populismo” iracondo, che nel Movimento c’è più sinistra che destra e tanti moderati?
Ma il passato è passato, guardiamo al futuro: sai che forse – dico forse – queste elezioni possono essere per te una grande occasione? Come? Accordandosi su alcuni punti programmatici col M5S e sostenendo un suo governo. Tipo: taglio dei vitalizi (la legge Richetti non era tua?), nuova legge elettorale, reddito di cittadinanza (quello d’inclusione non è targato Pd?), superamento della Legge Fornero e del Jobs Act (quanti tuoi parlamentari le hanno votate obtorto collo?), etc…
Quali vantaggi avresti dall’offrire i tuoi voti senza avere in cambio poltrone? Intanto sarebbe epocale, e poi forse – dico forse – potresti recuperare credibilità di fronte al tuo elettorato smarrito (hai detto niente); per una volta, potresti tener fede alla parola data in campagna elettorale: “Non bisogna consegnare il Paese alle destre”; potresti essere un controllore inflessibile dell’azione di governo (facendolo “ballare” in caso di misure non condivise); ultimo, ma non ultimo, potresti realizzare davvero quel “senso responsabilità nell’interesse del paese”, di cui tutti vi siete riempiti costantemente la bocca in questi anni, per poi – altrettanto costantemente – rimangiarvelo.
Pensi che i tuoi non vogliano? Fai come l’Spd in Germania: un referendum alla luce del sole per chiedere agli iscritti se sostenere un governo grillino su quei punti o uno di centrodestra (a trazione leghista) o stare all’opposizione. L’ho proposto 10 giorni fa, ricevendo i cinguettii ironici di Anna Ascani: “Di Maio e Salvini non sono la Merkel” (Berlusconi, Alfano e Verdini, sì?). Difatti ora l’idea sta facendo breccia tra i dirigenti: il reggente Martina, Emiliano, Cuperlo, Richetti, Chiamparino, pure Rosato.
E più di loro contano gli elettori, che forse – dico forse – la pensano come me.
Un cordiale saluto.
La Stampa 22.3.18
La corruzione pulviscolare è il rumore di fondo del Paese
Il procuratore di Roma Pignatone: “Il malaffare è misero, deprimente e quotidiano. Triste ma doveroso registrare l’aumento dei magistrati coinvolti”
Pubblichiamo un estratto dall’intervento del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, che sarà oggi a un convegno organizzato dall’università degli studi di Firenze-Dipartimento di scienze giuridiche su «Il volto attuale della corruzione e le strategie di contrasto tra diritto vivente e prospettive di riforma», con il patrocinio della Scuola superiore della magistratura e l’Ordine degli Avvocati di Firenze.
In primo luogo c’è una «corruzione pulviscolare», quella che qualcuno ha definito il rumore di fondo della corruzione: una miriade di fatti, anche di minima entità, basati sullo scambio di somme anche modeste con condotte o omissioni del pubblico ufficiale che costituiscono a loro volta quasi una routine. Si pensi alla tolleranza del piccolo abuso edilizio, all’invasione del suolo pubblico, al rilascio di un’autorizzazione di scarso rilievo e così via. Per strappare un sorriso amaro: in un paesino della provincia di Reggio Calabria due agenti di polizia giudiziaria che avevano rivelato a un mafioso l’esistenza di una microspia erano stati ricompensati con un fascio di carciofi.
Di solito questa corruzione pulviscolare è costituita dall’incontro tra soggetti che occupano ruoli burocratici medio-bassi e interlocutori privati dal modesto potere di acquisto. È favorita dalla cattiva amministrazione che rende più difficili i controlli dei processi decisionali, allunga i tempi di risposta e riduce la qualità dei servizi prestati. Almeno di regola questo tipo di corruzione vede un ridotto numero di partecipi, forti legami fiduciari, limitata capacità espansiva.
Naturalmente questo rapporto corruttivo che definirei classico, un do ut des senza intermediari, può anche avere a oggetto somme molto più rilevanti e atti e provvedimenti dei pubblici ufficiali molto più significativi. Un imprenditore romano ha raccontato (avendo cura che si trattasse di reati già prescritti o sull’orlo della prescrizione) di avere pagato praticamente ogni persona che aveva avuto un ruolo, anche minimo, nella trattazione delle pratiche che gli interessavano: dai 50 euro dati al commesso per portare il fascicolo da una stanza all’altra, ai mobili regalati al geometra che per primo l’aveva esaminata, fino alle grosse somme versate al dirigente che aveva il potere decisionale.
Di regola però, quando gli interessi in gioco sono più rilevanti, assistiamo a fenomeni più complessi che Alberto Vannucci, uno dei maggiori studiosi italiani, ha definito, da un punto di vista sociologico, di corruzione sistemica, in cui prevalgono modelli non pianificati di regolazione delle attività dei partecipanti, e di corruzione organizzata, nella quale vi è un riconoscibile centro di autorità che ricopre il ruolo di garante dell’adempimento dei patti di corruzione e di rispetto delle corrispondenti norme di comportamento, grazie alla sua capacità di risolvere dispute e comminare sanzioni così da assicurare ordine, prevedibilità, stabilità nei rapporti. Il garante può essere di volta in volta, in questa analisi sociologica, un partito politico, un clan politico-burocratico, un alto funzionario, un imprenditore o un cartello di imprenditori, un mediatore o un faccendiere o un boss mafioso o, più genericamente, un’organizzazione criminale.
Nell’un caso e nell’altro caratteristica fondamentale è la natura non occasionale né isolata degli episodi; tale natura è invece tendenzialmente stabile, con carattere seriale e con il consolidarsi di una serie estesa e ramificata di relazioni informali, e a volte illegali, tra una pluralità di attori che operano in settori diversi. È quella che, scusandomi per l’autocitazione, ho definito una volta la «deprimente quotidianità della corruzione», commentando le immagini di una dirigente di un’azienda a carattere pubblicistico che teneva la borsa aperta sulla scrivania perché gli imprenditori che andavano a parlare delle loro pratiche vi mettessero, senza che lei dicesse una parola, le buste con il denaro.
Del resto la donna in un’altra conversazione intercettata affermava: «Non c’è un imprenditore che possa dire che non ha pagato per avere l’aggiudicazione di una gara». Comportamenti e affermazioni simili emergono dalle altre indagini svolte in varie parti d’Italia. Per brevità cito solo Grandi Eventi, Expo, Mose e Mondo di Mezzo. In quest’ultima indagine, per esempio, è emerso che tutta una serie di esponenti politici a livello comunale erano a «libro paga» per somme assai modeste - anche solo 1000 euro al mese - ma costanti nel tempo. Ma la bustarella messa nella borsetta della dirigente è un caso limite di estrema semplificazione del rapporto.
In quella che abbiamo definito corruzione sistemica o organizzata si moltiplicano gli attori: da un lato per controllare ogni singolo passaggio - politico, burocratico, imprenditoriale - che porta dal finanziamento alla realizzazione dell’opera, dall’altro per la necessità di interporre tra i protagonisti principali altri soggetti che non solo evitano i contatti diretti, ma apportano anche un loro specifico contributo, fatto di relazioni e di know-how delle questioni più complesse che una legislazione e una prassi sempre più confuse e contraddittorie oggi pongono.
È triste, ma credo doveroso, rilevare che in questi schemi si trovano sempre più spesso anche magistrati - amministrativi, contabili e ordinari - anche perché sempre più di frequente questioni importantissime sul piano economico vengono decise in sede giurisdizionale Questo peraltro è un fenomeno che caratterizza oggi tutte le società occidentali. Sempre più spesso accanto alla “banale” corruzione basata sullo scambio immediato tra denaro e atto del pubblico ufficiale, riscontriamo schemi molto più articolati in cui, come scrive Franco Ippolito, «non c’è più la diretta corrispondenza tra corruttore e beneficiario dell’illegalità politico-amministrativa, perché la corruzione non è più connessa a singole attività amministrative, ma programmaticamente utilizzata da gruppi affaristici come strumento di potere».
Si capisce così, restando sul piano propriamente giuridico, perché non si possa oggi parlare di corruzione senza fare riferimento anche ai reati associativi. E infatti nell’ultimo decennio i delitti di cui agli articoli 416 e 416 bis del codice penale sono stati contestati quasi nel 45 per cento dei casi presi in esame da una ricerca basata sulle sentenze della Corte di Cassazione e relative a casi di corruzione che hanno coinvolto direttamente soggetti detentori di cariche politico-amministrative a livello locale, regionale e nazionale. Il punto di partenza può essere la constatazione del ricorso sempre più frequente da parte delle organizzazioni mafiose ai metodi corruttivi e collusivi piuttosto che alla violenza, fermo restando che mafia e corruzione sono due cose diverse e non necessariamente dove c’è l’una c’è anche l’altra.
La Stampa 22.3.18
Merkel rilancia sull’Islam
“È parte della Germania”
La cancelliera presenta il nuovo governo: priorità a Europa e integrazione
di Walter Rauhe
Integrazione degli immigrati e delle comunità islamiche nella società tedesca, rafforzamento del welfare e dell’equità sociale e sostegno al processo di coesione in Europa. Sono questi i punti salienti del programma di governo per i tre anni e mezzo che restano ad Angela Merkel e al suo nuovo governo di Grande coalizione nell’attuale legislatura. Nel suo primo discorso programmatico al Bundestag dopo la riconferma al suo quarto mandato, la cancelliera cristiano-democratica ha posto un forte accento sul rispetto della comunità musulmana in Germania messo invece in discussione pochi giorni fa dal suo stesso ministro dell’Interno Horst Seehofer (Csu) che aveva invece negato all’Islam l’appartenenza alla realtà tedesca.
«L’Islam è diventato parte della Germania», ha così ribadito Angela Merkel nel corso del suo atteso discorso di fronte ai deputati della Camera bassa del Parlamento tedesco. «Nel Paese vivono 4,5 milioni di musulmani e per me è fuori discussione che sia loro, sia la religione alla quale appartengono siano nel frattempo parte integrante della nostra nazione», ha sostenuto la Cancelliera non indietreggiando di un millimetro sulle sue posizioni a favore della convivenza multi-religiosa e dell’integrazione dei migranti. E tornando sul tema che più ha caratterizzato la sua azione politica nel corso dell’ultimo quadriennio, Angela Merkel ha ribadito il fatto che sia stato giusto accogliere in Germania quasi un milione di profughi provenienti in massima parte dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Iraq, ammettendo solo di aver sottovalutato inizialmente la mole di lavoro legata a questo compito. Una posizione che non ha mancato di chiamare in campo il più forte gruppo d’opposizione al Bundestag, quello della destra populista dell’Alternative für Deutschland. «Non ho il dovere di condividere la mia patria con altri», ha replicato il capogruppo dell’AfD Alexander Gauland. «È Angela Merkel che divide la Germania e che disintegra l’Europa».
