giovedì 29 marzo 2018

Il Fatto 29.3.18
Anche la Rai nel risiko politico: da aprile il valzer dei vertici
Nuova legge - Il Cda decade il 29 giugno e le procedure per i cambi partono 60 giorni prima. Lo stallo in Parlamento e il potere a Padoan
di Carlo Tecce


Chi l’ha detto che la Rai non innova? Pure stavolta Viale Mazzini è il laboratorio per sperimentare alleanze e accordi parlamentari, indicare maggioranze e opposizioni politiche, quasi in contemporanea con la formazione del prossimo governo. Anzi, in anticipo: le procedure per la nomina del Cda – inclusi amministratore delegato e presidente di garanzia – vanno avviate entro la fine di aprile e richiedono ai partiti spartizioni scientifiche. Perché lo impone la legge di matrice renziana numero 220 del 2015, poco conosciuta, ancora mai applicata e piena di falle (chi non ricorda il pastrocchio sul tetto agli stipendi?).
Il Cda Rai, in carica dal 2015, da Statuto decade quando l’assemblea degli azionisti (99,56 per cento il Tesoro, 0,44 per la Siae) approva il bilancio d’esercizio, dunque non oltre il 29 giugno 2018 e non al compimento del terzo anno solare di mandato di Monica Maggioni, Guelfo Guelfi e colleghi, che scadrebbe il 5 agosto. Perché aprile? Semplice, lo prescrive la legge: due mesi prima dall’assemblea degli azionisti, la stessa Rai, il ministero del Tesoro, la Camera e il Senato aprono le iscrizioni per selezionare il nuovo Cda.
Siccome le leggi si studiano quando servono e non quando si presentano, in Viale Mazzini sono precipitati nel più profondo dei letarghi, il ministro Pier Carlo Padoan prega che tocchi al successore e la vecchia dirigenza prepara rassegnata il trasloco. Così le decisioni irrevocabili sono revocate e la delicata poltrona di guida di Rai Pubblicità, promessa mesi fa al renziano Mauro Gaia, è affidata da dicembre ad interim al leghista antico (cioè di rito maroniano) Antonio Marano.
Come funziona il testo renziano
Il pauperismo di propaganda ha travolto anche il Cda Rai: i componenti passano da 9 a 7, anche se la legge – nei suoi tipici passaggi criptici – non chiarisce se l’amministratore delegato debba far parte del Cda o meno. Anche perché le caratteristiche richieste per i due ruoli sono diverse: esperienza di tre anni in una società del settore in un caso; prestigio, competenza e onorabilità nell’altro. Neppure al Tesoro l’hanno capito. In sintesi, il Cda sarà da 7 barra 8 membri. Novità: i dipendenti di Viale Mazzini eleggono un rappresentante. Quattro spettano al Parlamento, due (o tre con l’ad) al ministero.
Pericolo agguati in Parlamento
Questa riforma fu plasmata durante la sbornia del 40% alle Europee del Pd renziano e nel contesto di un presunto solido bipolarismo, sorretto dalla legge elettorale a doppio turno di nome Italicum. Con l’avvento del tripolarismo è di fatto impossibile distribuire equamente i quattro posti intestati al Parlamento. Camera e Senato, senza quorum, eleggono due consiglieri a testa: chi prende più voti va a Viale Mazzini. Coi numeri attuali, il centrodestra compatto può sbancare. Poiché il presidente deve ricevere l’investitura dai due/terzi dell’ormai inutile commissione di Vigilanza, però, occorre un patto con il M5S o con i Dem. Il precedente di Roberto Fico a Montecitorio ed Elisabetta Alberti Casellati a Palazzo Madama suggerisce un’intesa fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio con Silvio Berlusconi in regia e il Pd rischia di scomparire da Viale Mazzini. Il patto va siglato presto, perché gli aspiranti consiglieri, individuati dai partiti, devono rispondere al bando pubblico di Camera e Senato due mesi prima della nomina e quindi, ripetiamo, fra aprile e maggio. Allora di giorno avremo i capi di partito al Quirinale per le consultazioni con Mattarella e di notte, chissà dove, a interagire per il servizio pubblico tv.
Il ministero prende tempo, ma c’è il limite
Il Tesoro (il governo) gioca un ruolo determinante: spedisce in azienda un consigliere (due?) e l’amministratore delegato. Renzi studiò l’evoluzione dal fragile direttore generale al più potente amministratore delegato per aiutare Antonio Campo Dall’Orto. In politica, le intenzioni si trasformano in fatti sempre troppo tardi. Campo Dall’Orto ha provato l’ebbrezza di comandare soltanto un paio di volte, poi è stato costretto a dimettersi proprio da Renzi e adesso un leghista, un grillino o persino un berlusconiano potranno beneficiare della legge: direttori di testata e di canale cambiati con un colpo di mano, procura per firmare contratti sino a 10 milioni di euro. Il voto del 4 marzo ha delegittimato la coalizione – in parte estinta (vedi Alfano) – riunita nel governo Gentiloni. Padoan ne è consapevole. Non può aspettare all’infinito. Se da qui a giugno non giura un altro esecutivo, sarà lui a decidere i vertici Rai per i prossimi tre anni. Palazzo Chigi può attendere finché non si concludono le trattative fra i partiti, Viale Mazzini no. Forse non avremo un governo, di sicuro avremo una televisione.