Il Fatto 4.3.18
L’aquila bianca della Polonia: orgoglio per negare il passato
Anti-Shoah
- Nel Paese che punisce chi ricorda il suo ruolo svolto nell’Olocausto
si pensa ad accusare i crimini del regime sovietico
di di Michela A. G. Iaccarino
La
Polonia si interroga sotto le ali spiegate dell’aquila bianca. Lo
stemma nazionale, vietato fino agli anni ’90 dalle autorità comuniste, è
pallido sullo sfondo rosso patinato della Gazeta polska in edicola. In
copertina sull’ultimo numero c’è una domanda e le macerie del Tu-154,
l’aereo precipitato in Russia nel 2010. Morì Lech Kaczynski, presidente
polacco, insieme ai capi delle forze armate, membri del Parlamento,
della Chiesa e parenti delle vittime del massacro di Katyn, avvenuto per
ordine di Stalin 70 anni prima. Sulla rivista ci sono gli ultimi
aggiornamenti dell’indagine sulla catastrofe per trovare la verità,
perché alcune ai polacchi interessano più delle altre.
Quella
tragedia, secondo molti figlia del sabotaggio del Cremlino, otto anni
dopo rimane in prima pagina. Alla nuova legge sull’Olocausto, che vieta
di parlare della complicità con i nazisti di alcuni strati della
popolazione polacca, che punisce con il carcere, fino a tre anni, chi
parla di “campi di concentramento polacchi”, è riservato un editoriale
alla fine. A nord, per gli slavi europei, la storia è in fase di
riscrittura e reinterpretazione. La legge che ha scatenato le ire di
Israele, Stati Uniti, Europa da nord a sud, comunità ebraiche nel mondo,
non ha esagitato giovani polacchi nei bar, vecchi nelle sale da the,
adulti nei negozi.
Mentre Bruxelles si mobilitava per fare ricorso
all’articolo 7 del Trattato di Lisbona, che priverà Varsavia del
diritto di voto nelle istituzioni europee, il giorno in cui la legge
entrava in vigore il primo marzo, la neve continua a coprire marciapiedi
e strade a via Josefa, Kazimierz, quartiere ebraico, Cracovia. Alla
fine della strada, girando a destra e poi ancora a destra, c’è il JCC,
il centro culturale della comunità ebraica, dove “non sanno che bisogno
c’era di questa legge proprio adesso, ma non ne sono preoccupati, la
Polonia è un posto sicuro per gli ebrei”. In frange ristrette della
società attuale l’antisemitismo rimane, anche se i membri della comunità
ebraica, una tra le più grandi d’Europa prima di Hitler, non ci sono
più. Gli antisemiti polacchi “si limitano a parlare, ma non agiscono”,
dice con più di 80 anni e capelli rossi Sofia, una sopravvissuta
dell’Olocausto, che mangia biscotti in attesa del suo corso di ebraico
moderno al JCC. Prima che venisse deportata nei campi, la popolazione
ebraica della zona raggiungeva quasi le 70mila persone. Oggi mancano
censimenti certi, ma si crede ne siano rimasti qualche centinaio.
Ebrei
oggi sono alcuni visitatori in fila o nei camioncini multilingua dei
tour della memoria, che percorrono le stesse rotte a tutte le ore, si
fermano qualche istante e ripartono per pochi sloty. Lungo la strada
Lwowska 25 e la Limanowskiego 62 qualcuno lascia ancora i fiori in
ricordo del ghetto. Il quartiere è il vecchio set del film di Steven
Spielberg degli Anni 90, Schindler’s list, poi archivi e il cimitero
rinascimentale ebraico, una foresta grigia di lapidi monumentali, marmo e
muschio, coperte di pietre e silenzio. La presenza ebraica aleggia
negli ultimi due negozi kosher rimasti, nei motivi della carta da parati
dei ristoranti chic, dove prenoti prima o è digiuno.
C’è la
“Stara”, vecchia sinagoga, quella di Isacco, di Kupa, la Tempel. In
tutto sono 7, ma quasi nessuno ci prega più dentro. Sono musei a
pagamento, torah sotto vetro, etichette con riferimenti storici di un
mondo che fuori dalla finestra non esiste più, cimeli spolverati dalle
guardiane delle sale, invecchiate sulle sedie negli angoli. Kazimierz è
un mausoleo per turisti, un piedistallo ai resti di quello che fu. Fuori
da Cracovia, la Polonia soffre di amnesia o ha comunque problemi di
memoria.
Due ore. Il treno che fa capolinea ad Oswiecim, la città
intorno al campo di concentramento di Auschwitz, è rosso e lento. Dietro
i vetri opachi del bus verso Birkenau i volti guardano di sbieco. Maria
è una turista venuta qui da Varsavia per la seconda volta con il suo
fidanzato. Un chiosco degli hot dog fuori, un’aquila bianca su qualche
manifesto, candida come la neve che cala su Birkenau. Di quella fame,
tortura e morte per gas e forni è rimasto uguale il gelo bianco che cade
a fiocchi sotto zero, intorno ai pali di cemento, filo spinato
elettrificato, tra montagne di occhiali, scarpe, valigie di chi è
entrato qui per non uscirne mai più. Le guide del Memoriale del campo
non hanno dichiarazioni ufficiali da rilasciare sul presente e sulla
legge che li riguarda, loro compito “è preservare il passato, il mosaico
dei ricordi, le vite di chi – non solo ebrei, ma rom, russi, polacchi –
è morto qui”. Selfie vicino al teschio nero e la scritta Halt!, cinesi a
flotte. Scolaresche distratte e rumorose. Qualcuno passato di qui ha
lasciato una rosa rossa sul vagone fermo sui binari, qualcun altro, dito
nel ghiaccio, ha disegnato una stella di Davide nella neve. Una delle
poche rimaste in giro qui intorno, prima che il freddo si porti vi
tutto.