Secondo l’analisi della Cancelliera il mondo starebbe attualmente cambiando «in modo epocale». E questo non vale solo per la composizione della nostre società, ma anche per i mercati. Nei settori chiave del Made in Germany come quello dell’auto, della chimica o dei macchinari le sfide sarebbero notevoli tanto che nessuno potrebbe garantire anche in futuro alla Germania gli stessi indici di crescita e prosperità di oggi. All’indirizzo di Donald Trump, Angela Merkel ha rinnovato la sua critica ai nuovi protezionismi e ai dazi. «Non è così che si vince la sfida della globalizzazione. Adottando questi strumenti a perdere sarebbero alla fine tutti». Il suo obiettivo è quello di raggiungere in Germania la piena occupazione entro il 2025, ha concluso la Cancelliera senza sbilanciarsi però su come intende concretamente giungere a questo traguardo. In Germania come in Europa.
La Stampa 22.3.18
Israele svela il raid contro il reattore di Assad e mette in guardia l’Iran sui piani nucleari
Resa nota la missione top secret del 2007 in Siria: “Nessuno può minacciarci”
di Giordano Stabile
Fino al decollo, in una notte tiepida di settembre, i piloti avevano scherzato sui nomignoli dati all’obiettivo, il «Cubo», detto anche «Cubo di Rubik», o «Scatola da aprire», uno dei nomi in codice. Il «Cubo» però era un reattore al plutonio, piantato in mezzo al nulla nel deserto siriano, a poche decine di chilometri da Deir ez-Zour. Erano le 10 e 30 del 5 settembre del 2007 quando i motori di quattro F-16 e quattro F-15, carichi di 16 tonnellate di bombe di tutti i tipi, cominciarono ad andare al massimo. L’aviazione israeliana si lanciava in una delle missioni più delicate della sua storia.
Il governo aveva battezzato la missione «Fruttero», ma non c’era nulla di idilliaco. I cacciabombardieri dovevano volare bassi, a 100 metri di altezza, in territorio siriano, con la strumentazione spenta, in silenzio radio, senza comunicare tra di loro. Fino all’ultimo i piloti erano stati tenuti all’oscuro dell’obiettivo. Sapevano però che avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo di una tremenda battaglia aerea, se Damasco avesse deciso di reagire. Non sapevano che il governo di Bashar al-Assad, per evitare imbarazzi, avrebbe invece deciso di far finta di nulla, e negare persino l’esistenza del reattore. E che la stessa Israele non avrebbe ammesso l’operazione.
Ieri, invece, il governo israeliano ha deciso di rivelare tutto. Un «avvertimento» alla Siria e all’Iran, ora che i venti di guerra soffiano di nuovo forte: «Abbiamo colpito 11 anni fa, possiamo colpire ancora», è il messaggio. A carte scoperte i piloti hanno potuto ora raccontare le loro ore più tese e più belle. «Era un lungo volo, in una notte nera – ha rivelato il colonnello “Amir” ai media israeliani -. Volavamo in un ambiente ostile. Se il sistema anti-aereo siriano si fosse risvegliato, ci saremmo ritrovati in un nido di vipere». Dopo quasi due ore i piloti vedono il «Cubo», una struttura quadrata, 40 metri per 40, che nasconde il segreto del regime siriano. Damasco ci lavora dalla fine degli Anni Novanta. Ma gli israeliani l’hanno scoperto alla fine del 2006, ed è diventato la loro ossessione.
Il Mossad era stato messo in allarme dall’accordo fra Muammar Gheddafi e gli Stati Uniti sullo smantellamento del programma nucleare libico, nel 2003. Gli israeliani erano rimasti all’oscuro. Cominciano a guardarsi attorno. Qualcun altro potrebbe aver avviato un programma simile. È la Siria. Assad ha attivato i contatti con i nordcoreani attraverso il capo della Commissione per l’energia atomica siriana, Ibrahim Othman. Nel marzo del 2007 Othman è a Vienna, a una riunione dell’Aiea. Il Mossad penetra nel suo appartamento. In pochi minuti «svuota» il suo computer. È la svolta. Documenti. E fotografie che dimostrano che dentro il Cubo si cela un reattore atomico a grafite, progettato per produrre plutonio. È un modello britannico, poi copiato dai nordcoreani e riprodotto a Yongbyon. Il Cubo è identico.
Il capo dei Servizi, Meir Dagan, riferisce al premier Ehud Olmert. «Non è più tempo di punti di domanda ma di punti esclamativi», è la sintesi: «Che facciamo?». Olmert risponde: «Distruggiamolo». C’è poco tempo per preparare la missione. Il ministro della Difesa Ehud Bara frena, vuole essere sicuro. Alla fine è il capo di stato maggiore a convincerlo: «I nostri piloti sono i migliori al mondo, fidati». Olmert è in contatto con il presidente americano George W Bush. La Casa Bianca è divisa, il vicepresidente Dick Cheney vorrebbe che fosse l’America a colpire, per «dare un avvertimento» ai nemici, cioè l’Iran. Alla fine Bush dà l’ok all’operazione israeliana.
E’ da poco passata la mezzanotte quando i piloti vedono il Cubo, grigio, confuso nell’oscurità. «Succede tutto in pochi secondi – racconta il colonnello “Amir” -. Tremende esplosioni illuminano la notte. Il sito è coperto di fumo, poi si vede che è demolito». Uno degli F-16 ha il compito di comunicare il successo alla base. La parola in codice è Arizona. Sono le 12 e 25. I piloti devono però tornare e a questo punto le difese siriane sono allertate. Puntano a Nord, verso la frontiera con la Turchia. La costeggiano a bassissima quota. Tutto sul filo, ma all’una e 30 gli aerei atterrano alla base.
«Tutti saltavano su è giù – ricorda ancora il colonnello -. C’era un’euforia indescrivibile. Quando siamo atterrati ad attenderci c’era il comandante della base di Hatzerim, Shelly Gutman. Ci ha abbracciati e si è lasciato andare: “Siete i campioni”». Ora i piloti potranno essere decorati per la missione. Ma il racconto di quella notte ha un valore soprattutto politico. Come ha puntualizzato l’attuale capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot, la missione del 2007 è servita a ribadire la «dottrina Begin», cominciata con la distruzione del reattore di Saddam Hussein in Iraq nel 1981: «Israele non accetterà la costruzione di qualcosa in grado di minacciare la sua esistenza». L’Iran è avvertito.
La Stampa 22.3.18
Zuckerberg: “Sono responsabile
Tradita la fiducia della gente”
Il fondatore di Facebook rompe il silenzio: fatti errori, verificheremo ogni app Dalla California partita la prima “class action” per violazione della privacy
di Francesco Semprini
Re Mark rompe il silenzio e ammette le colpe sue e degli alti vertici di Facebook. «Sono responsabile di quello che è successo - dice -. Abbiamo commesso errori, c’è ancora molto da fare», scrive sulla sua pagina personale del social media.
Ha il tono di un sovrano caduto in disgrazia il fondatore del re dei social: «Abbiamo la responsabilità di proteggere le vostre informazioni». «Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati, e se non riusciamo a farlo non meritiamo di essere al vostro servizio» aggiunge il numero uno di Facebook, spiegando in un post sulla sua pagina Facebook che sta lavorando «per capire esattamente cosa è successo e assicurarsi che non accada mai più». «La buona notizia - aggiunge - è che molte misure per prevenire tutto questo sono state già prese anni fa».
Il mea culpa di Zuckerberg pone fine a una gestione pressoché fallimentare dello scandalo da parte dei vertici di Menlo Park, trincerati in un insano silenzio, mentre emergevano elementi sempre più compromettenti della vicenda. Come il fatto che Steve Bannon fosse l’eminenza grigia del «Datagate», secondo la gola profonda Chris Wylie, il quale spiega come la società abbia operato sotto le sue direttive per almeno due anni, dal 2014 al 2016, prima che il timoniere di Breitbart diventasse regista della campagna di Donald Trump.
L’obiettivo era fabbricare profili dettagliati di milioni di elettori americani su cui misurare l’efficacia dei messaggi populisti alla base della cavalcata dell’ex-tycoon in Usa 2016. Bannon provvide anche al finanziamento della società grazie all’aiuto dei suoi amici miliardari, tra cui la famiglia del facoltoso conservatore Robert Mercer. L’ex stratega della Casa Bianca impartiva ordini precisi ad Alexander Nix, il ceo della società sospeso con lo scoppio dello scandalo. Tra questi ci fu il via libera nel 2014 ad una spesa di circa un milione di dollari per acquistare dati personali raccolti anche su Facebook. Bannon a sua volta - riferisce il quotidiano della capitale - ha ricevuto da Cambridge Analytica nel 2016 oltre 125 mila dollari in compensi per le sue consulenze, detenendo fra l’altro quote della stessa per un valore sino a 5 milioni di dollari.
Wylie ha però sottolineato come non sia chiaro se Bannon e i Mercer fossero a conoscenza dei dettagli su come tale raccolta avveniva. All’epoca «non pensavamo a Trump, lui non era nostro cliente né altro», ha precisato. Wylie spiega tuttavia come Cambridge Analytica avesse già scoperto, in occasione del Midterm 2014, come tra i giovani americani, bianchi e di orientamento conservatore, ci fosse simpatia all’idea di un muro per bloccare gli immigrati clandestini ed empatia «all’idea di un leader forte».
La situazione si complica quindi, anche sul piano legale con la prima «class action» intentata nei confronti del re dei social media e di Cambridge Analytica a San José, California, che potrebbe aprire la strada a molte altre per la violazione dalla privacy sui dati. La vicenda tuttavia rischia di avere intricate ramificazioni: non ultimo il fatto che il ministero della Difesa britannico aveva collaborato in almeno due «progetti» con la Scl Group, società madre la cui costola è Cambridge Analytica, garantendole sino al 2013 un posto nella «Lista X», il «bollino blu» accordato ad aziende ammesse a lavorare col governo in settori strategici.
La Stampa 22.3.18
Una galassia di scatole cinesi con un solo obiettivo: gestire dati
Nix, ex capo di Cambridge Analytica, ora fa affari con l’ereditiera Mercer in Emerdata
di Gianluca Paolucci
Martedì sera il consiglio d’amministrazione di Cambridge Analytica (Ca), la società al centro del caso Facebook, ha preso una dura posizione contro il suo amministratore delegato Alexander Nix, che è stato sospeso dalla carica. Ma negli stessi giorni dello scoppio del caso dei dati prendeva forma un nuovo progetto, Emerdata, dove Nix figura a fianco di una serie di manager di Ca e di Rebekah Mercer, grande sponsor di Trump e figlia del controverso miliardario - trumpiano anche lui - Robert Mercer. La sede di Emerdata è allo stesso indirizzo londinese di Ca e di una infinità di società che fanno capo a Nix e che scambiano con Ca manager e fatturati.
