martedì 27 marzo 2018

Il Fatto 27.2.18
Festini a luci rosse: politici, preti e toghe presto dai pm
“Groviglio armonioso” - Genova, la Procura acquisisce il video delle “Iene” senza omissis e ascolterà le persone chiamate in causa
di Davide Vecchi


Saranno convocati e interrogati in procura a Genova. Politici, manager, sacerdoti, imprenditori, persino i magistrati di Siena: i soggetti indicati come partecipanti ai festini sfileranno davanti al procuratore aggiunto del capoluogo ligure, Vittorio Ranieri Miniati. Quanto raccontato dal gigolò Stefano in un’intervista trasmessa domenica da Le Iene non poteva che finire al vaglio degli inquirenti. Il ragazzo ha dichiarato di aver partecipato per soldi ad alcune cene e festini in diverse ville senesi – in particolare una a Monteriggioni – e ha riconosciuto come partecipanti a quelle serate almeno dieci persone, tra cui due magistrati di Siena, un manager già al vertice di Mps e un importante ex ministro.
Le immagini mostrate al ragazzo dal giornalista Antonino Monteleone sono state nascoste da Le Iene per non rendere riconoscibili a tutti i volti dei soggetti indicati. Così ieri il procuratore genovese Miniati ha disposto il sequestro del video integrale del servizio e sentirà i giornalisti della trasmissione per poter individuare Stefano e avere un elenco completo delle persone riconosciute dal 26enne che poi saranno convocate.
Tutto nasce dalle indagini giornalistiche svolte negli ultimi mesi su David Rossi, il manager di Mps trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Indagini che hanno evidenziato le lacune delle inchieste condotte dai magistrati senesi sulla morte di Rossi frettolosamente liquidata per ben due volte con l’archiviazione per suicidio. Sulla vicenda sono emerse molte incongruenze. Gli stessi periti nominati dalla procura hanno certificato come prima di morire David avesse subito delle percosse. Il medico legale ha evidenziato come tutte le ferite e gli ematomi presenti sulla parte anteriore del corpo di Rossi non fossero compatibili con la caduta nel vuoto. Inoltre è emerso che i pm titolari del fascicolo hanno disposto la distruzione di reperti fondamentali, come i sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio del manager, mandati al macero prima ancora che il gip potesse pronunciarsi a favore dell’archiviazione o di un supplemento di indagini. Elementi rivelati da articoli del Fatto e lo scorso ottobre dalla pubblicazione di un libro di Chiarelettere dedicato al caso. A ottobre Le Iene hanno iniziato a occuparsi della vicenda trasmettendo, tra l’altro, le dichiarazioni dell’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, secondo il quale in città si svolgevano dei festini cui partecipavano anche alcuni magistrati. Per questo, dunque, le indagini su Rossi sarebbero state blande.
Accuse pesanti. Che hanno portato la Procura di Genova – competente su Siena – ad aprire due fascicoli. Uno per abuso d’ufficio e uno per diffamazione. In quest’ultimo proprio ieri è stato iscritto come indagato Piccini. I giornalisti de Le Iene sono invece stati denunciati da alcuni magistrati senesi. L’aggiunto di Genova Miniati e il sostituto Cristina Camaiori stanno portando avanti entrambi i fascicoli.
Il servizio trasmesso domenica sera potrebbe aprire uno scenario quanto mai preoccupante per la procura senese. Se quanto dichiarato dal gigolò Stefano dovesse trovare riscontri effettivi (il ragazzo garantisce di essere in possesso di prove documentali e parla dell’esistenza di alcuni video delle serate) le ombre che aleggiano sulle indagini relative a David Rossi si estenderebbero a molti altri fascicoli dei magistrati toscani inerenti il Monte dei Paschi di Siena e quel “groviglio armonioso” coniato dal giornalista Stefano Bisi – oggi grande maestro del Goi – per definire il sistema di rapporti e potere che ha gestito Mps e la città per decenni e che ruotava attorno a Giuseppe Mussari. Un groviglio che ora potrebbe sciogliere la Procura di Genova.

Corriere 27.3.18
Il cronista nell’archivio del social network
Tutto ciò che Facebook sa di me (compresi gli sms e le telefonate)
di Leonard Berberi


I miei 9 anni di vita digitale nel file inviato da Menlo Park che conserva anche quello
che abbiamo cancellato
e vorremmo dimenticare

Quattrocentoquattro megabyte. La mia vita digitale su Facebook — 9 anni, 6 mesi e 20 giorni — è tutta qui. In questo file compresso inviato da Menlo Park, California, poche ore dopo aver inoltrato la richiesta. Recuperando le informazioni, anche le più sensibili, anche quelle che avevo dimenticato o voluto dimenticare. Perché dentro c’è di tutto. Gli amici. I post. I messaggi privati. I film che ho voluto raccontare agli altri. Le canzoni ascoltate. I programmi e le serie seguiti. Le foto, tante foto. E i video. Persino quelli inviati in privato. Persino quelli rimossi. Amicizie nate e morte. Richieste inviate, ricevute, respinte o pendenti. Profili non più attivi. Persone non più in questo mondo.
È bene precisarlo. Non c’è nulla d’illegale nell’archivio di Facebook: siamo noi ad aver dato il consenso, preferendo un «sì» veloce e non leggersi le «Condizioni d’uso»: 4.025 parole, 27.066 caratteri.
L’iscrizione e gli amici
La mia vita digitale su Facebook — come certifica la sezione «Profilo» dell’archivio — inizia venerdì 5 settembre 2008 alle ore 15.51. Nove minuti dopo effettuo l’accesso. Alle 16.27 arriva il primo commento: «Leo su Facebook... e sono pure il primo a scrivere, che onore!», scrive Flavio che ai tempi insisteva molto per far provare il nuovo «sito».
In «Amici» nel primo elenco ecco gli 853 profili con i quali c’è ancora un rapporto digitale, partendo dall’ultimo legame creato. Seguono sette nomi che non hanno risposto alla mia richiesta di amicizia. Come io non ho accettato — o respinto — 41 inviti. Poi ci sono le 280 richieste rifiutate. E altri 178 legami «estinti».
I numeri
In «Info di contatto» arriva una prima sorpresa: l’elenco di tutti i numeri di telefono. Pescati dalla rubrica dello smartphone dopo aver dato l’ok al social network.
In realtà Facebook sembra memorizzare anche i dati delle telefonate e dei messaggi al di fuori della piattaforma. Almeno di chi ha i dispositivi con il sistema operativo Android e installato le app (in versione leggera) di Messenger e Facebook. Ad accorgersene tra i primi è stato il giovane neozelandese Dylan McKay. Quando ha scaricato i dati dal sito ha visto che c’era pure l’elenco delle chiamate (effettuate, ricevute, perse) e degli sms. Lorenzo Borga, 22enne di Trento, studente di Economia e fact checker per il sito lavoce.info , conferma. Tra i 19 e 20 anni ha avuto un telefonino con sistema Android. «Al momento dell’installazione dell’app ricordo di aver dato l’ok alla sincronizzazione dei contatti». Risultato: quando un paio di giorni fa ha chiesto l’archivio a Facebook «nella sezione dei contatti ho visto l’elenco di chi mi aveva chiamato, chi avevo chiamato, a che ora, giorno e anno, per quanto tempo», racconta. La sensazione? «Non gradevole, anche perché ci tengo alla privacy e faccio attenzione alle attività online». Il colosso web sostiene che la memorizzazione — su approvazione esplicita dell’utente — è pensata per aiutare «a trovare e rimanere connesso con le persone a cui uno tiene». E assicura: «Non venderemo mai questi dati».
Il diario
Il salto nel passato su quello che ho scritto, pubblicamente, è un promemoria su quanto la sensibilità sulla privacy sia cambiata. Per esempio: gli auguri di compleanno sono passati da decine a quasi zero. Nel mezzo ho rimosso la data di nascita. In pubblico. Perché Facebook l’informazione la conserva ancora. Il «diario» però non aiuta a ricordare sempre. Peccato. Alle 22.39 del 7 ottobre 2008 avevo annunciato di aver «scoperto una cosa che rivoluzionerà il mondo».
Nel muro digitale non compaiono i «mi piace», valorizzati dalle società per capire i gusti individuali. «Sono però visibili nel “Registro attività” del profilo», fa sapere Facebook.
Le foto, i video, la posta
La sezione multimediale dell’archivio contiene tutto il materiale postato. Compreso quello cancellato. Che in un caso mi aiuta: ritrovo un file perduto. Nell’altro fa riemergere qualcosa che avrei preferito non rivedere. «Quando decidi di eliminare un contenuto lo rimuoviamo dal sito», precisa il social network. «Alcune di queste informazioni vengono eliminate in modo permanente dai server. Altri contenuti vengono cancellati solo quando elimini l’account in modo permanente».
Un altro capitolo delicato sono i messaggi inviati. Dal profondo social ricompaiono foto e video inviati a chi, anni dopo, non è più un contatto. Anzi: in qualche caso è anche un personaggio «ostile». «Nel mio archivio ho ritrovato alcune foto inviate all’allora fidanzato», racconta una 32enne di Milano, ora sposata e mamma. «Quando abbiamo rotto è stato lui a togliere l’amicizia su Facebook, ma che succede se dovesse chiedere i dati al social network? Si ritrova qualcosa che io non vorrei avesse più?».
La sicurezza e le app
Eccoci al capitolo più delicato: in «Sicurezza» riesco a rintracciare tutti i miei spostamenti. Mossa non facile, perché bisogna geolocalizzare gli indirizzi IP memorizzati al momento dell’accesso a Facebook. Le sorprese non mancano. Come l’accesso nel Golfo di Finlandia sul traghetto Helsinki-Tallinn. I due minuti a Bilbao, dove non sono mai stato, ma mi sono «agganciato» con lo smartphone passando in macchina sui Pirenei. I pochi secondi a Vladivostok, estrema Siberia, non a livello terra, ma a circa 12 chilometri di quota, sorvolando la zona e usando il Wi-Fi a bordo. L’archivio si conclude con «Argomenti inserzioni» (e «App installate») ed ecco che la società vede me sotto il profilo commerciale. Interessato — tra le altre cose — ai «giornali» e alle «telecomunicazioni» (dato il lavoro...), all’«Albania» (viste le origini...), all’«aviazione» e ai «voli». In questo caso non c’era bisogno di andare a bussare alla porta di Facebook. Bastava cercare su Google. Ma questa è un’altra storia.

