Il Fatto 28.3.18
La lingua morta degli slogan
Andrea Marcolongo, La misura eroica (Mondadori 2018)
di Filippomaria Pontani
Nel
declino del renzismo non è male ricordare quale sia stata la sua cifra
culturale, fatta di slogan “pop” giovanilisti e di stucchevoli citazioni
orecchiate da Wikipedia. Soccorre all’uopo il nuovo libro di Andrea
Marcolongo, La misura eroica (Mondadori 2018), implicitamente connesso
alla passata attività dell’autrice come ghost writer dell’ex segretario
Pd, ma dedicato nuovamente – come il precedente La lingua geniale,
volumetto fortunato quanto pieno di superficialità – a un tema arduo e
affascinante: il mondo greco.
Il libro è costruito come una
successione di omelie: ogni capitolo parte da un episodio delle
Argonautiche di Apollonio Rodio, poema epico del III secolo avanti
Cristo che racconta il mitico viaggio di Giasone e compagni in Colchide
(l’odierna Georgia) alla conquista del vello d’oro: come gli esegeti
medievali di Omero o di Ovidio, dopo un breve riassunto del passo con
qualche citazione l’autrice procede a trarne una morale relativa al
mondo di oggi, quasi sempre lontana dal testo e legata a proprie
esperienze biografiche (tatuaggi, disagi adolescenziali, velleità
artistiche, lutti privati, viaggi, amori ecc.). L’aspetto esortatorio
riguarda anzitutto la ricerca della felicità, che consiste via via
nell’“essere se stessi” (anziché nascondersi), nel “superare se stessi”
(anziché crogiolarsi), nella “voglia di cambiare” (anziché tirare
avanti), nel “saper nuotare” (anziché stare a galla), nell’“inciampare e
rialzarsi”, e così via. Fioccano gli slogan lapidari del tipo “il
futuro è alle nostre spalle”, “il miglior modo per essere pronto alla
realtà è usare la fantasia”, “la libertà è un viaggio che dobbiamo
compiere“, “misurare se stessi per diventare grandi”, “in questo viaggio
sei semplicemente tu”, “lo spettacolo che ognuno di noi è”, “eroe è chi
decide la sua vita”, che – talora abbinati a perle da Saint-Exupéry,
Wittgenstein, Proust – sembrano tratti da un tema di quinta ginnasio, da
una canzone di Jovanotti o dai muri di una Leopolda. Obiettivi polemici
delle omelie sono la superficialità dei social, i reality show, la
politica senza visione, la paura di lanciarsi nel futuro, i limiti e i
confini, l’assenza di limiti e valori, i maestri che castrano, i
genitori che opprimono, l’ansia da prestazione, i misoneisti che odiano
la tecnologia…
In questo imbarazzante precipitato di luoghi comuni
in stile Che tempo che fa, privo dell’ombra di un’analisi o di una
riflessione critica, la Marcolongo usa il mito antico come un pretesto,
creando una triplice confusione: da una parte, dà a intendere che il
viaggio degli Argonauti sia mosso anzitutto dall’eros, che l’“eroismo”
di Giasone – già di suo così poco rappresentativo dell’epica greca
anteriore – abbia a che fare con l’amore privato e con la realizzazione
del sé – una forzatura che nemmeno Sainte-Beuve osò avanzare; d’altro
canto, tratta “i Greci” come un mondo indistinto e sublime in cui tutti
predicano e praticano la misura, l’equilibrio e la saggezza, una visione
marmorea e semplificatoria dell’antico che si sperava sepolta per
sempre; infine, l’autrice corrobora i propri voli pindarici tramite
varie etimologie, talora fraintese, talaltra erronee: i ragazzi che
leggeranno il libro apprenderanno che “metafora” significa “passare
attraverso” (semmai “trasferire”), che “eroe” deriva da “eros” (lo
diceva per gioco Platone nel Cratilo, ma non è assolutamente così), che
metron “misura” ha a che fare con “metodo” e con mèdomai “riflettere” (e
dunque anche da “Medea”: per carità), che “armonia” ha a che fare con
arithmòs “numero” (è solo un’ipotesi); apprenderanno poi che Granico è
una città (anziché un fiume), che l’Eros di Apollonio Rodio è lo stesso
di Esiodo, che i Greci sono un popolo germanico, e altre amenità.
Apoteosi
di una retorica tardoadolescenziale che – come hanno mostrato le urne –
non ha incantato nemmeno la generazione cui era primariamente diretta,
il libro della Marcolongo esorta a “osare” senza mai scendere nel
concreto: schiacciato dall’ego di un’autrice prigioniera dei propri
viaggi e delle proprie ambizioni, esso sconta una scrittura sciatta e
un’incuria imbarazzante per il maggiore editore italiano.
Da un
altro punto di vista, fa torto a un poema ricco e sottile come le
Argonautiche, dove il viaggio ha senso non come esperienza solipsistica
ma come confronto con lo straniero e il diverso, e dove Giasone è in
realtà un eroe inetto e controverso, imbevuto di confronti con i
precedenti omerici, e la cui storia d’amore con Medea, lungi dall’essere
“eroica”, viene presentata nell’ominosa filigrana del suo sanguinoso
esito finale. Chi voglia capire cosa significa rileggere oggi l’antico
(con mille, legittime, forzature e pensieri veri e non convenzionali
sull’amore, il sapere, la famiglia e la morte), potrà rivolgersi al
fresco romanzo Un’Odissea di Daniel Mendelsohn (Einaudi 2018).