Le accuse piovute addosso a Nix, dal datagate ai commenti imbarazzanti registrati e messi in onda da Channel 4 «non rappresentano i valori della società né le sue attività e la sua sospensione riflette la serietà con la quale valutiamo queste violazioni», ha fatto sapere il cda. Problema: di Cambridge Analytica, Nix non è (era) solo il massimo dirigente. È anche co-fondatore e socio. Meglio, dell’articolata galassia di società che compongono il gruppo Cambridge, Nix è in qualche caso socio, in altri proprietario e comunque in tutte ha ruolo preminente. È ragionevole pensare dunque che quei «valori» ai quali fa riferimento il consiglio d’amministrazione abbia contribuito a costruirli.
Tirare le fila di questa galassia di società non è semplice. Non esiste un vero e proprio gruppo e dunque non c’è un bilancio consolidato. Ma una serie di società che condividono il marchio, l’indirizzo, i manager o tutte e tre le cose insieme. Si può partire dalla londinese Scl Elections ltd, il cui nome spiega chiaramente anche la «mission» aziendale ed è anche una delle società più attive della galassia con alcune decine di milioni di euro di fatturato. Nei documenti ufficiali, risulta controllata da Nix. Il 100% della Scl Elections è della Scl Analytics, nella quale Nix figura ancora come titolare del controllo («Ultimate controlling party»). Alla Scl Analytics fanno capo anche il 100% della Scl Communication e della Scl Social. Socio di minoranza della Analytics è la Scl Group, che sembra essere la capofila. Fino a qualche mese fa la Scl Group aveva il 30% della Analytics. Poi il 29 ottobre le carte si sono rimescolate ancora: con uno scambio azionario, la Scl Analytics e Scl Insight diventano azioniste di Scl Group e quest’ultima alza la sua quota in entrambe. Controllata dalla Scl Elections è anche Cambridge Analytica (Uk) che risulta a tutt’oggi inattiva. Sempre alla Scl Elections - e quindi a Nix - fa capo il 19% della Cambridge Analytica Llc, la società americana che è anche quella realmente operativa. Da sola, ha generato oltre 24 milioni di ricavi per la Scl Elections nel 2016 contro i 12,5 milioni dell’anno precedente. Difficile dire come tutto questo stia insieme ma in qualche modo ci sta. Gli analisti che hanno illustrato ai media il lavoro fatto per la campagna di Trump si presentavano come Cambridge Analytica e rispondevano agli indirizzi email di Scl Group, per dire.
Poi nell’agosto scorso compare una nuova società, Emerdata. Nella quale entrano alla spicciolata alcuni manager di Cambridge. Compreso, nel gennaio scorso, lo stesso Nix. Nella Emerdata entrano anche, il 16 marzo, Rebekah e Jennifer Mercer, figlie di Robert Mercer, miliardario e grande finanziatore della campagna di Trump per le elezioni presidenziali, sostenitore della Brexit nonché uno dei principali finanziatori di Cambridge Analytica.
Partner di Emerdata - due milioni di sterline di capitale e sede allo stesso indirizzo di Canary Wharf dove hanno sede le società della galassia Scl, presso uno studio di commercialisti - è anche un uomo d’affari di Hong Kong, Ko Chun Shun, socio nel gruppo della logistica Frontier di un altro miliardario americano molto vicino a Trump: Erik Prince, fondatore della società di contractor Blackwater. Nei documenti di Emerdata, Ko Chun Shun è registrato allo stesso indirizzo di Hong Kong della sede di Frontier. Ieri è comparsa nei registri britannici un’altra società, Firecrest Technologies. È controllata da Emerdata e l’amministratore unico è Alexander Nix. Emerdata dovrebbe occuparsi di ancora di dati. Con quali «valori» non si sa ancora.
La Stampa 22.3.18
I dati di Facebook condizionano il cliente elettore
di Massimiliano Panarari
Il datagate si ingrossa sempre di più, trascinando nella polvere uno dei pilastri di quel capitalismo delle piattaforme che si è incarnato nella «quadriade» dei Gafa (Google, Apple, appunto Facebook, e Amazon). E proprio mentre Davide Casaleggio – leader para-carismatico di una forma-partito che alla comunicazione online deve tantissimo – celebra sul Washington Post le sorti magnifiche e progressive della democrazia orizzontale internettiana, destinata a scalzare la «castale» versione delegata, ci troviamo di fronte all’emersione di alcune evidenze del lato oscuro del web. E precisamente da qui provengono talune delle molteplici minacce che le nostre affaticate democrazie liberali si trovano a dover affrontare in questi anni, ampiamente sottovalutate dalle classi politiche «di sistema», e altrettanto largamente sfruttate, in tutta probabilità, da parte almeno di quelle anti-establishment.
L’affaire Cambridge Analytica rappresenta la punta avanzata (nella fattispecie, degenerata) del matrimonio tra strategie di marketing e sviluppo tecnologico, a cui va ricondotta la capacità delle piattaforme digitali di acquisire notizie sempre più dettagliate sui propri utilizzatori e clienti. Queste informazioni personali alimentano l’attività di analisi e studio dei Big Data, i complessi e giganteschi aggregati di dati – bisognosi di trattazione mediante algoritmi e tecniche informatiche sofisticate perché enormemente più grandi dei consueti database – con i quali si va molto oltre quella tradizionale suddivisione degli elettori secondo classi socio-demografiche e categorie professionali su cui a lungo si sono costruiti il proselitismo e la comunicazione dei partiti durante il secondo Novecento. E si entra così nello stadio della propaganda computazionale, che consente di effettuare la «superprofilazione». Ogni giorno, navigando sulla rete e interagendo sui social network, gli utenti riversano maree di informazioni sulle proprie preferenze e stili di comportamento; e lo fanno, non di rado, in maniera totalmente inconsapevole, non leggendo le informative oppure dando con leggerezza il proprio consenso per poter utilizzare qualche app (com’è avvenuto nel caso di cui si parla in questi giorni). Si possono così stabilire delle correlazioni estremamente precise e minuziose perché basate su set vastissimi di dati anziché su campioni statistici; e ne deriva, quindi, la possibilità di effettuare previsioni sempre più attendibili e accurate sul comportamento dei soggetti. Attraverso le tecniche di data mining si rivela così possibile delineare la propensione di voto del singolo individuo, e con quelle di microtargeting focalizzare la comunicazione per fargli arrivare messaggi iperpersonalizzati. Come pure «spacchettare» e differenziare lo stesso messaggio, inviandolo in modo ancora più mirato ai destinatari già individuati come propensi a seconda del sottogruppo socioculturale a cui appartengono.
Vista la pervasività delle tecnologie digitali nella nostra vita, e la valenza dei social media di dispensatori praticamente esclusivi di news per tanti dei loro fruitori, alla categoria di cittadini-elettori dovremmo affiancare quella di utenti-elettori. L’ennesima metamorfosi di quell’idea di opinione pubblica su cui si fondano i nostri fragili (e irrinunciabili) sistemi politici rappresentativi, le cui classi dirigenti si sono rivelate impreparate, una volta di più, ad affrontare una mutazione di grande portata. Il «Leviatano 3.0» (i colossi high-tech), nei suoi momenti di scontro con quello «1.0» (lo Stato nazione), si è largamente avvalso della narrazione della Rete come infinita e immateriale casa di vetro – tante sono le conferenze in materia di Mark Zuckerberg. Centinaia di migliaia di iscritti a Facebook si sono ritrovati invece dentro a un Panopticon. Ed è proprio questa dimensione al tempo stesso «totalitaria» e assai strumentale dell’ideologia della trasparenza che oggi, al cospetto del suo evidente naufragio – tra black propaganda, disprezzo della privacy e occultamento dei profitti in vari paradisi fiscali – andrebbe rimessa con forza in discussione nel discorso pubblico.
Corriere 22.3.18
Dai like ai profili
Perché il caso riguarda tutti noi
di Davide Casati
Un numero enorme di azioni che compiamo ogni giorno genera dati. La tessera fedeltà del supermercato, la geolocalizzazione del cellulare, una chat. Ecco una piccola guida per capire le conseguenze.
L a previsione era lì, in bella vista, a pagina 13 del documento annuale presentato poche settimane fa alla Sec, la Consob statunitense. «Non possiamo garantire, nonostante i nostri sforzi, la sicurezza assoluta e l’uso corretto dei dati dei nostri utenti»; se qualcosa andasse storto, «il nostro business, la nostra reputazione e i nostri risultati finanziari ne sarebbero gravemente danneggiati». Firmato: Mark Zuckerberg. Il caso Cambridge Analytica, rivelato da Observer e New York Times , ha mostrato al mondo i danni che a Facebook può provocare una scarsa trasparenza su eventuali usi scorretti dei dati raccolti attraverso il social network. Ma quali conseguenze hanno, sui cittadini, i meccanismi portati sotto i riflettori da questa vicenda?
Questionari mobili
Per capirlo non serve andare lontano. Un numero enorme di azioni che compiamo quotidianamente, infatti, genera dati. La tessera fedeltà del supermercato, la geolocalizzazione del cellulare, un servizio di chat: e sono solo alcuni esempi. Quei dati — preferenze di acquisto, posizione, contatti — possono essere venduti a società in grado di usarli per fini diversi: dalla ricerca alla creazione di campagne pubblicitarie «chirurgiche». Facebook — che deriva il 98% dei suoi ricavi dagli spot: cioè dalla vendita ad aziende dell’attenzione dei suoi utenti — ha un’enorme capacità di raccolta di dati (forniti dagli iscritti) e di segmentazione dell’audience (cioè di creazione di gruppi omogenei per caratteristiche e preferenze). Tutto questo può avere lati positivi: una pubblicità che intercetti i gusti degli utenti fa felici aziende e consumatori. Ma c’è anche un lato meno scintillante. Per scoprirlo bisogna partire dalle parole di uno psicologo e data scientist , Michal Kosinski: «Il nostro cellulare è un enorme questionario psicologico che, consciamente o no, compiliamo di continuo».
170 like
La data in cui la rivoluzione digitale si mostrò in tutta la sua potenza è il 2013. Fu allora, con uno studio pubblicato sulla rivista Pnas , che Kosinski — all’epoca dottorando all’università di Cambridge — mostrò la possibilità di predire caratteristiche sensibili di un utente basandosi su un piccolo numero di like su Facebook. Ne bastano 170, scrisse, per capire ad esempio etnia, tendenze sessuali e preferenze politiche di una persona. I social si trasformarono, immediatamente, in database in grado di fornire profilazioni perfette su elementi di incalcolabile delicatezza. «Non ho costruito questa bomba», si è poi giustificato Kosinski, «ho solo mostrato che era lì». Nel cratere di quell’esplosione si è mossa Cambridge Analytica: acquistando milioni di dati è riuscita, secondo il suo ad, Alexander Nix, ad avere i profili di un numero enorme di elettori americani, e a garantire ai suoi clienti la possibilità di inviare messaggi personalizzati a ognuno di loro, sfruttandone paure, bisogni e probabili comportamenti. Dati di importanza fondamentale perché — spiegava ancora Nix — «la personalità guida il comportamento, e il comportamento influenza il voto».