Il Fatto 27.3.18
I sepolcri imbiancati su B. e la Casellati
di Tomaso Montanari


Caro direttore, fossi stato un senatore non avrei mai avuto lo stomaco di votare per portare ai vertici dello Stato una protagonista del cerchio magico dei legulei di Berlusconi. Ma mentre capisco e condivido lo spaesamento e anche la delusione e lo sdegno di non pochi militanti 5Stelle e dei non molti che non hanno mai provato alcuna indulgenza verso il Caimano e la sua corte, trovo intollerabilmente ipocrita la fiammata di antiberlusconismo dei sepolcri imbiancati che in questi anni hanno sostenuto, giustificato e spesso perfino cantato la politica del Pd di Matteo Renzi.
Posto che nessuno può rimproverare al Movimento 5 Stelle la determinazione a prendersi la presidenza di una Camera, e posto che questo significava accettare l’elezione di un presidente indicato o dalla reggenza del Pd o da Silvio Berlusconi, ciò che si dovrebbe allora disapprovare è l’aver messo queste due eventualità sullo stesso piano. Il che, a rigor di cronaca, non è neanche vero: perché se Martina avesse accettato di votare per Roberto Fico alla Camera, oggi il Senato avrebbe un presidente Pd.
Ma tralasciamo questa circostanza e andiamo al nocciolo: davvero possiamo condannare qualcuno che oggi dica di non riuscire a distinguere, sul piano morale prima ancora che politico, tra Forza Italia e Pd? Io non lo credo. È stato il Pd ad annullare, con forsennata pervicacia, le enormi differenze che c’erano: dalla Bicamerale di D’Alema al Patto del Nazareno di Renzi c’è stato un crescendo spaventoso, culminato nella riscrittura comune della Costituzione, che poi Berlusconi ha rinnegato solo all’ultimo e non certo per una qualche difformità di pensiero. Per non parlare del fatto che il Pd ha garantito con devoto rispetto il permanere del conflitto d’interessi televisivo.
Con l’avvento di Matteo Renzi, poi, non si è trattato più di alleanze di fatto: ma della conclamata egemonia (culturale, morale e direi antropologica) di Berlusconi sul Pd. Il ruolo di Denis Verdini ha reso plasticamente evidente che non si poteva più distinguere: c’era un solo modo di fare politica. Anzi, di vedere il mondo. I frutti di questa orrenda mutazione sono notori e innumerevoli: ma qua basterà rammentarne uno, strettamente pertinente. Quando, il 15 settembre 2014, Maria Elisabetta Casellati Alberti viene eletta dal Parlamento a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura (!!), ciò avviene con i voti determinanti del Partito democratico guidato da Matteo Renzi.
E dunque: come si fa a sdegnarsi se oggi i Cinque Stelle non riescono a distinguere tra quelli che Beppe Grillo ha chiamato, non a torto, il Pdl e il Pdmenoelle? Dirò di peggio. E cioè che scorrendo i nomi dei senatori del Pd, tutti selezionati dagli ormai trapassati pretoriani di Renzi, non riesco a trovarne nemmeno uno che, all’atto pratico, non avrebbe concesso a Berlusconi le stesse cose che, senza fallo, gli concederà la Casellati. Davvero avremmo dovuto preferire l’elezione di Luigi Zanda, cioè del segretario di Cossiga ai tempi del caso Moro, poi presidente del venefico Consorzio Nuova Venezia e protagonista intramontabile di un sistema di potere da abbattere? Io non riesco a vedere un peggio e un meglio: sono peggio tutti e due.
Dunque tutto bene così? No. Se il Movimento avesse voluto fare davvero politica e volare alto avrebbe avuto qualche altra scelta, almeno sul piano (cruciale) dei simboli e dei messaggi: avrebbe, per esempio, potuto votare fin dall’inizio Elena Cattaneo, mettendo il Pd nella condizione di perdere la faccia se avesse rifiutato di convergere su un nome di quel profilo, e su una senatrice a vita nominata da Napolitano.
Si è scelta, purtroppo, un’altra strada. Ma ora è vitale che venga dissipato ogni dubbio: chiarendo che davvero la partita delle presidenze non annuncia le fattezze del futuro governo. Nonostante le martellanti prediche dei nuovi irresponsabili apostoli del ‘tanto peggio tanto meglio’, la storia del Movimento 5 Stelle non c’entra nulla con quella di un partito xenofobo, razzista e ora pericolosamente prossimo al nuovo fascismo. Credo che dentro il Movimento la maggioranza la veda così: e così la vede certamente il nuovo presidente della Camera.
In molti ripetono, a ragione, che andare al governo con la Lega sarebbe un suicidio, per i 5Stelle. Ma non è questo il punto. Il punto è che al Senato i 5Stelle hanno fatto il proprio interesse. Ora devono dimostrare di esser capaci di decidere “nell’interesse esclusivo della Nazione”. Se lo faranno, saranno davvero diversi da tutti gli altri.

Il Fatto 27.3.18
Marco Rovelli
L’intesa non conviene a nessuno e non piace al ‘pilota automatico’


Anche se il Movimento e la Lega hanno in comune il fatto di opporsi all’establishment, credo che un accordo di governo non convenga a nessuno dei due. Alla Lega non conviene uscire dall’alleanza di centrodestra, perché senza i numeri di Forza Italia non potrebbe tenere testa ai 5Stelle, che hanno preso il doppio dei voti. Dall’altra parte, se il centrodestra rimanesse compatto, il Movimento non potrebbe mai accettare di stare con Berlusconi. L’accordo sulle presidenze delle Camere ha consentito a Salvini e Di Maio di mettere ai margini Berlusconi e Renzi, dimostrando capacità che forse in pochi gli attribuivano. Non credo che l’elettorato dei 5Stelle abbia intolleranze a priori sugli accordi politici, ma ci sono dei sentimenti di fondo che fanno parte della base e che determinano alcune incompatibilità: un conto sono le negoziazioni, un conto un patto di governo con Berlusconi.
Non dimentichiamoci poi il famoso “pilota automatico” di cui parlava Mario Draghi qualche anno fa, riferendosi all’influenza delle istituzioni internazionali sulla politica italiana. Quel “pilota” non è stato disattivato e anzi, ostacolerebbe un’intesa di governo tra queste due forze politiche.

Il Fatto 27.3.18
Camera, primo atto di Fico: “Rinuncio all’indennità”


Tre giorni dopo essere stato eletto presidente della Camera, Roberto Fico ha parlato ancora di tagli ai costi della politica, dichiarandosi pronto a rinunciare all’indennità da presidente. “L’epoca dei privilegi è finita – ha detto ieri l’ esponente del Movimento 5 Stelle in un’intervista al Tg1 – dobbiamo tagliare i costi della politica e io voglio dare il buon esempio, rinunciando alla mia indennità di funzione da presidente della Camera”. Oltre alle indennità e ai rimborsi previsti per tutti i parlamentari, i presidenti delle Camere hanno diritto a una maggiorazione sullo stipendio dovuta alla loro funzione. Nel caso di Fico, questo supplemento sarebbe di circa 4.000 euro al mese. “Il contrasto alla povertà è una priorità del nostro Paese”, ha detto ancora Fico, “così come dare sostegno a chi è in difficoltà”. Le parole rilasciate al Tg1 riprendono quelle pronunciate sabato a Montecitorio nel suo primo discorso da presidente, quando aveva indicato nella lotta agli sprechi della politica uno degli obiettivi della legislatura appena avviata.

La Stampa 27.3.18
Fico scopre il bus da presidente dopo un anno di viaggi in taxi
Nel 2017 spesi 2486 euro per le auto, 22,5 per i mezzi pubblici
di Davide Lessi


C’è chi ha scomodato addirittura Winston Churchill. E l’aneddoto dello statista britannico che decide di calarsi «tra i comuni mortali» prendendo la metropolitana a Londra. Ma restando in Italia, altri casi non mancano: si pensi alla bicicletta dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino o, prima di lui, allo scooter del collega Francesco Rutelli. Senza dimenticare Matteo Renzi e quel viaggio nella smart dell’ormai ex deputato dem Ernesto Carbone che lo avrebbe portato a Palazzo Chigi. Eppure, l’immagine di Roberto Fico che sale sull’autobus 85 per andare a Montecitorio nel primo lunedì da presidente della Camera è stata interpretata da tutti come «un simbolo del cambiamento». La politica che si riavvicina alla gente, dunque. «Il Parlamento non sarà più il simbolo della Casta», nell’interpretazione del blog delle Stelle. «L’umiltà è un valore», chiosavano grillini e non. «È semplicemente il solito Roberto Fico: uno che ai privilegi come auto blu e mega stipendio preferisce il rispetto per i cittadini», sentenziava il deputato 5 Stelle Manlio Di Stefano.
Se non fosse che dietro un’immagine, anche se costruita «a prova di telecamere», ci sono spesso più letture. Una la si trova spulciando il sito «tirendiconto.it», quello ufficiale del Movimento 5 Stelle che elenca restituzioni e rendicontazione dei parlamentari e dei consiglieri regionali. Ecco, cercando il nome di Roberto Fico e limitandosi all’ultimo anno della precedente legislatura (il 2017) si scopre questo: il deputato ha speso una media di circa 200 euro al mese in taxi e circa 1,8 euro al mese in bus e metropolitana. Poco più di un biglietto (da 1,50 euro) in trenta giorni. In un anno fanno 2845 euro per le “auto-bianche” e 22,50 per i mezzi pubblici. Quest'ultimi sembrano una novità o quasi per il neopresidente della Camera. Tant’è che nel video, appena arrivato alla stazione Termini, Fico alla precisa domanda - «cosa farà oggi?» - si lascia scappare una risposta-lapsus: «In questo momento prenderò il taxi».
Di tutt’altro tenore l’annuncio fatto ieri sera al Tg1 dallo stesso Fico. Ossia «la volontà di rinunciare all’indennità che spetta al presidente della Camera». Sono circa 4233 euro che si aggiungono allo stipendio base dei deputati. Non pochi: sarebbero 2.882 biglietti da 1,50. Ma l’immagine che resta è quella mattutina, a prova di telecamere e propaganda.

