Il Fatto 27.3.18
La legge che rende inutile insegnare
Le
lezioni frontali ormai sono considerate un optional, ora i docenti
devono anche valutare i tirocini, con voti che alzeranno la media. Così i
ragazzi capiscono quanto poco è considerato lo studio
di Filippomaria Pontani
“Perché
mai rispettare / dei beni che non danno utilità? / Non ha senso! Mio
caro, in verità, / vi ritenete un grande: ma, alla prova, / a quanta
gente date da mangiare? / A che vi serve leggere? A chi giova?… Lo Stato
non sa proprio cosa farsene / di gente che non spende”
Così, in
una fortunata favola di La Fontaine (I vantaggi del sapere), un ricco
decantava il lavoro utile facendosi beffe della dottrina di un suo
concittadino sapiente – salvo poi, dinanzi a un imprevisto rivolgimento
della storia, essere spazzato via per mancanza dei minimi strumenti
culturali.
Non ha tratto insegnamenti da questo apologo il
legislatore che ha obbligato tutti gli studenti d’Italia a devolvere un
numero assai elevato di ore (200 nei licei, 400 negli istituti secondari
d’altro tipo) ad attività professionali non retribuite: attività che in
molti casi non solo distraggono energie e concentrazione, ma,
svolgendosi durante l’orario di lezione, portano i giovani a perdere ore
d’insegnamento, configurando classi “à la carte” in cui di giorno in
giorno si vede chi c’è (il lunedì 3 studenti sono dal tornitore, il
martedì tornano quelli ma mancano i 5 che sono in biblioteca, e il
mercoledì invece altri 2 che vanno in aeroporto). Con quale profitto per
l’insegnamento frontale (ormai ritenuto un optional, non teso alla
formazione di cittadini consapevoli, ma giustificabile solo in quanto
propedeutico a un – peraltro fantomatico – lavoro specializzato), è
facile immaginare.
Questo è il sistema che la “Buona scuola”
renziana (legge 107/2015) ha introdotto sotto il nome altisonante di
“Alternanza scuola-lavoro”, provando goffamente a mettere a sistema
alcune splendide esperienze che non avevano alcun bisogno di diventare
obbligatorie per tutti: se un istituto elettrotecnico toscano o un
avanzato convitto del Friuli avevano avviato da anni benemerite
collaborazioni con imprese interessate a formare da subito i propri
futuri lavoratori, bastava tutelare quelle esperienze e promuoverle nei
giusti limiti, non imporre a un liceo classico campano o a uno
scientifico del trevigiano d’inventare improbabili convenzioni con
aziende che finiscono per “fare un favore” alle scuole prendendo dei
giovani a fare, gratis, lavori di contorno. Il tutto – lo ha denunciato
abilmente Christian Raimo – senza che sia chiaro a nessuno il disegno
pedagogico sotteso, sepolto in formule burocratiche del peggior gergo, e
in griglie in cui si valuta l’ “imparare a imparare”, l’assimilazione
della “cultura d’azienda” e simili amenità.
Dopo aver sancito
ufficialmente la svalutazione dell’apprendimento tramite lo studio (ove
mai, in una società come la nostra, qualche giovane ancora vi credesse),
e aver indotto l’illusione di un contatto con il mondo del lavoro
laddove in realtà inculca da subito il principio del lavoretto a gratis,
l’Alternanza scuola-lavoro non ha finito di far danni: in queste
settimane, infatti, in previsione della chiusura dell’anno scolastico e
con particolare riferimento alle classi terminali, i Consigli di classe
devono stabilire le modalità della valutazione di questa attività “on
the job” (sic), che non ha una casella a sé stante (non è, per
intenderci, una “materia” in più), ma deve rifluire e influire sulla
valutazione disciplinare complessiva dello studente.
La Guida
operativa del ministero in materia è, come spesso, poco chiara: prevede
in sostanza che si acquisiscano le valutazioni in itinere dei tutor
esterni (di norma, ovviamente, assai benevole: in molti casi tutti gli
allievi hanno il massimo, così non si creano problemi), le
autovalutazioni degli studenti (ovviamente positive, anche se poi, in
via confidenziale, molti confessano di non aver fatto assolutamente
nulla in quelle ore), e che poi il Consiglio di classe metta in opera
strumenti di verifica (una presentazione di 10 minuti? una relazioncina
di due pagine?) per giudicare e certificare un’attività che si è svolta
per intero fuori dalle mura della scuola.
Accade così che alcune
scuole decidano di formulare un voto (di norma alto) che andrà a far
media con quelli della disciplina o delle discipline più “affini” al
tema dell’attività lavorativa; altre, di spalmare il voto addirittura su
tutte le discipline curricolari (non senza motivo: in molte griglie si
prevedono voti su “competenze sociali e civiche”, “economia”, “lingua
italiana”, “lingua straniera”, “scienza e tecnologia”, anche se – per
dire – uno fa fotocopie o frigge patatine da McDonald’s); e in
percentuali – per quanto riguarda il “far media” con i voti sudati nei
compiti in classe o nelle interrogazioni – che ogni scuola decide a suo
modo (50 e 50? 60 e 40?).
Anche per quanto riguarda l’esame di
Stato, la valutazione delle esperienze di Alternanza scuola-lavoro
finisce per innalzare la media con cui gli studenti vengono ammessi alla
maturità, anzi il loro “credito scolastico”, come si dice oggi.
In
una scuola in cui– come sa chiunque abbia insegnato un solo giorno –
studenti e genitori spesso si alleano contro i docenti per rivendicare
voti alti anche a fronte di uno scarso impegno, l’Alternanza
scuola-lavoro rappresenta una svolta ideologica che mina alle
fondamenta, anche in sede di valutazione dello studente, la credibilità
di un sistema di trasmissione del sapere serio e non (posticciamente)
orientato sulla sua presunta caratura professionalizzante.
Che
qualche docente di italiano, di greco o di matematica, già sballottato
fra mille moduli, registri elettronici e vessazioni burocratiche,
continui a insegnare con passione in un contesto del genere, è ormai un
vero miracolo.
José Saramago, figlio del popolo, diceva sempre di
dovere la sua vena di scrittore al fatto di aver trovato nell’istituto
tecnico che frequentava, in un angolo remoto del Portogallo, un
professore di lettere serio, severo e preparato. Chissà se oggi gli
avrebbe prestato altrettanto credito.