«Determinismo tech»
Lo stesso Nix mostrava, in una presentazione del 2016, come le tecniche di profilazione psicografica avessero reso possibile trasformare Fb (e le tv via cavo) in campi di propaganda di inedita perfezione. «Attenzione, però, al determinismo tecnologico», avverte Dino Amenduni, dell’agenzia di comunicazione Proforma. «Quel che non sappiamo, e forse non sapremo mai, è quanto davvero i metodi psicometrici abbiano influenzato l’esito del voto alle presidenziali Usa, o al referendum sulla Brexit. Si tende spesso a sopravvalutare l’impatto della comunicazione: che resta, ed è un bene, secondaria rispetto alla politica».
Trasparenza
Resta aperto, continua Amenduni, un tema di trasparenza. Tanto più grave se si considera, scrive la ricercatrice Zeynep Tufecki, come «il modello di business di aziende come Facebook si fondi, di fatto, sulla possibilità di una profilazione priva di qualunque cosa si possa ragionevolmente definire consenso» e «destinata a essere usata in modo opaco». Il disinnesco della «bomba» di Kosinski passa, inesorabilmente, da una convivenza informata, e da una richiesta di regole più chiare. «Se non sappiamo proteggere i dati, non li meritiamo», ha detto ieri Zuckerberg: in un’altra, dolorosa, previsione.
Repubblica 22.3.18
Il caso Cambridge Analytica
Il mea culpa di Zuckerberg
di Federico Rampini
L’etica protestante non è acqua. E così Mark Zuckerberg esce dal suo silenzio sugli scandali di Facebook con classe: si assume ogni responsabilità, la colpa se la prende tutta, s’impegna a rimediare. Recita la parte del cherubino, per la quale ha ancora l’età giusta e il volto perfetto. Però non convince. Dopo lunghe giornate di un mutismo che stava diventando misterioso e insostenibile, ci si poteva aspettare molto di più. Il 33enne che siede su una fortuna di 70 miliardi, fondatore e chief executive del social media più diffuso del mondo, riconosce che c’è stato un « abuso di fiducia » ai danni degli utenti ( si riferisce a quei 50 milioni di americani la cui privacy è stata saccheggiata e venduta a una società che lavorava per la campagna elettorale di Trump). Si fa carico della «responsabilità di proteggere i vostri dati». E se questa responsabilità viene tradita, « noi non meritiamo di servirvi».
Linguaggio nobile. Che s’inquina subito dopo, quando è seguito da un’affermazione stridente, sconcertante: «Sto lavorando per capire esattamente cos’è accaduto e come garantire che non accada più». Fastidioso déjà vu: promesse solenni di non cascarci più vennero pronunciate anche dopo lo scandalo precedente, quello sulle fake- news disseminate dai russi, via Facebook, per aiutare Trump in campagna elettorale. Poi per quanto riguarda i 50 milioni di utenti “violati”, è una storia che comincia due anni fa, di cui il top management di Facebook è al corrente da molto tempo. È verosimile che Zuckerberg stia ancora cercando di capire cos’è successo?
Lo abbiamo già capito tutti, cos’è successo. Nulla di anomalo, business as usual. Basta leggersi per esempio l’accurata ricostruzione che il magazine
Fortune fa del modello imprenditoriale di Facebook. La fonte di fatturato e di profitti di questa società, il nucleo duro della sua vocazione aziendale, è la vendita della nostra privacy. È impressionante l’elenco delle “ chiavi d’accesso” alla nostra vita privata (digitale), a partire dall’indirizzo Ip che porta incollato a sé ogni clic, ogni carezza del pollice sul display, ogni sito che visitiamo. Le nostre amicizie e le nostre preferenze politiche, i nostri consumi e i nostri valori, il nostro reddito e i nostri spostamenti geografici, tutto è registrato, memorizzato, tariffato, venduto. In più, ogni volta che “ condividiamo” con gli amici un parere su un fatto di attualità, un commento uscito su un giornale, stiamo facendo una sorta di delazione, segnaliamo al marketing del pensiero e al “ commercio dell’attenzione umana” tutti gli appartenenti alla nostra tribù.
Certo a questo punto un dilemma etico, civile e politico dovremmo cominciare a porcelo noi tutti: a partire da quale momento, con quale livello di consapevolezza, abbiamo firmato il patto leonino per cui vendiamo la nostra anima ai social media, in cambio di un po’ di servizi gratuiti? L’apparente gratuità — apparente perché in quel gioco siamo noi i prodotti in vendita a pagamento — è l’offerta che ci ha allettati e corrotti, attirandoci in questa trappola. Ma l’ultimo a poter fare l’ingenuo, a fingere di “ dover capire cosa sia successo”, è Mr. Mefistofele in persona.
Ora comincia un movimento di rivolta, perfino il co- fondatore di Whatsapp ( società comprata da Facebook) invita gli utenti a cancellarsi e uscire dal social media. Si fanno più pressanti gli appelli per interventi legislativi duri, qualcuno evoca uno “ spezzatino”, uno smembramento da antitrust. Se vuole arginare questo tipo di reazioni, Zuckerberg deve offrirci molto di più di quella laconica autocritica- con- promessa. Oppure… può fare surf sull’onda in stile californiano, recitare l’atto di contrizione, e investire altre centinaia di milioni nel lobbismo che gli garantisca l’indulgenza di Washington. Magari la farà franca ancora una volta. Ma questo dipenderà anche da tutti noi.
Repubblica 22.3.18
Dal meeting del 2013 a Londra
La mappa, il lavoro sull’Italia e l’identikit simile a Fdi (e Lega)
Per Cambridge Analytica il nostro paese era da tempo un mercato su cui puntare
Nel 2016 spunta un filmato con la scritta “Scl Italy”. In queste ore però tutti smentiscono
di Gianluca Di Feo Giuliano Foschini Fabio Tonacci
Sul grande schermo appare una mappa dell’Italia. Lentamente si illuminano migliaia e migliaia di puntini. Prima azzurri, poi gialli, verdi, rossi. Ogni puntino, un utente. Ogni utente, un potenziale elettore. Siamo nella sala conferenze della Scl di Londra, casa madre dell’affiliata Cambridge Analytica: lavora con i militari britannici, americani e della Nato, gestendo anche l’offensiva social contro il terrorismo islamico. E sono quelli che offrono il più avanzato e intrusivo strumento di propaganda elettorale.
Gli elettori italiani
I colori sullo schermo sono i “gruppi psicografici”, i votanti selezionati per valori, stile di vita, interessi, attitudini. I puntini si sovrappongono; non ci sono territori omogenei, salvo una predominanza di azzurri in Sicilia e Sardegna. Permettono di individuare i soggetti a cui rivolgere il messaggio politico del cliente: il modo migliore per indirizzare tramite web, social o spot tradizionali gli slogan giusti alle persone giuste, fino ad orientarne il voto. Quelli di Scl spiegano di poter trattare i dati in modo da profilare anche in aree limitate – una regione o una singola città – o selezionando interessi molto specifici. Usano il verbo inglese “manipulate”, che tradotto nella nostra lingua assume un significato sinistro.
Siamo alla fine del 2013, e ora Repubblica è in grado di ricostruire quel meeting. Scl ripete agli interlocutori in sala di avere già operato in Italia, per un partito che «ebbe gli ultimi successi negli anni Ottanta» e – grazie anche a loro – aveva ottenuto alle elezioni un risultato superiore alle previsioni.
Sembrano, dunque, avere già la disponibilità di dati sui votanti italiani. Ma non spiegano come li hanno avuti. Né fanno nomi del partito per il quale hanno lavorato. Da maestri della comunicazione quali sono, lasciano intuire che si tratta di un movimento molto a destra, l’area che in Europa ha fornito i clienti migliori e più discreti.
La caccia al partito
L’identikit sembra coincidere con Fratelli d’Italia, fondato nel dicembre 2012 e premiato solo due mesi dopo dalle urne con nove deputati. Fdi recupera il vecchio marchio del Msi, la fiamma scomparsa con la Prima Repubblica ma sempre più forte in Francia con il Front National lepenista, spesso citato tra i referenti di Scl e di Cambridge Analytica. «Non sappiamo di cosa state parlando», rispondono dall’ufficio stampa del partito di Giorgia Meloni.
A cavallo tra il 2012 e il 2013 Fratelli d’Italia stava cercando un modo per costruirsi una reputazione sui social network.
Lo racconta Marco Baldocchi, dell’agenzia di comunicazione lucchese On Web che a marzo del 2013 venne contattato da un intermediario di Fli. «Ci chiesero uno studio sul sentiment online, per individuare i loro punti di forza e di debolezza. Lo abbiamo realizzato, ma l’intermediario non si è più fatto vivo».
In queste ore i partiti maggiori interpellati – Movimento Cinque Stelle, Partito Democratico e Lega– smentiscono anche solo di avere avuto contatti con i manager della Cambridge finita sotto inchiesta in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e forse anche in Italia. Il Garante italiano della privacy, infatti, sta valutando l’apertura di un’istruttoria.
I sospetti rimangono.
Secondo Gian Luca Comandini, fondatore del movimento “10 volte meglio” e a capo di una società di comunicazione che ha gestito le campagne di diversi candidati alle ultime politche, nel 2016 la Lega di Matteo Salvini pensò di rivolgersi a Cambridge.
«A quel tempo lavoravo con un esponente di spicco della Lega e si parlava di contatti con l’azienda londinese. Non credo però che si concretizzarono».
Il leak del video aziendale
Del resto che Cambridge Analytica considerasse da tempo l’Italia un mercato in cui espandersi lo dimostra un video interno girato da uno degli analisti di Scl Elections, il ramo politico della compagnia.
Documenta una riunione nella sede di Londra dell’aprile 2016 durante la quale, stando alla sovrimpressione “Scl Italy?”, si discuteva dell’apertura di una filiale nel nostro Paese. Nello staff hanno almeno cinque ricercatori italiani inquadrati come “data scientists”: informatici e psicologi esperti in ingegneria sociale, laureati in Italia e con master all’estero.