Repubblica 27.3.18
Roberto Fico in bus
La normalità si fa social
di Sergio Rizzo


Un presidente della Camera che viaggia in treno in seconda classe e prende l’autobus alla fermata non è altro che la normalità. In tutta Europa è assolutamente normale per i politici, pure di rango elevato, girare con i mezzi pubblici o in bicicletta. Per non parlare delle scorte: rarissime e riservate solo ai premier e ai ministri più sensibili. Al contrario dell’Italia, dove le auto blu scompaiono solo grazie alle furbizie statistiche, e le dichiarazioni di guerra a privilegi anacronistici nascondono in realtà l’attaccamento spasmodico a tutto ciò che può rappresentare uno status.
Fino a qualche giorno fa, in questo Paese dove da almeno dieci anni i politici dicono di voler combattere risolutamente quei privilegi, la macchina di servizio con chauffeur spettante a ogni giudice costituzionale era considerata alla stregua di un “benefit” che poteva essere serenamente utilizzato anche dai suoi familiari. E nessuno si era posto il problema che fosse una pratica non proprio commendevole finché un magistrato ha sollevato la questione a proposito dell’uso dell’auto assegnata a Nicolò Zanon da parte di sua moglie Marilisa D’Amico. Soltanto allora la Corte costituzionale ha provveduto a cambiare il regolamento introducendo qualche restrizione.
In Italia sembra che quasi nulla possa opporsi al mantenimento dello status. Al punto che i casi in cui i simboli di quello status vengono messi in discussione diventano sorprendenti: tanto da meritare una notizia in prima pagina. È rimasta indimenticabile la scena di Mario Monti, fresco di nomina a senatore a vita e in procinto di assumere l’incarico di presidente del Consiglio, che cammina in aeroporto da solo indossando un loden verde e trascinando un trolley. Indimenticabile e unica. Perché tutto il resto va in direzione opposta.
Perfino a dispetto di una decisione adottata dall’ex presidente del Senato Pietro Grasso, tutta la zona alle spalle di Palazzo Madama ha continuato per anni a essere invasa da monumentali berline tedesche. E gli abitanti del quartiere da sempre letteralmente assediato dalle auto blu ricordano come fosse oggi il corteo composto da una gigantesca Audi 8 con ben due macchine di scorta che partiva ogni mattina dal palazzo nel quale alloggiava provvisoriamente uno dei predecessori di Grasso, evidentemente in attesa che venisse allestito il suo appartamento presidenziale a palazzo Giustiniani, per condurlo a Palazzo Madama: distante a piedi, sì e no, 80 metri.
In questo panorama va riconosciuto che il contrasto con le foto scattate a Roberto Fico, prima in treno e poi sull’autobus, è davvero stridente. Almeno quanto lo è il suo proposito di voler rinunciare del tutto all’indennità aggiuntiva da presidente della Camera con la sfrontatezza di un sistema autoreferenziale e opulento che ha deciso di non applicare più a chi lavora a Montecitorio e Palazzo Madama il tetto agli stipendi dei dipendenti pubblici a partire dal primo gennaio. Ma sarebbe ancor più stridente se Fico in quelle foto non comparisse accanto all’uomo di scorta che lo deve evidentemente seguire ovunque. Anche se questo non dipende da lui. Liberarsi della scorta in Italia è un’impresa. Per rinunciare alla tutela l’ex ministro dell’economia Tommaso Padoa- Schioppa ingaggiò una battaglia durata un anno con gli organi competenti a gestire i problemi di sicurezza. E oggi esistono perfino casi di politici condannati a pene rilevanti per reati gravi che circolano accompagnati dalla scorta.
Detto questo, la normalità completa sarebbe quella di un presidente della Camera che sale sul treno ( prima o seconda classe poco importa, oggi ci sono tariffe di prima più scontate del prezzo di seconda) e prende l’autobus o la metro, ma senza un fotografo che lo insegua per immortalarne la normalità a sua insaputa. Soprattutto, ed è qui che la faccenda riguarda Roberto Fico, senza che il presidente senta poi il bisogno di postare le fotografie su un social, evidentemente per rivendicare la propria normalità. Umano. Ma è lì che la cosa rischia di non sembrare più tanto normale.

Repubblica 27.1.18
Il primo giorno di lavoro di Fico
Se il presidente della Camera sale sull’autobus
di Concetto Vecchio


ROMA Ieri Roberto Fico ha postato una foto su Instagram, dove lo si vede scendere da un autobus Atac. «Direzione Camera dei deputati», aveva scritto. In un baleno centinaia di follower, (Fico ne ha 22mila), avevano premuto sul cuoricino del mi piace.
L’immagine del presidente della Camera seduto sul bus, al suo primo giorno di lavoro sullo scranno più alto di Montecitorio, è stata rilanciata in grande stile dal Blog delle Stelle, la bacheca online del movimento, con il titolo “Il Parlamento non sarà più il simbolo della casta” e la didascalia: «Roberto Fico, presidente della Camera, che questa mattina si è recato come sempre al lavoro in autobus».
Ne è sorto il solito dibattito fideistico dei social, tra quelli che commentavano «grande esempio» e quelli, come l’ex deputata pd Paola Concia, che twittavano «questa è una cosa che dura un giorno, poi sarà costretto ad andare con la scorta». E siccome la rete è implacabile, c’è chi come la guerriera del renzismo Alessia Morani gli ha rinfacciato, grazie al sito tirendiconto.it, i 15mila euro spesi in taxi nell’ultima legislatura, a fronte dei soli 314 euro per bus e metro. A quel punto la discussione si è avvitata sulla domanda se ci costa di più un Fico che va in tram seguito dalla scorta - un’autorità che così potenzialmente mette in pericolo l’incolumità degli altri, come gli ha fatto notare più d’uno su Twitter - oppure un Fico che gira in auto blu, posto che la terza carica dello Stato non può rinunciare alla tutela di almeno quattro agenti.
In realtà, come si evince dal video dell’Ansa, Fico arrivato da Napoli col Frecciarossa delle 9,40 intendeva prendere un taxi ma, siccome c’era la fila, ha allungato il passo verso l’85, con accanto la scorta, («er presidente daa Camera, mica robetta», ha esclamato un cittadino), e così è arrivato in centro, mentre la gente si congratulava, lo applaudiva, gli stringeva la mano. In serata ha annunciato che rinuncerà «totalmente» all’indennità di funzione da presidente della Camera: 4.223 euro netti, che si aggiungono allo stipendio base di circa 5.000 euro.
In tutto questo va segnalato l’incendio scoppiato attorno al tweet alla Fortebraccio di Guido Crosetto (Fratelli d’Italia): «Ieri, mentre arrivavo alla Camera, ho visto arrivare un’auto e infilarsi nel parcheggio riservato a pochi parlamentari fortunati. Ne è sceso Di Battista». È stato ricoperto di contumelie grilline. Ora, a onor del vero, anche Laura Boldrini nei primi giorni andava a piedi, «sono qui per fare del Parlamento la casa della buona politica», diceva, e veniva fermata dalle scolaresche che le chiedevano selfie. E sia lei che il presidente Grasso annunciarono un taglio dello stipendio del 50%. Grasso disse una cosa che aveva detto anche Fini prima di lui: «Mi auguro che il Senato lavori dal lunedì al venerdì, e non più solo da martedì a giovedì». Anche Renzi, negli esordi da premier, andava a piedi dall’Hotel Bristol in piazza Barberini a palazzo Chigi, e la gente gli diceva «non mollare!», e gli chiedeva i selfie, e Renzi assicurava «la mia scorta è la gente».
Pure Monti arrivò a Roma col trolley.
All’estero si ricordano i casi dell’ex premier Gordon Brown sorpreso nella Tube e il sindaco di New York Michael Bloomberg, che amava farsi vedere mentre s’infilava nella metro, poi all’uscita trovava ad attenderlo i Suv con i vetri oscurati e i bodyguard. Insomma, nei primi giorni in tanti si sentono un po’ Pepe Mujica, l’ex presidente dell’Uruguay che rinunciò a vivere nel palazzo presidenziale, dimorando alla periferia di Montevideo con 800 euro, il dieci per cento dello stipendio: per tutto il mandato.

il manifesto 27.3.18
Il clima è quello della conta. Un "renziano non pentito" di palazzo Madama dice: "I topi stanno scappando"
Gennaro Migliore: tutto (il Pd) crolla ma lui non se ne va
di Andrea Scanzi