Giovanni Doni è uno di questi. Su LinkedIn si trova ancora il suo post, scritto dopo il 4 marzo, intitolato Jeu de Paume. A proposito di un possibile accordo 5 Stelle-Lega, scrive: «Lasciate che Robespierre governi, mentre l’Ancient Regime si riorganizza», riferendosi a Forza Italia e al Partito democratico. Il Pd conosce bene le modalità operative di Cambridge Analytica. «Prima del referendum», racconta una fonte accreditata del Nazareno, «prendemmo contatti con una società americana che svolgeva un lavoro molto simile. Volevamo lanciare la app Matteo Renzi ma ci accorgemmo che questi signori, installata l’applicazione, davano la possibilità al software di accedere alla rubrica telefonica dell’utente. Ci sembrò una violazione importante della privacy. Lasciammo perdere».
Il Fatto 22.3.18
“Non saremo mai occidentali: Putin incarna il popolo”
Lo scrittore ribelle e l’ossessione per il potere dei russi, l’orgoglio nei confronti dei “nemici”, i candidati-finti “inventati” da Vladimir
di Michela A.G. Iaccarino
Il bandito della letteratura russa guarda nello spioncino, decide che non c’è pericolo e apre la porta all’ultimo piano di un palazzo giallo, due passi da piazza Majakovsky. Mosca è ancora in pochmelie, sbornia elettorale. Davanti la muraglia di carta dei suoi libri in traduzione, in una delle tre stanze di casa, Limonov sorride pallido.
La prima parola è vybori, elezioni.
Il problema non è come si contano i voti, il problema è la lista dei candidati, un menu preparato dai Servizi di Putin. Candidati scelti unicamente per le loro non qualità, deboli che non avrebbero mai vinto una competizione con lui.
C’è qualcuno che può competere davvero con lui oggi in Russia?
Viviamo in un mondo politico artificiale. Dico quello che nessuno dice: le elezioni sono finite quando i candidati sono stati scelti, tutto il resto non era necessario. Guarda chi sono: Sobchak. Grudinin, che nessuno sa chi è. Un piccolo oligarca capitalista, che si definisce comunista, un non senso. Gli altri sono vecchia guardia, persone finite, monumenti di loro stessi, come Zhirinovski. Quando Putin ha preso la Crimea, ha avuto l’approvazione dei russi, la cosa migliore ora era risparmiare i soldi delle elezioni e nominare Putin di nuovo capo dello stato, perché, in realtà, è proprio quello che è successo.
E adesso?
La Russia diventerà più patriota, nazionalistica. Questo probabilmente è l’ultimo mandato per Putin, credo che sia la fine della sua éra. Ma qualcun altro verrà, e lui o lei, sarà obbligato a seguire i desideri delle popolo: eguaglianza sociale e riunire tutti i russi in uno Stato, come è successo con la Crimea, storicamente russa. Ci amavano tutti prima del 2014, eravamo obbedienti membri della comunità mondiale, leader come Gorbaciov, Eltsin hanno dato all’ovest tutto ciò che voleva. Ora è finita, la Russia vuole la sua parte di potere nel mondo. Insisteremo nel nostro diritto di essere come siamo, dopo Putin qualcuno verrà e obbedirà al popolo, che ora ha influenza, ma non con le elezioni. I russi amano essere una grande potenza, questa è la nostra ossessione, la nostra malattia.
Malattia?
Sì, siamo malati di mania di grandezza. Siamo stati sempre un impero, i grandi della Seconda guerra mondiale, abbiamo preso Berlino, questo ci è andato alla testa. Ma anche al cuore. Possiamo vivere molto male, per essere una grande nazione, è la nostra specialità.
Il popolo russo sa sacrificare la sua felicità per la Grande Madre Russia. E la libertà?
Abbiamo le nostre libertà, molte non sono possibili nemmeno all’ovest, quella politica nemmeno in America, dove ho vissuto. Ma io sono uno scrittore, un politico, non un borghese. La libertà non l’ho ceduta mai, nemmeno in prigione, ho sempre fatto quello che volevo, che si fottessero.
Dalla Russia al Russiagate di Trump.
Se fossi io il presidente russo, ci sputerei sopra. Hai visto invece Putin nelle interviste di Oliver Stone? È costantemente ossessionato dalle relazioni con l’America, con l’Ovest. Gli Usa sono messi male, di cosa cazzo si preoccupa? L’America non vuole dividere il potere, vogliono dettare la politica del mondo, fanno solo finta di non capire la Russia.
Non ci sarà mai un buon rapporto tra Russia e Occidente?
No, non ci sarà mai e non c’è mai stato.
Perché si relazionano alla Russia con valori occidentali?
La verità è che i valori dell’Occidente sono stati distrutti: da loro stessi, dalle circostanze, dai migranti in arrivo in Europa, dal confronto con il mondo islamico, quando sono esplose le torri americane. Ci sarà meno tolleranza, il mondo assomiglia sempre più a una merda, è sempre più razzista, più fascista.
Fascista? Ma c’è Mussolini sul suo anello.
Sì, e allora? Ho anche questi: guarda, un fossile di migliaia di anni fa e un totem primitivo simbolo del potere, li colleziono.
Fossili e totem. Torniamo all’Europa?
Io non c’ero alla fine dell’Impero romano, ma l’Europa mi sembra così adesso. Il risultato della crisi è imprevedibile. Le restrizioni cadono, milioni di migranti arrivano con un’altra cultura. Il poeta russo Lev Gumlev ha studiato la storia della Cina, con le orde dei mongoli che la invadevano costantemente, vivere insieme era impossibile, un massacro continuo. L’Europa probabilmente non legge Lev Gumlev. Solo gli stupidi yankee e gli stupidi europei potevano pensare che il mondo si potesse rendere omogeneo.
L’Europa e la Russia confinano in Ucraina. Lei ha previsto la guerra in Donbass in un’intervista del 1992.
Ho saggezza, ho esperienza. Ho visto cosa è successo in Serbia. L’Ucraina ora è una colonia occidentale, ma se vogliono essere ideologicamente puri, i ragazzi devono restituire le regioni polacche, ungheresi che sono entrate a far parte del loro territorio con il patto Molotov-Ribentropp. Terre conquistate dai soldati sovietici. Se la Russia vuole prendere Kiev, ha le armi per farlo, ma al Cremlino ci sono dei mezzi liberali, che solo nel 2014 con Maidan si sono svegliati e si sono ricordati che erano russi, che dovevano occuparsi di milioni di russi che vivono in Ucraina. Al Cremlino sperano ancora di poter fare patti con l’Ovest. Io credo il contrario, la Russia non farà mai parte del mondo occidentale, che ci guarderà sempre come barbari del nord.
Lei è lo scrittore e combattente russo Limonov, l’eroe del romanzo di Carrère?
Con quel libro ora mi conoscono anche in Giappone, fino in Brasile. Mi sento come uno scrittore morto che è stato resuscitato all’improvviso. Ma Carrère ha capito male molte cose, gli ho promesso di non riferirle mai, quindi non te le dirò ora.
Repubblica 22.3.18
Dramma
Caos e casualità la vita difficile dentro Israele
di Paolo D’Agostini
Il regista israeliano Samuel Maoz ( Lebanon) racconta che sua figlia ritardataria cronica pretendeva ogni mattina che le si pagasse un taxi per andare a scuola. Stufo di questi capricci un giorno le ha imposto di prendere l’autobus come tutti.
Quell’autobus è saltato in aria a causa di un attentato terroristico. Ma la figlia ritardataria cronica lo aveva perso. Maoz intende dare un’idea del clima in cui il suo popolo vive. La stessa che alimenta l’andamento surreale del film, diviso in tre capitoli. Padre e madre ricevono la notizia che il figlio, sotto le armi, è “caduto”; poi contrordine: c’è stato un errore. Il figlio, di pattuglia presso un posto di blocco perso nel nulla, viene congedato grazie alle raccomandazioni cui può attingere il padre, ma non prima di una tragedia assurda di cui è responsabile. Il terzo capitolo presenta il conto. Maoz parla di caos, destino, colpa, di una condizione di pressione permanente.
Il Fatto 22.3.18
“La privacy per noi è l’ultimo bastione sacro della libertà”
Il regista di “The Post” e “Ready Player One”: “Sono nato prima della tv”
di Federico Pontiggia
Non solo un blockbuster, ma “un atto di difesa dell’ultima libertà, la privacy”: Ready Player One arriva il 28 marzo nelle nostre sale, il suo regista Steven Spielberg è stato insignito del David di Donatello alla carriera.
Spielberg, perché ha deciso di adattare il best-seller di Ernest Cline?
Non leggevo qualcosa di così entusiasmante dai tempi di Jurassic Park di Michael Crichton, ho pensato subito si potesse trarne un film popolare. Mi ha attratto l’idea di questi due mondi, reale e virtuale: è solo questione di anni, e pure noi avremo l’equivalente dell’Oasis creato da James Halliday, un social network nel cyberspazio.
Anche lei è un creatore di mondi.
E mi identifico in Halliday, con qualche differenza: io non sono totalmente timido, soprattutto, io amo le persone, mentre lui ne ha paura. Anch’io, poi, sono un nerd della prima ora, ma all’epoca non era così popolare esserlo, viceversa, oggi chiunque faccia cinema sembra voglia entrare nel club. Io ho fatto progressi, sono diventato un geek.
Forse non era nerd Stanley Kubrick, ma in Ready Player One gli tributa grandi onori. Omaggia Shining e ricrea l’Overlook Hotel.
L’Overlook Hotel: Stanley per la prima volta l’ho incontrato lì, su quel set. I falegnami e i pittori avevano appena finito di allestirlo, eravamo solo noi due, nessun’altro. È nata una splendida amicizia, durata per 19 anni, fino alla morte di Kubrick.
Nemmeno tre mesi fa ha portato in sala The Post, un peana alla libertà di stampa: che cosa tiene insieme i due lavori?
Possiamo leggere i giornali e contemporaneamente fruire un’esperienza virtuale, innanzitutto. Io i giornali li leggo ogni mattina, di carta, voglio poterli sfogliare. Venendo ai film, The Post è ambientato nel mondo reale, analogico; quest’ultimo nel mondo virtuale, digitale. Per gli effetti speciali di Ready Player One c’è voluto un anno e mezzo, un lasso di tempo in cui ho potuto realizzare The Post.
All’ordine del giorno c’è lo scandalo Cambridge Analytica, un’azienda di marketing online che avrebbe utilizzato scorrettamente una mole di dati prelevati da Facebook. Nel suo film si parla di una “evil corporation” informatica…
La IOI, acronimo di Innovative Online Industries: una multinazionale cattiva, che ha distrutto l’originaria purezza di Oasis per ottenere profitti pubblicitari. Al vertice c’è Nolan Sorrento, che cerca di acquisire il controllo del cyberspazio: Halliday l’aveva tenuto sgombro da spot e shopping, intendendolo quale luogo di gioco, istruzione, amicizia e amore, viceversa, Sorrento vuole inzepparlo di cookies e assicurarsi l’Easter Egg. Un’illusione, Oasis, che la commercializzazione manda in frantumi.