C’è una pagina Wikipedia che si è fermata nel tempo. Fino a ieri, infatti, cominciava così: “Gennaro Migliore (Napoli 21 giugno 1968) è un politico italiano, dal 29 gennaio 2016 ricopre l’incarico di Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia nel Governo Renzi”. Coerentemente col personaggio, anche la sua descrizione è piena di errori: il reputarlo “politico”, per esempio. E poi quel credere che il governo Renzi ci sia ancora. Più che un errore, forse è uno stato mentale: per un ex massimalista che ha fatto di tutto pur di salire sul carro del vincitore, fino a tradire (come quasi tutti i massimalisti) quasi tutto ciò in cui credeva a vent’anni, scoprirsi perdente anche da trasformista dev’essere frustrante. Al tema della sconfitta Genny dedicò un libro nel 2009: “È facile smettere perdere di perdere se sai come farlo. Idee di sinistra per la nostra sinistra, subito”. Era più lungo il titolo del libro, scritto a quattro mani con Michele Dalai, che Genny – durante la lavorazione – rimproverava d’esser troppo riformista, laddove invece Migliore era la reincarnazione campana del Che Guevara. E infatti poi si è visto. Genny si è laureato in Fisica: “Distribuzioni partoniche nella diffusione profondamente inelastica” (come fosse Antani). Una vita in politica, giocando a quello che era sempre più duro degli altri. Uno di quelli che, se lo incontri al liceo o all’università, ti fa diventare bimbominkia di Fedriga. Giornalista pubblicista, si iscrive a 25 anni a Rifondazione comunista. Eletto deputato per la prima volta nel 2006. Due anni dopo Genny si candida con la Sinistra Arcobaleno, però va malissimo. Desideroso di distruggere qualcos’altro, fonda gruppetti a caso (Associazioni per la Sinistra, Movimento per la Sinistra) per poi contribuire in prima persona alla nascita di Sel, che di fatto nasce quindi morta in partenza.
Deputato nel 2013, è scelto da Sel come capogruppo alla Camera. Ma Genny non è felice: lo capisci anche solo guardandolo. A 45 anni non ha più voglia di perdere. Cerca quindi un pretesto. Lo trova a giugno 2014: gli 80 euro del governo Renzi. Sel vota contro, lui e altri a favore. E’ la svolta: prima forma l’ennesimo pulviscolo pleonastico (Libertà e Diritti-Socialisti europei), quindi entra nel renzianissimo Pd. Il Despotuccio di Rignano cerca di sfruttare la sua esperienza (va be’) e lo spedisce in tivù a ogni ora del giorno, per convincere la plebe di quanto il Pd sia il bene e tutto il resto il male. L’effetto è ovviamente opposto: più lo ascolti e più voti chiunque tranne lui. Il Pd crolla dai fasti del 2014 ai disastri a raffica degli anni successivi, fino alle Waterloo del 4 dicembre 2016 e 4 marzo 2018, ma i turbo-renziani non cambiano. Non imparano nulla, non fanno autocritica. Niente di niente: se ne stanno lì, a demolire quel che resta del partito, e basta. Nel frattempo Genny è rieletto una terza volta e non molla certo lo scranno televisivo. Pochi giorni fa l’attore Ivano Marescotti lo ha demolito a L’aria che tira: “Migliore dice che il Pd non cambia opinione su un accordo col M5S. Detto da lui, mi scappa un po’ da ridere (..) Migliore anni fa attaccava violentemente il Pd quando era ancora di Sel e poi è diventato un renziano di ferro (..) Migliore è uso a cambiare idea abbastanza di frequente (..) Non vogliamo più vedere queste facce che ci governano da 20 anni. Andate via, per favore. Lasciate il campo”. Ovviamente Genny non lascerà il campo e mai se ne andrà: al suo ruolo di perdente di insuccesso, sfollatore di elettori e consensi, ci tiene troppo. Forse perché non ha altro.

il manifesto 27.3.18
La nuova camera, operai quasi spariti
Montecitorio. Molto più giovane, con più avvocati e imprenditori e meno professori e ricercatori. Ecco la radiografia dell'assemblea: le donne sono ferme al 35%
di A. Fab.


Meno operai: erano cinque e sono diventati due, nessuno eletto a sinistra (sono uno leghista e l’altro grillino). Più imprenditori, erano 42 e sono diventati 68. Pochi, ma triplicati i militari di professione, da due a sei. E crescono ancora gli avvocati, nel 2013 erano 71 adesso sono 85, mentre i magistrati restano pochissimi, erano tre e sono due. Il sito della camera dei deputati ha pubblicato le prime informazioni sui neo eletti, aspettando, entro oggi, la formazione dei gruppi.
È una camera dei deputati assai più verde della precedente, in 27 non hanno ancora compiuto trent’anni. Bisogna tornare indietro alle elezioni del 2006 per trovare uno (e uno solo) deputato in questa classe di età. Adesso la più giovane, per pochi giorni, è Angela Raffa, grillina siciliana. Quando sono state convocate le elezioni non aveva neanche compiuto i 25 anni minimi necessari per essere eletti (compleanno a fine gennaio). Nel 2013 più della metà dei deputati aveva oltre cinquant’anni e gli over 60 erano 141. Adesso il 40% dei deputati ha meno di quarant’anni e gli over 60 sono appena 56.
Le donne sono aumentate, ma solo di 28 unità: da 197 a 225. Rappresentano così il 35% della camera, cinque punti sotto la soglia minima delle candidature femminili prevista dalla legge elettorale. Conferma che il meccanismo delle pluricandidature le ha penalizzate.
Stabile la rappresentanza di altre professioni, giornalisti (da 31 a 26), medici (da 14 a 15), insegnanti (da 25 a 29). Si nota una diminuzione secca dei funzionari di partito: erano 31 e sono 19. Ma i politici di professione non sono diminuiti rispetto al 2013, perché parallelamente è aumentata molto la categoria degli amministratori locali, da 7 a 16. Infine è diminuita la delegazione a Montecitorio dei professori universitari, passati da 29 a 20. Non dovrebbe dipendere dal ringiovanimento complessivo, perché è diminuita anche la pattuglia dei ricercatori, da 17 sono scesi a 8.
Quanto al livello di studio, ci sono più deputate e deputati che hanno un titolo post laurea (da 80 a 85) ma anche più deputate e deputati che hanno solo la licenza di scuola media (12 invece che 8) o il diploma superiore (177 invece che 160). Sostanzialmente stabili i laureati, tra vecchi e nuovi ordinamenti l’assoluta maggioranza: 440 oggi contro i 428 di cinque anni fa.

il manifesto 27.3.18
E adesso l’onda giallo-blu rischia di travolgere le ultime città rosse
Dopo il voto. Rischio per le prossime elezioni locali
di Giovanni Stinco


BOLOGNA L’Emilia non è più rossa, quel che la Lega predicava 10 anni fa alla fine è diventato realtà. La calata dal nord c’è stata, così come c’è stato un aumento dei voti per il Movimento 5 Stelle e un clamoroso tonfo del Partito democratico. Ma i dem non avranno tempo per tirare il fiato. A fine maggio si voterà a Imola, cittadina alle porte di Bologna dove il Movimento 5 Stelle scalpita e si dice pronto a togliere la città dalle mani del Pd. L’anno prossimo si voterà a Ferrara, altro centro che sembra pronto ad essere sommerso, questa volta dall’onda azzurra di Salvini. Dopo le elezioni a rischiare grosso sono i veri ultimi fortini del Partito democratico: i comuni, e non solo i piccoli centri successo già altre volte negli scorsi anni. «E’ il preludio a una stagione nuova nella quale tutto è possibile, persino che sia contendibile la guida della vostra regione», diceva meno di sei mesi fa Silvio Berlusconi. Aveva ragione. Gli occhi di tutti sono puntati su Imola, cittadina di 70 mila abitanti a meno di 50 chilometri da Bologna. A scoprire le carte per primo è stato il Movimento 5 Stelle che ha fatto votare gli attivisti e ha scelto la sua candidata sindaco, Manuela Sangiorgi. Su Imola alle ultime politiche la distanza tra Pd e Movimento 5 Stelle è stata solo di 200 voti, un’inezia.
LA CITTÀ è più che contendibile, e c’è anche chi nota come Imola sia decisamente troppo vicina a Bologna perché una sua eventuale caduta non generi scossoni politici anche nel capoluogo di Regione, al sicuro solo perché il sindaco è stato rinnovato nel 2016.
Non troppo lontane ci sono anche le regionali: in Emilia-Romagna si voterà di nuovo fra un anno e mezzo partendo dal quasi 70% di astensione del 2015. Nel frattempo la coalizione di centro sinistra non esiste più, con Liberi e Uguali che non dà per scontata una futura alleanza con il Partito democratico. Variabile decisiva nella sfida tra Pd, Lega e 5 Stelle potrebbe essere il partito del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, blasonatissimo ex 5 Stelle uscito dal Movimento nel 2016 e capace di riconfermarsi primo cittadino nella sua città, con Grillo e Casaleggio a fargli campagna elettorale contro. Pizzarotti ha creato una rete di sindaci civici e punta ad avere un ruolo importante nella prossima tornata elettorale. Dopo un iniziale «no» il Pd, in difficoltà com’è, si dice ora molto interessato al dialogo. L’alleanza tra le due forze sembra un possibile approdo naturale della trattativa, ma nulla è scontato.
NEL 2019 infine si voterà a Ferrara. E qui la sfidante principale del Pd sarà la Lega di Salvini. Attore protagonista potrebbe essere l’agitatore leghista Nicola Lodi. Nel 2015 volto noto delle barricate anti immigrati di Gorino, Lodi oggi è il segretario del Carroccio a Ferrara e da tempo ha ingaggiato una battaglia sul quartiere che ruota attorno alla cosiddetta «Gad», la zona dei grattacieli a due passi dalla stazione. Dove decine di migranti, alcuni giovanissimi, passano pomeriggi e serate senza progetti di integrazione adeguati e senza lavoro (perché, e lo spiegano direttamente a loro a chi glielo chiede, non possono nemmeno cercarlo il lavoro non avendo i documenti). Alcuni spacciano, parte di una rete di vendita che nella zona è capace di rifornire con efficienza qualsiasi cittadino ferrarese. Lodi sulla Gad ha scatenato una guerra politica, ha chiesto al sindaco Pd Tagliani di trovare subito una soluzione, ha invocato e ottenuto l’intervento dell’esercito per pattugliare le strade. E così, denuncia dopo denuncia, ha messo in cassaforte voti su voti, forte di un problema complesso che va oltre la capacità di intervento di un’amministrazione comunale.
«LA ZONA GAD è il principale problema di ordine pubblico di Ferrara, in un fazzoletto di terra c’è una concentrazione abnorme di centinaia di giovani nigeriani che non svolgono alcuna attività lavorativa o sociale». Parole pronunciate nell’estate 2017 dall’allora Questore Antonio Sbordone. Parole che hanno scattato una fotografia con la stessa angolazione con cui la scatterebbe il leghista Lodi. La traduzione mediatica è stata: «alla Gad ci sono troppi nigeriani». Eccola lì l’invasione di cui parla Salvini in tv. Cosa succederà in città quando si voterà nel 2019 è presto per dirlo, a sentire Lodi ormai Ferrara è diventata ampiamente contendibile. Nel frattempo il sindaco Pd Tiziano Tagliani sulla questione Gad, vero buco nero in termini di consenso politico, ha rivendicato le tante cose fatte negli ultimi anni. «Non ci siamo mai tirati indietro su nessun fronte», ha detto, per poi lodare le maxi operazioni di controllo recentemente messe in campo dalle forze dell’ordine proprio nella zona della stazione per tenere alta la guardia, hanno spiegato i giornali locali, su «immigrazione clandestina, prostituzione e spaccio di sostanze». Temi su cui la propaganda leghista propone da tempo un pacchetto chiavi in mano di risposte immediate e riconoscibili.