C’è un corollario fondamentale: la minaccia alla privacy.
La distruzione della privacy mette ogni utente a nudo. Tutti desiderano preservarla, e non stupisce: la privacy è l’ultimo sacro bastione della libertà. E Ready Player One suona come un monito. Nel suo prevalente intrattenimento è insito un cautionary tale, una storia ammonitrice, con un messaggio politico: i problemi vanno affrontati nel mondo reale, nel presente. Io ho sette figli e quattro nipoti, il primo ha già avuto lo smartphone. Oggi anche quando i ragazzini si incontrano fisicamente è per giocare online: si perde il contatto visivo, il contatto umano, le emozioni vengono affidate a un emoji. Almeno in Oasis col visore non c’è il problema di dolori al collo e cervicale, viceversa, qui stanno tutti piegati sui telefonini.
Lei è nato nel 1946, un’altra epoca.
Sì, sono nato BTV: Before Television. Noi avevamo la radio, e la guardavamo pure, nel senso, osservavamo la grana della vernice. Poi sono arrivati i primi apparecchi, la tv ha iniziato a sedurre, facendo la guerra al cinema e inchiodando le persone a casa. Ma per me piccolo la grande fuga dalla realtà era la letteratura.
Il David in bacheca e un film su Edgardo Mortara in cantiere, anche Spielberg è un po’ italiano. Nel nostro cinema qualcosa si muove sul versante femminile, Dissenso Comune prende esempio da Time’s Up.
Io e mia moglie abbiamo finanziato Time’s Up, fornisce alle donne vittime di abusi sessuali e ineguaglianza di genere – che per la stragrande maggioranza non sono celebrities – assistenza legale. Da sole non potrebbero sostenerla per cui tacerebbero: è un’azione importante.
Repubblica 22.3.18
Steven Spielberg “Nessun social vale il contatto tra esseri umani”
Il grande regista, che dal 28 marzo torna in sala con “Ready Player One” sulla realtà virtuale, ospite per un giorno negli studi di “Repubblica” intervistato dal direttore Mario Calabresi insieme all’attore Frank Matano
Calabresi: “Ready Player One” è un film per il grande pubblico, ma affronta un tema centrale per il nostro tempo: il rapporto tra virtuale e reale. Perché ha scelto il best seller di Ernest Cline e cosa l’ha convinta a trarne un film?
«Quando l’ho letto per la prima volta ho pensato che fosse una delle storie più originali — e io ne leggo tante — che avessi incontrato sotto forma di libro. A parte il contesto fantastico, mi hanno colpito questi cinque amici virtuali: i loro avatar si conoscono benissimo anche se nella realtà non si sono mai incontrati. Mi piaceva l’idea di questi due mondi vicini e paralleli.
Del resto mi è sempre piaciuta la teoria delle stringhe e degli universi paralleli».
Matano: Come sceglie, oggi, i film? Cosa le fa dire: voglio girare proprio questo film!
«È il film a scegliere me, non il contrario».
Matano: Ha sempre avuto fortuna?
«Possiedo una casa di produzione, posso limitarmi a produrre un film.
È una differenza enorme: devo veramente essere sedotto dalla storia e dall’idea. Solo così diventeranno parte della mia vita».
Calabresi: libro e film ci dicono che il mondo virtuale può essere bellissimo ma anche che è arrivato il momento di prendersi delle pause.
«M’interessava raccontare l’investimento che ognuno di noi fa su un altro essere umano. Il contatto che nutre le nostre anime quando incontriamo gli altri. I nostri figli invece, lo vedo a casa mia, quando invitano gli amici si guardano per un attimo e poi finiscono su Snapchat e Instagram.
E non si guardano più».
Matano: Spesso il racconto del futuro, penso a una serie come “Black mirror”, mostra il lato oscuro della tecnologia. Il suo film è più ottimista. Pensa che la tecnologia sia un’opportunità, che si debbano stabilire regole?
«Io sono come il creatore del gioco del film, Halliday: non credo nelle regole. Credo nello stato di diritto ma non che siano necessarie norme per governare la nostra libertà in rete. Credo che dobbiamo essere governati dai valori, sono questi che contano. Da padre direi ai miei figli: non puoi stare davanti alla tv o connesso tutto il giorno. Impongo un minimo di ordine».
Matano: Lei dipende dallo smartphone?
«Sì, ecco perché l’ho consegnato alla mia assistente: temevo il mio impulso a rispondere anche in diretta. Come in Hook. Ricordate l’ossessione del personaggio interpretato da Robin Williams: impugna un gigantesco cellulare come fosse la pistola di un cowboy».
Calabresi: Che rapporto ha con i social media?
«Li uso per sapere quello che mi serve: le notizie, guardo i titoli la mattina quando mi sveglio. Ma non sono su Twitter, Facebook, Snapchat. Quelle son tutte cose che lascio fare ai miei figli. Ma ne sono consapevole: ho fatto Ready Player One per tutti voi che siete dipendenti».
Calabresi: Il messaggio più forte è che la realtà è l’unica cosa che conta. Quanto è rilevante il rischio di dimenticarlo?
«Capiremo le nostre reazioni quando qualcosa come Oasis esisterà davvero: un luogo virtuale dove poter andare a scuola, avere un’istruzione, trovare un lavoro, sposarci, fare tutto tranne che andare in bagno. Solo allora sapremo se preferiamo un avatar al contatto umano. Per me niente può sostituire il contatto autentico tra esseri umani».
Calabresi: Il film è ambientato in un futuro che sembra la degenerazione del presente: crisi economica e energetica, povertà, sovraffollamento e grandi multinazionali tecnologiche a controllare tutto.
Finirà così?
«Sì, sta già succedendo. E il futuro sarà ancor più controllato dalle grandi multinazionali. Nel film, un enorme conglomerato combatte questi ragazzini: succede anche nella realtà e questo fa paura».
Matano: “Ready Player One” è un trionfo di videogiochi. Lei quando ha cominciato a giocare?
«Quando preparavo Lo squalo e vivevo a Martha’s Vineyard.
Scoprimmo un locale dove c’era un videogioco di tennis. Diventai dipendente, ci andavo ogni volta dopo le riprese. Tornato a Hollywood l’ho comprato e l’ho messo in ufficio. Per cinque anni ho giocato a tutti i giochi in cui dovevi infilare la monetina: Pac-man, Missile Combact... Poi sono passato agli altri. Ora gioco sul computer.
Mio figlio Max progetta videogiochi e sono orgoglioso di lui. Non dovrei dirlo ma gioco anche a Assassin’s creed, che però è troppo violento».
Calabresi: Parliamo di privacy. Nel film un gruppo di giocatori si batte con una multinazionale per il controllo del videogioco che rappresenta l’immaginario collettivo. Diritti individuali e democrazia sono una costante del suo cinema da “Minority Report” a “Lincoln”.
«Sì certo, e mi preoccupa che i nostri dispositivi siano dotati di telecamere...».
Matano: io mi faccio la doccia con i vestiti addosso…
«È un po’ la teoria di Orwell del Grande Fratello. Però qui non è più grande è un piccolo fratello, la piccola sorella: si può essere osservati persino dallo smartphone. E mi preoccupano anche i pubblicitari che sanno tutto di noi in maniera tale da indirizzarci direttamente i loro prodotti. E questo perché le autostrade dell’informazione digitale sono come il vecchio West, luoghi senza legge. E tuttavia temo anche che l’eccesso di regolamentazione limiti la nostra libertà di espressione, le nostre voci. Sono anni spartiacque in cui donne e minoranze stanno davvero trovando la propria voce su Internet. È importante».
Matano: Come si sente prima dell’uscita di un suo nuovo film?
«Devono strapparmelo dalle mani.
Non voglio mai lasciarlo andare. Un film è come un figlio, per questo è difficile rispondere alla domanda su quale sia il preferito. Arriva un punto in cui il figlio che ho cresciuto viene adottato da tutti.
Insomma siete voi i genitori del mio lavoro».
Matano: Va su Google a controllare i commenti sui suoi film?
«No, non “googlo” me stesso, ma ascolto le persone. Quando un film è finito devi lasciarlo andare. E quel vuoto può essere riempito solo da un’altra storia».
Calabresi: Ha girato “The Post” mentre preparava questo film. Come si lavora in contemporanea su progetti tanto diversi?
«La mia carriera è bipolare, anche se io non lo sono. Quando mi capitò nel 1993, tra Schindler’s list e
Jurassic park, fu difficile. Quella di The Post è stata un’esperienza diversa. Avevo già finito le riprese diReady Player One e lavoravo sugli effetti digitali. Per qualche miracolo mi è arrivato il copione di The Post che raccontava una storia di oggi: l’amministrazione che reprime o cerca di reprimere i diritti previ sti dal primo emendamento, i diritti della stampa libera. Richard Nixon lo fece nel ’71 con Washington Post e
New York Times. Meryl Streep, Tom Hanks e io ci siamo detti che questo era il momento giusto per raccontare questa storia: “Non faremo soldi, ma faremo un servizio all’opinione pubblica”. Ecco perché ho girato il film».
Calabresi: Continua a leggere le notizie sulla carta stampata?
«Sì. Guardo Axios on line ogni mattina. A volte la Cnn on line ma
leggo New York Times, Washington Post e Wall Street Journal praticamente ogni giorno».
Matano: Il film si muove tra futuro e passato, è un viaggio d’amore e nostalgia degli Anni Ottanta. Quali sono state le sue icone della cultura pop?
«Gli Ottanta sono stati un momento fantastico, sorprendenti. Quasi un decennio di grazia. L’America era relativamente calma. I cineasti raccontavano storie, volevamo intrattenere, non solo informare. La musica era leggera: Duran Duran, Van Halen, Bee Gees, e poi La febbre del sabato sera ».
Calabresi: E gli anni Settanta, le piacciono?
«Sono stati un ottimo momento per me, per la mia carriera. Ho fatto tanti film. Ma negli 80 mi sono divertito di più e poi ho incontrato la donna dei miei sogni, mi sono innamorato e mi sono sposato (con Kate Capshaw, protagonista di Indiana Jones e il tempio maledetto, ndr) e dopo ventisette anni siamo ancora sposati. Il mio primo figlio è nato negli anni Ottanta, ho fondato la mia società, la Amblin. Sì, è stato un buon decennio».
Calabresi: Il protagonista del film si unisce a un gruppo di cacciatori ribelli: gli “High five”. Il suo gruppo è stato quello dei “Movie Brats”: eravate lei, Coppola, Scorsese, Lucas, De Palma. Ce li descrive con un solo aggettivo?
«Francis è facile: è decisamente il padrino. Martin lo chiamo il demone veloce: parla, si muove e pensa in fretta, le idee gli vengono al volo. George Lucas è un comico, non lo diresti ma è un tipo veramente molto divertente. Brian lo definirei split screen: avete presente i suoi film?».