il manifesto 27.3.18
Viaggio nell’ex Emilia rossa che ha tradito il Pd per la Lega
Dopo il voto. Paura degli immigrati, crisi economica e diffidenza verso l’Europa dietro il tracollo dem
di Giovanni Stinco


FERRARA «Il mio nome? No, no, non serve». E allora lo chiameremo Carlo. Quaranta anni appena compiuti, lo incontriamo di venerdì a mezzogiorno nella piazzetta principale di Comacchio. Con la sua bicicletta, cappello guanti e giaccone per affrontare il freddo e l’umidità di questo paesino del ferrarese, vicino al Veneto e a meno di 50 chilometri dal Delta del Po. «Cos’ho votato? Ho votato per Matteo Salvini, e lo rivoterei anche domani se me lo chiedessero». Te lo dice in faccia, senza il minimo dubbio. E aggiunge: «Perché bisogna cambiare, perché qui la sinistra ha governato da decenni e io non ho un lavoro fisso, con i lavoretti in nero mi pago le serate e le pizze il sabato sera con gli amici ma dipendo ancora dai miei genitori. E allora ti dico che il centro sinistra deve finire sotto terra, non farsi più vedere punto e basta».
ACCANTO A LUI tre quasi sessantenni, un contadino e due operai. Dicono di essere stanchi, la pensione il loro orizzonte di speranza. Un’attesa che però vedono allungarsi, anno dopo anno. «Perché Lega? Perché Salvini ha promesso di abolire la riforma Fornero», dice uno di loro. «Lo vedi Claudio là in fondo alla via? Va per i 65 anni e ancora non può smettere di lavorare, invece ai migranti danno vitto, alloggio e tutto quel che serve. Ti sembra giusto?». «Ho votato 5 Stelle», dice un terzo signore sulla sessantina. «Ma avrei potuto benissimo votare Lega, per me è uguale. Qui bisogna cambiare, e se tu hai votato sinistra non dirlo – aggiunge in dialetto, ridendo sotto i baffoni bianchi – che qui quelli rossi non li vogliamo più vedere».
Il risultato alla Camera nel collegio 4 Ferrara-Mare ha visto Lega, 5 Stelle e Pd praticamente alla pari, tutti al 27.4%. Ma la destra ha stravinto come coalizione. Così l’avvocata Tomasi è passata col 39,6%, mentre il ministro Franceschini è stato sonoramente bocciato col 29%, ripescato altrove grazie al paracadute del proporzionale. Al senato per il Pd non è andata meglio. Nel collegio di Ferrara-Imola la sfida era tra la prodiana Sandra Zampa e l’ex missino ora FdI Alberto Balboni. Un candidato dell’ultradestra contro un volto noto Pd che al Senato aveva dedicato 5 anni alla difesa dei più deboli, opponendosi ai Centri di identificazione ed espulsione e lavorando per i diritti dei minori stranieri. Risultato? Zampa fuori dal parlamento. Non è successo solo a Ferrara, in tutta l’Emilia-Romagna il Pd ha tenuto a stento nelle grandi città, a Bologna e provincia, a Reggio, in parte a Modena. Per il resto l’ondata azzurro Salvini e giallo 5 Stelle ha sommerso il rosso sempre più sbiadito di un Pd e di un’amministrazione che, a livello regionale, resta pur sempre il prodotto di un’astensione monstre.
NEL 2014, alle ultime elezioni regionali, ad essere eletto governatore fu il democratico Stefano Bonaccini ma votò solo il 37,7% degli aventi diritto contro il 68 delle elezioni precedenti. Un campanello di allarme che forse ha suonato a vuoto per quattro anni di fila. Oggi in Emilia-Romagna la prima coalizione è quella dell’asse Salvini-Berlusconi (rispettivamente con il 19% e il 10% dei voti, a cui bisogna aggiungere il 3% di FdI), il primo partito il Movimento 5 Stelle (con il 26,94% dei voti, pochi decimali sopra il voto Pd). La sinistra di Liberi e Uguali fa meglio che altrove in Italia, ma resta comunque sotto il 5%. I dati dicono che rispetto al 2013 il Pd in regione ha perso 350 mila voti, la Lega ne ha guadagnati 389 mila. Un boom, quello leghista anche dovuto alla martellante propaganda televisiva dei volti noti del salvinismo. «I migranti sono ovunque, siamo invasi», dicono gli elettori-telespettatori, nel ferrarese come in tutta la Regione, e questo nonostante l’Emilia sia tutt’ora un territorio dove l’accoglienza ha funzionato bene, e dove molti sono stati i progetti di integrazione messi in campo. Ma non ci sono solo fattori nazionali, o geografici visto che Ferrara non è lontanissima dal Veneto verde Lega.
NEL CAPITOLO dedicato a Ferrara nel volume «Viaggio in Italia» edito dal Mulino l’ex sindaco oggi sindacalista Cgil Gaetano Sateriale ha raccontato le difficoltà di un territorio che in passato era riuscito a togliersi di dosso l’etichetta di «mezzogiorno d’Emilia», con una buona politica industriale e una saggia amministrazione nel corso dei decenni. La crisi, il terremoto e il crack della locale Cassa di Risparmio hanno però lasciato il segno. «Nella stagnazione conseguente – ha scritto Sateriale – quel che in parte ha ceduto è stato il tessuto economico legato a un mercato esclusivamente interno e locale, incapace per dimensione e competenze di misurarsi con una domanda e una competizione ben più vaste». Il crack di Carife è stato un piccolo simbolo dell’incapacità della classe dirigente Pd di risolvere in tempi utili problemi sentitissimi, visto che il disastro bancario ha colpito migliaia di piccoli risparmiatori. «Le banche sono state salvate e i risparmiatori ancora non hanno riottenuto i loro soldi, quindi nell’urna hanno poi messo la x dove doveva metterla, perché c’è chi ci ha ascoltato e chi no», ha sentenziato Giovanna Mazzoni, ferrarese e volto notissimo dei comitati No Salva Banche.
A PROPOSITO di denaro: a Ferrara e provincia il reddito procapite è di quasi 25 mila euro l’anno (dato 2016), poco al di sotto della media nazionale ma decisamente più basso dei 33 mila euro di media dell’Emilia-Romagna nel suo complesso. La provincia di Ferrara nel suo contesto è povera, e la crisi ha segnato profondamente la fiducia delle persone. Dal 2008 al 2014 la variazione del reddito pro capite – dati Istat – ha toccato un meno 7%. Un tonfo mentre altrove in Regione l’economia reggeva. Dati che aiutano anche a mettere in prospettiva i risultati superiori ad ogni attesa che la Lega di Salvini ha avuto in questi territori. A Ferrara, a Comacchio, ma anche 40 chilometri più in là, a Goro, il paese famoso per le barricate anti immigrati del 2015. Nella frazione di Gorino la Lega ha stracciato la concorrenza, portandosi a casa 6 voti su 10. Razzismo? Paura dei migranti? L’ostilità c’è, ma non è solo questo. Basta fare un giro nel porto di Goro, con le barche dei pescatori ancorate una accanto all’altra. I discorsi che si sentono non parlano di africani, ma di pescherecci, vongole e politiche della pesca. La parola che spunta sempre fuori quando si parla di politica è una: Europa.
La neoeletta leghista Maura Tomasi non fa mistero di averci puntato: «Abbiamo detto prima gli italiani, ma per noi quello slogan vuol dire andare a Bruxelles a sistemare le cose, vuol dire difendere i nostri posti di lavoro». «Ho votato 5 Stelle – dice un pescatore – perché è da anni che mio figlio tenta di comprarsi una barca tutta sua, e invece le banche gli dicono sempre di no». Questione complessa quella sulla pesca, con rivalità che non serve cercare dall’altra lato dell’Adriatico, basta guardare su a nord verso il Veneto. Ma se si chiede una sintesi a questi uomini di mare la risposta è sempre uguale. «Le regole europee sulla pesca ci stanno strangolando, qui non usciamo più come una volta», dice un signore di 50 anni mentre scarica casse piene di pesce. Poi aggiunge sottovoce: «Allora quando andiamo al largo per fare due soldi ci tocca violare la legge, ma non sono quelle le regole che noi vogliamo. La Lega ha promesso di difenderci, speriamo ora Salvini faccia quel che ha detto».

Repubblica 27.3.18
Salvini, il colle e quei segnali verso la Russia
di Stefano Folli