Matano: Qual è stata la sua più grande fonte d’ispirazione?
«Facile. Mamma e papà. Lei l’ho persa l’anno scorso a 97 anni e mio padre, che ha 101 anni, è stato il mio primo produttore».
Calabresi: C’è un film di un altro regista che avrebbe voluto fare lei?
«Oh mio Dio tantissimi. Di sicuro
Il cacciatore di Michael Cimino, uno dei miei preferiti. Ma se lo avessi girato io non avrebbe avuto lo stesso successo. Cimino era nato per raccontare quella storia: il primo film sullo stress post traumatico del Vietnam, era il suo destino, non il mio».
Calabresi: I protagonisti dei suoi film sono spesso ragazzini solitari. Un po’ goffi, fuggono dalla realtà difficile con l’immaginazione.
«Come me. Io ero, e ancora sono, un po’ goffo ma oggi i “nerd” sono molto popolari. A scuola non ero certo un tipo gettonato. Ero strano, me ne andavo in giro con la macchina da presa e giravo film in 8 mm. I miei coetanei sportivi mi prendevano in giro: chi è questo ragazzo strambo? Ecco, vorrei incontrarli oggi... Tutto questo, il mio passato, finisce nei miei personaggi. Tifo per i perdenti.
Preferisco raccontare storie sulla vera natura della forza, su quelle idee che ti inseguono e all’improvviso ti costringono a trovare il coraggio. Perché in gioco ci sei tu, ma anche i tuoi amici. Il rapporto fra persecutore e perseguitato è presente in molti dei miei film».
Calabresi: Le è stato tributato il David di Donatello alla carriera. Che rapporto ha con l’Italia?
«È un rapporto d’amore, sano e solido. Sono cresciuto guardando i film italiani di Rossellini, Fellini, Antonioni. Ho avuto l’opportunità di vedere Antonioni quando dirigeva Zabriskie Point, sono andato nel deserto della California e un mio amico aiuto regista mi ha portato sul set a vederlo in azione.
Penso che il cinema italiano abbia prodotto meraviglie. Negli Stati Uniti abbiamo, o meglio avevamo, i confini aperti e grazie a quella immigrazione abbiamo avuto i Vincent Minnelli — figlio di immigrati — Frank Capra, Francis Ford Coppola, Quentin Tarantino, Martin Scorsese. Il cinema italiano è entrato nel cinema americano portandoci doni meravigliosi: Robert De Niro, Al Pacino e molti altri. Registi, attori, scrittori…».
Calabresi: Qual è il luogo che preferisce qui in Italia?
«Ho passato molto tempo a Firenze. L’ho scoperta grazie a mia figlia che ha studiato lì per un semestre. Tanti nostri amici si sono sposati a Firenze. E così noi facciamo avanti e indietro per assistere ai matrimoni...».
Calabresi: E Roma?
«Amo Roma... la città probabilmente più ricostruita da Hollywood, sono tanti i film americani ambientati nella Roma antica ma Roma stessa è una città che ama il proprio passato, lo conserva e lo condivide. Una cosa che non succede nel mio paese dove con un bulldozer, buttiamo tutto giù per costruire un grattacielo di vetro. Qui invece la storia è onorata. E questo io lo rispetto».
La Stampa 22.3.18
Cinquant’anni dal ’68
Guido Viale: dignità umana, la lezione attuale del ’68
Il leader torinese di Lotta continua: “Una stagione in cui poveri e esclusi si sentirono meno emarginati. Per noi la politica era vivere in modo diverso. Oggi l’impegno è l’anti-razzismo”
intervista di Claudio Gallo
È stato uno dei leader del ’68 e tra i fondatori di Lotta Continua. Guido Viale, 75 anni, sociologo, scrive saggi, si occupa di economia, modelli di sviluppo e ambiente. Gli chiediamo, cinquant’anni dopo, di spiegarci quella stagione che sembra ormai assorbita nella società dello spettacolo: è possibile darne una definizione minima che ricollochi il periodo nella storia?
«La domanda non corrisponde né alla mia esperienza personale né a quella di gruppo. Il ’68, con la sua dilatazione all’autunno caldo del ’69, è stato un movimento molto chiuso su se stesso, concentrato sulle cose che faceva e non sulla loro rappresentazione pubblica. L’idea che la società dello spettacolo si sia sviluppata da quella stagione è una sciocchezza che ha molti autorevoli sostenitori, come il filosofo Mario Perniola, morto da poco, che ha messo in un rapporto di continuità il ’68, cioè l’idea della fantasia al potere, con la cultura spettacolare del berlusconismo».
Il ’68, in particolare a Torino, è nato prima del ‘68. Come si è passati dalla protesta generalizzata all’azione politica?
«In realtà la protesta era già nata come protesta politica e l’azione politica è stata in gran parte una protesta, nel senso che poi difficilmente è riuscita a raggiungere risultati consolidati, se non la creazione di un clima di libertà prima nelle università e nelle scuole, poi nelle fabbriche e per un certo periodo anche nella vita associata delle città. Un posto dove studenti, operai e cittadini, soprattutto proletari e poveri, si sentivano meno esclusi, trascurati e più protagonisti».
Quindi fin dall’inizio c’era una coscienza politica precisa?
«No, se per coscienza politica s’intende un’ideologia oppure un’appartenenza politica, escludendo i pochissimi gruppetti già politicizzati. Piuttosto, la cascata di ideologie marxiste-leniniste è arrivata dopo, come conseguenza del ’68 che aveva aperto certi spazi con la sua contestazione (come si chiamava allora) della gerarchia e dell’autoritarismo».
Lotta Continua pensava veramente che una rivoluzione comunista sarebbe stata possibile?
«Credo che noi, come Lotta Continua, la parola rivoluzione non l’abbiamo mai usata, e se l’abbiamo fatto è stato molto tardi. Vivevamo il comunismo, a cui dicevamo di appartenere, secondo il detto di Marx per cui il comunismo è il movimento reale che cambia le cose. Abbiamo sempre vissuto, soprattutto nella prima fase di formazione dell’organizzazione, la nostra lotta e la nostra partecipazione alla vita politica come un processo che aveva il suo fine in se stesso, cioè nello spazio di libertà, di autonomia, anche di cultura, di maturazione, che la partecipazione alla lotta ci dava. Indubbiamente c’erano degli obiettivi politici di volta in volta: scioperi, lotte; ma fin dall’inizio abbiamo cercato di porre l’accento sul fatto che lottare era anzitutto una maniera di vivere in modo diverso».
Molto poco leninisti...
«A partire dal 1972 o ’73 ci siamo anche dichiarati leninisti, ma era uno scimmiottamento di altre organizzazioni che avevano fatto del leninismo la loro bandiera. Sostanzialmente l’abbiamo praticato molto poco e comunque è stato uno degli elementi di degenerazione della nostra organizzazione».
Alcuni sostengono che il ’68 abbia spostato la cultura sindacale da un approccio quantitativo a uno qualitativo, preparando la strada al declino della stagione dei grandi contratti di lavoro e del sindacalismo stesso; altri ancora pensano che l’indebolimento sessantottino dei valori tradizionali abbia di fatto predisposto il terreno all’avvento della globalizzazione neoliberale. Che cosa ne pensa?
«La distinzione tra lotta sindacale e lotta politica era il residuo di una vecchia tradizione del movimento operaio che non aveva spazio nel modo in cui la lotta veniva vissuta dagli operai e dagli studenti di quegli anni. Allora si percepiva la lotta come immediatamente politica anche quando aveva caratteri sindacali. Per quanto riguarda i valori borghesi tradizionali, come la famiglia, la moralità e l’appartenenza nazionale, sono stati indubbiamente dei bersagli cruciali del ’68, secondo me sacrosanti. Oggi il neoliberalismo si sta riappropriando proprio di quei valori nel tentativo di difendersi contro una contestazione che in qualche modo sta crescendo anche se non ha un volto direttamente politico. Si vorrebbero recuperare quei valori borghesi, tanto è vero che i partiti che oggi li invocano come i partiti della destra nazionalista e razzista non hanno niente da eccepire contro il neoliberalismo. Forse molto contro la globalizzazione, ma non contro le privatizzazioni o contro la finanziarizzazione che anzi sostengono».
L’antifascismo, di cui si torna oggi a parlare, è stata una componente essenziale del ’68. Non pensa che sia stato anche il salvagente identitario di una sinistra che non perseguiva più obiettivi di sinistra?
«Di fronte a una crescita del Msi, dei movimenti di destra e dell’azione squadristica, e anzitutto di fronte alla strategia della tensione, abbiamo di fatto praticato un antifascismo che ha talvolta messo in secondo piano l’obiettivo per cui ci eravamo mossi: la trasformazione della società. Oggi il problema centrale che ci troviamo di fronte non è tanto il fascismo in sé quanto il razzismo, anche se i due vanno insieme. La crescita dei movimenti di destra, anche quelli che si ispirano direttamente al fascismo, come CasaPound o Forza Nuova, in realtà hanno alla base del loro reclutamento (riuscendo a coinvolgere anche Salvini) non tanto il richiamo al fascismo, che resta un tratto permanente e ineliminabile nella società italiana, ma il razzismo e l’odio per gli immigrati. Mobilitarsi contro il razzismo, con azioni positive e non solo con richiami ideologici, è negli intenti di tutti coloro che oggi sono impegnati in azioni di accoglienza e sostegno alle comunità immigrate. L’antirazzismo è diventato una componente prioritaria dell’azione politica».
Se si presentassero le condizioni per un nuovo ’68, che cosa toglierebbe e cosa aggiungerebbe rispetto ad allora?
«La cosa che più potrebbe essere recuperata del ‘68 è la rivendicazione della dignità degli esseri umani, questo era il contenuto di fondo dell’antiautoritarismo di allora sia nelle scuole sia nelle fabbriche».
Corriere 22.3.18
Com’era fragile l’Italia di Moro
Memoria L’analisi di Marco Damilano (Feltrinelli): nel 1978 cominciò il declino del sistema democratico
Il leader assassinato temeva le scosse delle eccessive passioni ideologiche
di Aldo Cazzullo
È il 28 febbraio 1978. Aldo Moro ha 61 anni ed è l’uomo più potente d’Italia. Gli restano sedici giorni di libertà e settantuno di vita. Andreotti si è offerto di cedergli il posto di presidente del Consiglio, ma lui ha valutato che il suo progetto di inclusione del Pci nella maggioranza avrebbe avuto maggiori possibilità di successo se a Palazzo Chigi fosse rimasto un uomo della destra cattolica, scettica verso il compromesso storico e quindi bisognosa di essere tranquillizzata.