Esistono indizi che illuminano angoli in apparenza secondari del problema. La domanda che molti si pongono è se Salvini e Di Maio, ciascuno nel proprio ambito, non stiano già rinfoderando le bandiere sventolate in campagna elettorale. Ma gli indizi, appunto, dicono il contrario. Ieri Salvini, dei due senz’altro il più dinamico, ha polemizzato con il governo Gentiloni per la decisione di espellere due diplomatici russi nell’ambito della ritorsione europea dopo l’affare Skripal.
Si è capito che un esecutivo in cui la Lega avesse ruoli di primo piano non seguirebbe l’Unione su questa strada e non farebbe nulla per accrescere la tensione con la Russia di Putin. Il segnale è chiaro e tocca un aspetto cruciale della politica estera italiana in un momento di crisi internazionale. Giorni fa Salvini è stato ricevuto dall’ambasciatore americano e al termine ha dichiarato di riconoscersi nella linea del presidente Trump (“America first”), tradotta dalla Lega come “prima gli italiani”. Questo non vuol dire che il nuovo centrodestra intenda ricalcare tutte le mosse di Trump, tuttavia s’intravede un comune denominatore ed è la scarsa simpatia, per usare un eufemismo, nei confronti dell’Unione europea.
Come dire che l’Italia in cui Salvini si trovasse ad esercitare una sorta di egemonia politica potrebbe diventare, in certe circostanze, un grimaldello contro le scelte di Bruxelles. Una questione su cui il Quirinale è molto attento e su cui chiederà adeguate garanzie ai vincitori del 4 marzo. Peraltro non è solo il desiderio leghista — o dell’intero centrodestra — di mantenere buoni rapporti con Putin. In queste prime mosse post-elettorali c’è la volontà di distinguersi dall’Europa su un ventaglio di temi di fondo: la politica verso la Russia, certo, ma soprattutto le questioni economiche. L’Europa chiede rigore sul debito e quindi sul sistema pensionistico, mentre la Lega vuole cancellare o almeno riscrivere la legge Fornero. È una contraddizione di non poco conto: forse con qualche artificio si può aggirare l’ostacolo, ma è singolare che Berlusconi, dopo l’amaro fine settimana in cui ha perso la leadership del centrodestra, si preoccupi solo di garantirsi un posto al tavolo dove siederanno Salvini e Di Maio. Altrimenti “il loro governo sarebbe un ircocervo”.
Come posizione politica è debole e rivela tutta la fragilità di un leader che fino a ieri si considerava, a ragione, il referente italiano dei Popolari di Angela Merkel.
Quanto ai Cinque Stelle, prima di dare per scontata l’intesa finale fra Di Maio e la Lega, è necessario attendere una serie passaggi parlamentari e istituzionali, in particolare — è ovvio — le decisioni di Mattarella. Del resto non sono ancora nemmeno cominciate le consultazioni.
Di Maio e i suoi per adesso sembrano concentrarsi sulla nuova “centralità” del Parlamento (vedi il discorso del neopresidente della Camera Fico), il che serve a valorizzare il quasi 33 per cento del M5S ma è anche un modo per sfuggire alle contraddizioni del rapporto con la Lega. E con Berlusconi. D’altra parte Salvini è abile a lusingare e attrarre i “pentastellati” sul terreno più favorevole al centrodestra. Persino sul reddito di cittadinanza non esclude un compromesso, come ha detto Giorgetti.
E sul tema di fondo — chi va a Palazzo Chigi? — Salvini conferma che non è quella la sua priorità. Con ciò sgombrando il campo da un possibile attrito con l’interlocutore. Tanto più che per lui quel che conta è la presa di possesso del centrodestra. La certezza che la guida della coalizione sarà nelle sue mani.

il manifesto 27.3.18
La società che davanti al voto si dilegua
di Enzo Scandurra


Cosa è successo alla politica che non comprendiamo? Perché dopo il grande successo referendario siamo arrivati a un governo che si annuncia inquietante? E perché la sinistra è diventata così tanto odiosa agli occhi della gente?
In politica non è dato il lutto, quella fase di ripensamento doloroso necessario per metabolizzare gli errori e riprendere a vivere; il lutto richiede tempo, il tempo del lutto: kairos lo chiamavano i greci; un lutto collettivo è impensabile dati i tempi della decisione che ha una ricaduta immediata sulla vita delle persone in carne ed ossa (immigrazione, ius soli, scuola, ecc.).
Che fare dunque? Riazzerare tutto? E chi ci garantisce che non si ripercorrerebbe la stessa strada andando incontro agli stessi problemi e alla stessa tragica sorte?
Eppure, come ha affermato Gaetano Azzariti (il manifesto del 24 marzo) un popolo cosciente, in occasione del referendum, era sceso in campo contro la stessa volontà dei partiti, aveva riempito le piazze e i luoghi della discussione pubblica, un popolo scomparso il giorno del voto.
I partiti vincenti rappresentano solo la pancia del paese e interpretano strumentalmente le esigenze degli abitanti.
Per la sinistra un partito non c’è più, si è progressivamente prosciugato, scolorito inseguendo le magnifiche sorti annunciate dal neoliberismo, la sua ideologia dei consumi e dell’individuo fai-da-te. E’ diventato incolore, sbiadito, un sepolcro imbiancato da cui la vita (politica) è sfuggita per andare altrove, per riempire il bottino elettorale dei 5stelle o addirittura della Lega.
Perché a sinistra del Pd, bisogna ammetterlo, non è nato nulla che possa dare una speranza (se non un modesto terreno residuale di LeU e Potere al Popolo).
La stessa parola sinistra è diventata odiosa: sei ancora di sinistra? Ti senti spesso dire come fossi una reliquia del passato, come se ancora ascoltassi le canzoni di Tony Dallara e i suoi gorgheggi a singhiozzo.
Resta una sinistra sociale disorganizzata che non ha rappresentanti, afona, dunque inefficace politicamente. Bisognerebbe dare fiato a questa sinistra sociale, l’unica che non arretra, che è molecolarizzata nelle pratiche quotidiane, negli episodi di solidarietà ai migranti, nell’accoglienza, nella produzione di cibo buono non adulterato, nelle scuole, nelle università.
Il referendum lo ha dimostrato: sono molti di più di quanto crediamo, sono un popolo. Ma quando si arriva al voto essa si disperde, cerca i suoi rappresentanti in ordine sparso, perde la sua carica antagonista, si sfibra, muore sciogliendosi nell’informe o nella regressione.
La sinistra sociale non chiede un partito, non almeno di quelli che abbiamo conosciuto nella storia; purtroppo la sua forza è proprio questa: aver metabolizzato e capitalizzato l’esaurimento dei partiti (ancora una volta il referendum lo ha dimostrato).
Oggi nessuno andrebbe più a una manifestazione indetta da un partito; il popolo invece partecipa in massa a manifestazione contro il razzismo, contro il femminicidio, contro la “buona scuola”, per la ricerca, per l’inquinamento, per il consumo di suolo e la cementificazione progressiva di coste e territori.
Dunque una sinistra c’è, è al lavoro ogni giorno, prende iniziative lontano dai partiti, ma evapora quando si tratta di rappresentarsi nelle forme tradizionali.
E’ un’indicazione di lavoro politico.

Il Fatto 27.3.18
La legge che rende inutile insegnare
Le lezioni frontali ormai sono considerate un optional, ora i docenti devono anche valutare i tirocini, con voti che alzeranno la media. Così i ragazzi capiscono quanto poco è considerato lo studio
di Filippomaria Pontani


“Perché mai rispettare / dei beni che non danno utilità? / Non ha senso! Mio caro, in verità, / vi ritenete un grande: ma, alla prova, / a quanta gente date da mangiare? / A che vi serve leggere? A chi giova?… Lo Stato non sa proprio cosa farsene / di gente che non spende”
Così, in una fortunata favola di La Fontaine (I vantaggi del sapere), un ricco decantava il lavoro utile facendosi beffe della dottrina di un suo concittadino sapiente – salvo poi, dinanzi a un imprevisto rivolgimento della storia, essere spazzato via per mancanza dei minimi strumenti culturali.
Non ha tratto insegnamenti da questo apologo il legislatore che ha obbligato tutti gli studenti d’Italia a devolvere un numero assai elevato di ore (200 nei licei, 400 negli istituti secondari d’altro tipo) ad attività professionali non retribuite: attività che in molti casi non solo distraggono energie e concentrazione, ma, svolgendosi durante l’orario di lezione, portano i giovani a perdere ore d’insegnamento, configurando classi “à la carte” in cui di giorno in giorno si vede chi c’è (il lunedì 3 studenti sono dal tornitore, il martedì tornano quelli ma mancano i 5 che sono in biblioteca, e il mercoledì invece altri 2 che vanno in aeroporto). Con quale profitto per l’insegnamento frontale (ormai ritenuto un optional, non teso alla formazione di cittadini consapevoli, ma giustificabile solo in quanto propedeutico a un – peraltro fantomatico – lavoro specializzato), è facile immaginare.
Questo è il sistema che la “Buona scuola” renziana (legge 107/2015) ha introdotto sotto il nome altisonante di “Alternanza scuola-lavoro”, provando goffamente a mettere a sistema alcune splendide esperienze che non avevano alcun bisogno di diventare obbligatorie per tutti: se un istituto elettrotecnico toscano o un avanzato convitto del Friuli avevano avviato da anni benemerite collaborazioni con imprese interessate a formare da subito i propri futuri lavoratori, bastava tutelare quelle esperienze e promuoverle nei giusti limiti, non imporre a un liceo classico campano o a uno scientifico del trevigiano d’inventare improbabili convenzioni con aziende che finiscono per “fare un favore” alle scuole prendendo dei giovani a fare, gratis, lavori di contorno. Il tutto – lo ha denunciato abilmente Christian Raimo – senza che sia chiaro a nessuno il disegno pedagogico sotteso, sepolto in formule burocratiche del peggior gergo, e in griglie in cui si valuta l’ “imparare a imparare”, l’assimilazione della “cultura d’azienda” e simili amenità.
Dopo aver sancito ufficialmente la svalutazione dell’apprendimento tramite lo studio (ove mai, in una società come la nostra, qualche giovane ancora vi credesse), e aver indotto l’illusione di un contatto con il mondo del lavoro laddove in realtà inculca da subito il principio del lavoretto a gratis, l’Alternanza scuola-lavoro non ha finito di far danni: in queste settimane, infatti, in previsione della chiusura dell’anno scolastico e con particolare riferimento alle classi terminali, i Consigli di classe devono stabilire le modalità della valutazione di questa attività “on the job” (sic), che non ha una casella a sé stante (non è, per intenderci, una “materia” in più), ma deve rifluire e influire sulla valutazione disciplinare complessiva dello studente.
La Guida operativa del ministero in materia è, come spesso, poco chiara: prevede in sostanza che si acquisiscano le valutazioni in itinere dei tutor esterni (di norma, ovviamente, assai benevole: in molti casi tutti gli allievi hanno il massimo, così non si creano problemi), le autovalutazioni degli studenti (ovviamente positive, anche se poi, in via confidenziale, molti confessano di non aver fatto assolutamente nulla in quelle ore), e che poi il Consiglio di classe metta in opera strumenti di verifica (una presentazione di 10 minuti? una relazioncina di due pagine?) per giudicare e certificare un’attività che si è svolta per intero fuori dalle mura della scuola.
Accade così che alcune scuole decidano di formulare un voto (di norma alto) che andrà a far media con quelli della disciplina o delle discipline più “affini” al tema dell’attività lavorativa; altre, di spalmare il voto addirittura su tutte le discipline curricolari (non senza motivo: in molte griglie si prevedono voti su “competenze sociali e civiche”, “economia”, “lingua italiana”, “lingua straniera”, “scienza e tecnologia”, anche se – per dire – uno fa fotocopie o frigge patatine da McDonald’s); e in percentuali – per quanto riguarda il “far media” con i voti sudati nei compiti in classe o nelle interrogazioni – che ogni scuola decide a suo modo (50 e 50? 60 e 40?).
Anche per quanto riguarda l’esame di Stato, la valutazione delle esperienze di Alternanza scuola-lavoro finisce per innalzare la media con cui gli studenti vengono ammessi alla maturità, anzi il loro “credito scolastico”, come si dice oggi.
In una scuola in cui– come sa chiunque abbia insegnato un solo giorno – studenti e genitori spesso si alleano contro i docenti per rivendicare voti alti anche a fronte di uno scarso impegno, l’Alternanza scuola-lavoro rappresenta una svolta ideologica che mina alle fondamenta, anche in sede di valutazione dello studente, la credibilità di un sistema di trasmissione del sapere serio e non (posticciamente) orientato sulla sua presunta caratura professionalizzante.
Che qualche docente di italiano, di greco o di matematica, già sballottato fra mille moduli, registri elettronici e vessazioni burocratiche, continui a insegnare con passione in un contesto del genere, è ormai un vero miracolo.
José Saramago, figlio del popolo, diceva sempre di dovere la sua vena di scrittore al fatto di aver trovato nell’istituto tecnico che frequentava, in un angolo remoto del Portogallo, un professore di lettere serio, severo e preparato. Chissà se oggi gli avrebbe prestato altrettanto credito.

Il Fatto 27.3.18
La rivoluzione anagrafica di una generazione esclusa
di Antonio Padellaro


Sabato mattina il giovane sta per salire in macchina, il vecchio lo raggiunge, quasi gli si aggrappa al braccio, gli sussurra qualcosa all’orecchio, il giovane fa un cenno con la testa come per dire: dai, ho capito, ora fammi andare, e rapidamente chiude lo sportello. È la clip televisiva che fissa l’istante di un’abdicazione, forse l’attimo di una resa. Il quarantenne Matteo Salvini con un colpo secco, improvviso, volutamente sgarbato ha imposto all’ultraottantenne Silvio Berlusconi il suo personale candidato di Forza Italia per la presidenza del Senato. E ha spazzato via il nome indicato dall’altro. Il giovane è andato a comandare in casa del vecchio, che prima si è atteggiato a furibondo e convesso (come si permette?, ora lo distruggo) per poi farsi concavo, piegato dalla dura realtà dei fatti. Buon viso a pessimo gioco.
È anche (soprattutto?) una sfida anagrafica quella vinta dal giovane Salvini e dal trentenne Luigi Di Maio contro la coppia Nazareno, logorata dalla sconfitta, sfiancata dall’esercizio del potere per il potere, sfibrata dal perpetuarsi delle stesse facce, delle stesse parole, delle stesse bugie. Quella composta dall’anziano miliardario (cinque anni in più dell’età complessiva dei due giovanotti) e da Matteo Renzi: un Dorian Gray che a furia di rimirarsi nello specchio giovane e figo è incanutito precocemente.
Dopo aver sentito l’odore del sangue non sarà facile frenare la vitalità arrembante (e vendicativa) dei Cinque Stelle. Che hanno portato in Parlamento la generazione dei “senza” (senza lavoro, senza futuro, senza voce) per dare l’assalto al palazzo d’Inverno (a Pietrogrado, cento anni fa, non fu contro lo zar ma per abbattere il governo di liberali e moderati). Diversa invece la composizione sociale dei leghisti (un ceto medio di occupati e di lavoro autonomo in rivolta contro tasse e immigrati) ma identica la fame di rivalsa. Pur governando già Lombardia, Veneto e Liguria, le tre regioni più ricche del ricco Nord, e probabilmente tra poco anche la quarta: il Friuli. Li unisce la contestazione che sale dal basso e l’interesse a dare subito segnali di cambiamento. Per esempio, un vigoroso taglio ai costi della casta (vedi il discorso d’insediamento del presidente della Camera Roberto Fico) e altri provvedimenti simbolici (o demagogici) utili a tenere in caldo i rispettivi elettorati, nel caso si dovesse tornare presto alle urne.
Iniziative che il Parlamento può, nel frattempo, adottare nella sua piena sovranità. Volendo, a maggioranza Lega-M5S. Insomma, prove tecniche per il nuovo governo. Più che contrastare lo sfondamento degli homines novi la politica di ieri sembra impegnata a salvare il salvabile. All’ex caimano basta essere trattato “con rispetto” (Alessandro Sallusti) e non venire estromesso dal tavolo delle decisioni che contano. Mentre il Pd sceglie di stare fermo per non farsi dell’altro male. Auguri. Entrambi cullano un sogno. Che a un certo momento a far perdere i due vincitori sarà la brama di potere. Che alla fine li distruggerà a vicenda. Sembra un film. I popcorn chi li porta?

Corriere 27.3.17
l’intervista
Calenda: i populisti dicano se sfonderanno il deficit
di Federico Fubini