Quel giorno, Moro partecipa alla riunione dei gruppi parlamentari della Dc, il partito che da oltre trent’anni governa il Paese. All’ingresso un giovane cronista che ha già cominciato a costruire il più formidabile archivio del giornalismo italiano, Filippo Ceccarelli, tenta di farlo aprire con il più vago degli approcci: «Presidente, lei parlerà?». Moro risponde inclinando la testa e sorridendo rassegnato, una di quelle movenze languide e un po’ levantine da cui i suoi numerosi nemici traevano un’impressione di debolezza e inconcludenza: «Eh così, andiamo un po’ a sentire…». In realtà Moro ha preparato un discorso che si rivelerà insieme il suo capolavoro e il suo testamento politico.
Il nuovo libro di Marco Damilano — Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia (Feltrinelli) — offre davvero molti spunti. Intanto è decisamente ben scritto. Si apre con una pista personale: nella primavera del 1978 l’attuale direttore dell’«Espresso» è un bambino di dieci anni, che ogni giorno passa da via Fani sullo scuolabus guidato da una bella signora bionda, la direttrice della Montessori, dove tutti devono fare tutto. E Aldo Moro è il primo politico che ha visto: gliel’ha mostrato il padre, inginocchiato in chiesa. Il percorso sulle orme del presidente democristiano conduce, alla fine del libro, nell’austero cimitero di Torrita Tiberina, a picco sul Tevere, dove Moro riposa. L’ossatura del libro è costituita dalle carte, spesso inedite, custodite nell’archivio Flamigni. È straordinario come una vicenda tanto scavata lasci ancora trapelare coincidenze al limite dell’incredibile e troppi punti ancora da chiarire, dalla strage di via Fani alla mano dell’assassino (Gallinari? Moretti? Maccari? O il legionario De Vuono?). Ora spunta una foto inedita con Moro, Piersanti Mattarella e Mino Pecorelli: tutti assassinati. Ora emergono dettagli che solo una metropoli come Roma — capitale della politica, della cristianità e pure dello spettacolo — può custodire: testimone del massacro della scorta Moro è il giovane Francesco Pannofino, l’attore; a riconoscere indisturbato a Trastevere il brigatista Casimirri è il padre di Jovanotti, Mario Cherubini, della gendarmeria vaticana; e si potrebbe aggiungere Piera Degli Esposti seduta per caso in via Caetani, in attesa del suo impresario, sul cofano della Renault rossa che cela il corpo della vittima.
Ma Damilano è un giornalista politico. E fin dal sottotitolo il libro spiega come la morte di Moro coincida non solo con la crisi del terrorismo rosso e con l’inizio della fine di Dc e Pci, ma anche con il declino della mediazione politica. Lo psicodramma di questi nostri giorni, con leader palesemente impreparati sul piano culturale e forse anche umano, è il seguito di una tragedia nazionale cominciata quarant’anni fa.
Quel 28 febbraio Moro invita gli uomini del suo partito a guardare fuori dal Palazzo, a rendersi conto dell’«emergenza reale che è nella nostra società. Io credo all’emergenza, io temo l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico e sociale. Credo che tutti dovremmo essere preoccupati di certe possibili forme di impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale». Il Paese di fine anni Settanta rifiuta «autorità, vincoli, solidarietà». «Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo…».
Giustamente Damilano si sofferma sulla definizione che Moro dà dell’Italia: «Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili». Non è cambiato molto da allora. Nel 1978 il problema è aprire la maggioranza al Pci, che non avrà ministeri ma per la prima volta dalla cacciata di Togliatti nel 1947 sta per votare la fiducia a un governo. Moro rivendica il ruolo di scudo verso il comunismo che la Dc ha esercitato, ma rivendica anche il proprio ruolo di artefice del centrosinistra e dell’apertura ai socialisti, e aggiunge: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese». E poi la frase-chiave che spiega meglio di qualsiasi altra il metodo democristiano: «È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana».
Il discorso di Moro sciolse molte indecisioni, anche se nel partito rimase più stimato che amato. La lista dei ministri non piacque ai comunisti, che non vi videro il rinnovamento atteso: erano state privilegiate le correnti conservatrici della Dc, sempre nell’ottica morotea di portare tutto il partito, a cominciare dai più riottosi, all’incontro con il nemico di sempre. Sarà solo il rapimento di Moro a indurre il Pci a votare la fiducia ad Andreotti; ma la scomparsa del grande mediatore farà fallire quel disegno, che non doveva portare al consociativismo ma all’alternanza.
I paragoni con il presente sono sempre ingannevoli e fallaci. Ma fa comunque impressione rileggere nel libro parole che sembrano adattarsi alla fase incerta e conflittuale che stiamo vivendo: «Se voi mi chiedete tra qualche anno cosa potrà accadere (parlo del muoversi delle cose, del movimento delle opinioni, della dislocazione delle forze politiche), io dico: può esservi qualche cosa di nuovo. Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà».
Corriere 22.3.18
Proposte Lucio Russo, storico della scienza, firma per Mondadori una difesa degli studi umanistici
Non «classico» ma «critico» Perché il liceo ci serve ancora
di Luciano Canfora
Con la sana vis polemica e l’intelligenza vigile che gli sono caratteristiche, Lucio Russo, nel suo recente saggio Perché la cultura classica (Mondadori), mette in luce il nesso che vi è tra il «provincialismo» nostrano (di cui la bocconiana fisima di far lezione in inglese, magari anche se la disciplina in questione fosse «dialettologia italiana») e l’isterica avversione per gli ordini di scuole dove si insegnano il greco antico o il latino o entrambi. Russo non è soltanto un ragguardevole storico della scienza ma anche un cittadino politicamente consapevole (tale da superare, io credo, persino il severo esame cui il nostro Cassese vorrebbe sottoporre gli aspiranti al diritto elettorale). Perciò commenta con queste parole l’inversione di tendenza che forse da ultimo si profila: «Negli ultimi anni il calo dell’entusiasmo per la globalizzazione e il declino dell’impero americano hanno dato spazio anche in Italia alla difesa della diversità culturale». Ed effettivamente anche di questo si tratta: le lingue e le civiltà antiche sono state messe sotto accusa con le motivazioni più varie e stravaganti, e per un tempo non breve i «pasdaran» della lotta al liceo le additavano come segno del nostro ritardo e «ostacolo — scrive Russo — sulla via dell’omogeneizzazione planetaria, perseguita con forza dai protagonisti del mercato globale».
Il libro di Lucio Russo ha, tra gli altri, il merito di saper valutare i lati positivi del bagaglio di conoscenze storico-linguistiche del cosiddetto mondo «classico» con l’occhio di chi muove da un altro campo del sapere: quello delle scienze. Ma si spinge oltre la generica «difesa». Egli lancia una proposta molto interessante: «La cultura classica, se profondamente rivisitata, potrebbe assumere di nuovo, pur se in modo diverso, quel ruolo unificante svolto in passato e per il quale non è mai stato trovato un valido sostituto».
Tutti ricordiamo le dispute sulla dannosa separazione tra «le due culture» (scientifica e umanistica). Ed è sana aspirazione quella a una compenetrazione di esse. In realtà è nei pilastri della «licealità» che può trovarsi il rimedio. Non è trascurabile il fatto che nel mondo greco ed ellenistico si ritrovino gli inizi di tutti i rami del sapere e di tutte le pratiche intellettuali (economia politica inclusa). Ciò significa che quello fu un momento della nostra civiltà in cui i saperi — che formano l’intelligenza critica — non solo coabitavano ma interreagivano. I pilastri del liceo — che ne fanno un «liceo critico» (termine che adotterei volentieri in luogo del non chiaro «classico») — sono la storia del pensiero filosofico-scientifico, lo studio della storia (cioè l’abitudine all’accertamento dei fatti), l’abito mentale filologico (distinguere vero e falso), la logica e la matematica, la traduzione: che è il più completo e divertente esercizio mentale, in grado di mobilitare contemporaneamente capacità analitica e intuizione. Giustamente Russo — a chi svaluta questo esercizio con l’argomento «tanto ci sono le traduzioni» … — suggerisce di dare un’occhiata a «Dante in una “buona traduzione” inglese». Buona lettura.
Corriere 22.3.18
Marijuana in gita tra i 15enni del Parini I prof li denunciano
Roma, le forze dell’ordine nell’hotel dei liceali milanesi
di Federica Cavadini e Giampiero Rossi
MILANO Fino a quel momento, anche la notte romana dei liceali del Parini sembrava seguire una sorta di copione non scritto per le gite scolastiche: tutti svegli, riunioni «clandestine» in un paio di stanze, insomma un po’ di trasgressione. Fumo compreso. Ma ai professori che — a loro volta secondo il rituale — facevano «ronda» per tenere sotto controllo la situazione, non è sfuggito che da una stanza provenivano una nube e un odore fin troppo intensi e riconoscibili. Marijuana. Ma non «una canna»: almeno due grammi, forse due e mezzo. Oltre la quantità dell’uso personale nelle mani di un gruppetto di ragazzini di 15 anni. E a portarla sarebbero stati due studenti, noti tra i compagni come fornitori.
Così la gita culturale nella Capitale delle due seconde del Parini di Milano — liceo classico in zona Brera, frequentato «bene» — è virata fino alle soglie della cronaca nera. Alla vigilia del rientro, previsto per oggi, le ricostruzioni che rimbalzano da una famiglia all’altra non sono ancora complete e coerenti. Ma è certo che nella notte tra lunedì e martedì in quell’albergo c’è stato un intervento delle forze dell’ordine. Su indicazione del preside, dice qualcuno. No, su iniziativa dei professori, perché il dirigente scolastico non risultava raggiungibile precisano altri. Ma non sarebbe scattata alcuna denuncia (almeno per ora) e il sacchetto pieno di «roba» è stato recuperato in un corridoio dell’hotel.
Nel cuore della notte due famiglie sono state svegliate e sono partite per Roma per andare a riprendersi i rispettivi figli. Perché quei due quindicenni, tra gli altri, sarebbero i responsabili della fornitura (abbondante) di marijuana. «Non ho nulla da dire, attendo il rapporto dei professori», ripete il preside Giuseppe Soddu. «Sono molto preoccupato, mio figlio era lì e quando torna, anche se giura che lui non c’entra, se la vedrà con me — confida un genitore —. Lui per noi è a Roma per una gita di istruzione e poi ci arrivano racconti di quantitativi illegali di droga e di interventi notturni delle forze dell’ordine...». Lui conosce quei due studenti e i loro genitori: «Due ragazzi normalissimi e due famiglie assolutamente perbene — sottolinea — ma c’è un problema più grande, perché mi risulta che a scuola circolino tutti i giorni sostanze in quantità, ci sono forniture assicurate». E un’altra mamma, a sua volta insegnante, conferma e aggiunge: «È un fenomeno davvero preoccupante. Stiamo parlando di quindicenni che, oltre alle sostanze, mostrano già un’impressionante dipendenza dalle sigarette».