Ministro Carlo Calenda, lei prevede un governo basato sull’asse M5S-Lega?
«Plausibile. Se si guarda alla responsabilità finanziaria, le coalizioni sono chiare. La pensano in modo simile. Ma per evitare la procedura per deficit eccessivo, l’Italia in autunno deve fare una manovra per il 2019 con il deficit allo 0,9% del Pil».
In passato si è sempre rinegoziato. Perché ora no?
«Qualcosa si può strappare. Ma non il 3% che, tra l’altro, neanche basterebbe per Flat Tax, Reddito di cittadinanza e abolizione della Fornero. E se poi disinnescano anche gli aumenti Iva? Per i populisti il tempo dei talk show è finito. M5S e Lega sono stati votati anche per distribuire risorse, rovesciando il tavolo a Bruxelles. Ma attenzione, dopo Brexit l’Europa ha un atteggiamento diverso. Fossi la Lega o M5S, non mi aspetterei di ricavare qualcosa facendo sceneggiate a Bruxelles: chi non sta alle regole, si mette fuori dalla costruzione europea».
La calma sui mercati non sembra confermare i suoi timori.
«La situazione geopolitica è fragile. L’Ue ha fronti aperti con Stati Uniti, Russia e Turchia, con i Paesi di Visegrad e con l’Africa sulle migrazioni. Se l’Europa entra in tensione, un attacco sull’Italia può partire rapidamente. Ci sono segnali. Il grande fondo Blackrock per ora non compra più debito italiano».
Non è giusto che chi prende i voti possa governare senza pistole puntate?
«Basta che abbia chiari i rischi che ci fa correre. Chi governerà ha promesso misure che implicano una procedura europea contro l’Italia sui conti pubblici. Si vuole questo? O hanno cambiato idea? Gli italiani hanno diritto di saperlo».
Gli elettori hanno espresso una maggioranza contro le regole dell’euro.
«Credo che gli italiani continuino a essere europeisti. La crisi però è stata lunghissima. Nell’ultima legislatura tutti gli indicatori sono migliorati in modo sostanziale, ma le ferite erano profonde e non si sono ancora chiuse. La strada giusta è quella degli ultimi governi, le scorciatoie sono attraenti almeno finché non si inizia a percorrerle. Poi ci si accorge che sono anche pericolose».
Tutto qui come esame della sconfitta?
«No, certo. Dire che la crisi era risolta è stato un errore. La paura del futuro è giustificata e deve avere diritto di cittadinanza. Invece la politica tradizionale in Occidente da 25 anni non trae più le sue idee dalla realtà sociale: ha iniziato a prenderle da una teoria economica che disegnava un futuro migliore per tutti grazie alle tecnologie e alla globalizzazione. Come non ci fossero anche dei perdenti. Ma ci sono, e questa cecità ha finito per incrinare il principio di rappresentanza. Pensare il futuro va bene, ma la politica deve anche rappresentare i disagi del presente e governare le transizioni».
Il Pd ha lasciato la difesa dei deboli ai populisti?
«I governi del Pd hanno affrontato bene i problemi e la difesa dei deboli, dalle crisi aziendali al reddito di inclusione, lavorando su investimenti e crescita: da industria 4.0 al taglio delle tasse sulle imprese. Ma ha dato poca legittimità alle paure e rappresentato in modo semplicistico il futuro. Il populista che promette di occuparsi delle paure di oggi è più connesso a una società in cui la fiducia è fragile».
Lei è andato all’Ilva o all’Embraco e l’hanno accusata di essere uno statalista. Lo è?
«La cosa interessante è che i liberali hanno dimenticato che essere tali significa osservare la realtà, interagire con essa. Non sulla base di costruzioni ideologiche. Ilva può ricominciare a produrre acciaio in maniera efficiente, e così Alcoa. E Embraco è un’azienda in utile che viene spiazzata da una concorrenza sleale. Ignorare la realtà è una ragione della caduta delle élite liberal-democratiche. Come quando avevamo deciso che l’industria manifatturiera in Occidente non aveva futuro, lasciando campo alla concorrenza sleale della Cina».
Dunque ha ragione Donald Trump con i dazi?
«No, perché mira a chiudere il mercato e una guerra commerciale che colpirebbe il made in Italy. Altra cosa sono i dazi antidumping che abbiamo contribuito a varare in Europa. Detto questo, il rapporto transatlantico dobbiamo coltivarlo, è fondamentale. Qui il rischio di uno slittamento di M5S e Lega verso altri lidi mi spaventa».
Nel Pd ha trovato sensibilità su questi temi?
«Non saprei. Mi sono iscritto, ho fatto due riunioni in sezione e ho presenziato alla direzione. Fine».
Non l’hanno chiamata? Il neosegretario Martina non l’ha cercata?
«Non ultimamente. Ma il mio riferimento nel Pd è Paolo Gentiloni, con lui parlo spesso».
Deluso?
«No. Penso siano impegnati a tenere insieme il partito e questa è giustamente la loro priorità. Mi permetto di osservare che sarebbe meglio evitare la lotta fra caminetti e gigli. Invece bisogna far riavvicinare al Pd tante persone di qualità, facendo una grande campagna per le iscrizioni e coinvolgendo persone da fuori».
Però lei ha l’aria di parlare a un’area macroniana di centrosinistra, centro e centrodestra: gli italiani che esportano, studiano, vanno all’estero.
«Non sarebbe utile per il Pd? Ma oggi il tema è rappresentare anche quelli che perdono: i giovani nelle aree più arretrate del Paese, ad esempio. Dovremmo identificare aree di crisi sociale dove varare strumenti straordinari per i ragazzi: doposcuola per portarli alla lettura, lingue e borse di studio universitarie. Più utili del reddito di cittadinanza e meno cari».
Lei prepara la sua candidatura a leader del fronte moderato?
«Ho sempre fatto quello che ho detto. Mi dicevano che ero il candidato di Berlusconi e non l’ho mai incontrato. Che mi sarei candidato al Parlamento, malgrado io smentissi, e non l’ho fatto. Se deciderò di fare un’operazione politica, lo dirò con chiarezza. Di certo un contributo continuerò a darlo».
«L’approccio alle responsabilità finanziarie di M5S e Lega è simile — dice al Corriere Carlo Calenda —, con loro al governo si rischia una procedura Ue sui conti». E sul Pd: «Il partito rischia di deragliare, basta lotte tra caminetti e gigli. Ma da quando sono iscritto nessuno mi ha più cercato».
Ministro Carlo Calenda, lei prevede un governo basato sull’asse M5S-Lega?
«Plausibile. Se si guarda alla responsabilità finanziaria, le coalizioni sono chiare. La pensano in modo simile. Ma per evitare la procedura per deficit eccessivo, l’Italia in autunno deve fare una manovra per il 2019 con il deficit allo 0,9% del Pil».
In passato si è sempre rinegoziato. Perché ora no?
«Qualcosa si può strappare. Ma non il 3% che, tra l’altro, neanche basterebbe per Flat Tax, Reddito di cittadinanza e abolizione della Fornero. E se poi disinnescano anche gli aumenti Iva? Per i populisti il tempo dei talk show è finito. M5S e Lega sono stati votati anche per distribuire risorse, rovesciando il tavolo a Bruxelles. Ma attenzione, dopo Brexit l’Europa ha un atteggiamento diverso. Fossi la Lega o M5S, non mi aspetterei di ricavare qualcosa facendo sceneggiate a Bruxelles: chi non sta alle regole, si mette fuori dalla costruzione europea».
La calma sui mercati non sembra confermare i suoi timori.
«La situazione geopolitica è fragile. L’Ue ha fronti aperti con Stati Uniti, Russia e Turchia, con i Paesi di Visegrad e con l’Africa sulle migrazioni. Se l’Europa entra in tensione, un attacco sull’Italia può partire rapidamente. Ci sono segnali. Il grande fondo Blackrock per ora non compra più debito italiano».
Non è giusto che chi prende i voti possa governare senza pistole puntate?
«Basta che abbia chiari i rischi che ci fa correre. Chi governerà ha promesso misure che implicano una procedura europea contro l’Italia sui conti pubblici. Si vuole questo? O hanno cambiato idea? Gli italiani hanno diritto di saperlo».
Gli elettori hanno espresso una maggioranza contro le regole dell’euro.
«Credo che gli italiani continuino a essere europeisti. La crisi però è stata lunghissima. Nell’ultima legislatura tutti gli indicatori sono migliorati in modo sostanziale, ma le ferite erano profonde e non si sono ancora chiuse. La strada giusta è quella degli ultimi governi, le scorciatoie sono attraenti almeno finché non si inizia a percorrerle. Poi ci si accorge che sono anche pericolose».
Tutto qui come esame della sconfitta?
«No, certo. Dire che la crisi era risolta è stato un errore. La paura del futuro è giustificata e deve avere diritto di cittadinanza. Invece la politica tradizionale in Occidente da 25 anni non trae più le sue idee dalla realtà sociale: ha iniziato a prenderle da una teoria economica che disegnava un futuro migliore per tutti grazie alle tecnologie e alla globalizzazione. Come non ci fossero anche dei perdenti. Ma ci sono, e questa cecità ha finito per incrinare il principio di rappresentanza. Pensare il futuro va bene, ma la politica deve anche rappresentare i disagi del presente e governare le transizioni».
Il Pd ha lasciato la difesa dei deboli ai populisti?
«I governi del Pd hanno affrontato bene i problemi e la difesa dei deboli, dalle crisi aziendali al reddito di inclusione, lavorando su investimenti e crescita: da industria 4.0 al taglio delle tasse sulle imprese. Ma ha dato poca legittimità alle paure e rappresentato in modo semplicistico il futuro. Il populista che promette di occuparsi delle paure di oggi è più connesso a una società in cui la fiducia è fragile».
Lei è andato all’Ilva o all’Embraco e l’hanno accusata di essere uno statalista. Lo è?
«La cosa interessante è che i liberali hanno dimenticato che essere tali significa osservare la realtà, interagire con essa. Non sulla base di costruzioni ideologiche. Ilva può ricominciare a produrre acciaio in maniera efficiente, e così Alcoa. E Embraco è un’azienda in utile che viene spiazzata da una concorrenza sleale. Ignorare la realtà è una ragione della caduta delle élite liberal-democratiche. Come quando avevamo deciso che l’industria manifatturiera in Occidente non aveva futuro, lasciando campo alla concorrenza sleale della Cina».
Dunque ha ragione Donald Trump con i dazi?
«No, perché mira a chiudere il mercato e una guerra commerciale che colpirebbe il made in Italy. Altra cosa sono i dazi antidumping che abbiamo contribuito a varare in Europa. Detto questo, il rapporto transatlantico dobbiamo coltivarlo, è fondamentale. Qui il rischio di uno slittamento di M5S e Lega verso altri lidi mi spaventa».
Nel Pd ha trovato sensibilità su questi temi?
«Non saprei. Mi sono iscritto, ho fatto due riunioni in sezione e ho presenziato alla direzione. Fine».
Non l’hanno chiamata? Il neosegretario Martina non l’ha cercata?
«Non ultimamente. Ma il mio riferimento nel Pd è Paolo Gentiloni, con lui parlo spesso».
Deluso?
«No. Penso siano impegnati a tenere insieme il partito e questa è giustamente la loro priorità. Mi permetto di osservare che sarebbe meglio evitare la lotta fra caminetti e gigli. Invece bisogna far riavvicinare al Pd tante persone di qualità, facendo una grande campagna per le iscrizioni e coinvolgendo persone da fuori».
Però lei ha l’aria di parlare a un’area macroniana di centrosinistra, centro e centrodestra: gli italiani che esportano, studiano, vanno all’estero.
«Non sarebbe utile per il Pd? Ma oggi il tema è rappresentare anche quelli che perdono: i giovani nelle aree più arretrate del Paese, ad esempio. Dovremmo identificare aree di crisi sociale dove varare strumenti straordinari per i ragazzi: doposcuola per portarli alla lettura, lingue e borse di studio universitarie. Più utili del reddito di cittadinanza e meno cari».
Lei prepara la sua candidatura a leader del fronte moderato?
«Ho sempre fatto quello che ho detto. Mi dicevano che ero il candidato di Berlusconi e non l’ho mai incontrato. Che mi sarei candidato al Parlamento, malgrado io smentissi, e non l’ho fatto. Se deciderò di fare un’operazione politica, lo dirò con chiarezza. Di certo un contributo continuerò a darlo».

Il Fatto 27.3.18
L’antifascista scrittore Pahor a 104 anni si candida in Friuli
di Ferruccio Sansa


“Sì. Mi presento alle elezioni. A 104 anni”. La voce del grande scrittore sloveno-triestino Boris Pahor arriva energica come sempre. Allora è vero: sarà candidato alle Regionali del Friuli-Venezia Giulia. Forse un record mondiale: se fosse eletto, finirebbe il mandato a 109 anni. A Trieste deve esserci un elisir di lunga vita, perché qui era nato anche l’ultracentenario Gillo Dorfles. Ma non è soltanto l’anagrafe: Pahor, nato quando qui c’erano ancora gli Asburgo, è l’uomo che, per le sue idee antifasciste, fu deportato nei campi nazisti.
Pahor sopravvisse ai nazisti. E al ritorno scrisse libri straordinari come Necropoli. Con quei passaggi folgoranti: “Della morte e dell’amore si può parlare soltanto con se stessi o con la persona amata, con la quale formiamo una cosa sola. Né la morte, né l’amore tollerano la presenza di estranei”.
Ecco Pahor. Oggi corre per le elezioni regionali: “Mi candido per l’Unione Slovena del Friuli Venezia Giulia. Non ho potuto dire di no, mi sono sempre battuto per i diritti delle minoranze. È più di mezzo secolo che mi batto per questo. L’Italia riconosce dodici lingue, ma oggi sembra che manchino i soldi per pagare i professori che le insegnino ai bambini. Forse il mio nome sulla scheda serve a questo, a riportare un po’ di attenzione su chi non ha voce”. Ma se vincesse? Pahor sorride. “Se si desse il caso che… tanta gente scegliesse il mio nome sulla scheda… bè, lascerei subito il posto a chi viene dopo di me. Non voglio fare politica adesso”. Ma dalla sua villetta a Barcola, a Trieste, Pahor continua a guardare al mondo: “L’Europa sta schiacciando i catalani”. E l’Italia? “Mi viene in mente Carlo Cattaneo, gli Stati Uniti d’Italia. Forse quella sarebbe stata la soluzione giusta”.
Sempre Pahor che come ricetta per la vita parla di una colazione a base di caffelatte, pane, burro e marmellata. Che dice di non pensare mai alla vecchiaia e raccomanda “di coltivare sempre i propri interessi”.
Pahor che ha sofferto e vissuto tanto: “L’ultima donna a 85 anni”, ha raccontato poco tempo fa al Corriere della Sera. E l’ultima – chissà – candidatura a 104. E non ha nessuna intenzione di ritirarsi: “Ho qualche ora al giorno in cui lavoro. Se mi chiamate, se mi venite a prendere vengo dovunque a parlare… sono stato centinaia di volte in giro a parlare di quello che ho vissuto. Sono un missionario… della memoria”.

Corriere 27.3.18
Pahor, candidato a 104 anni «Comizi? Se lo chiedono...»
Lo scrittore sarà in lista alle Regionali del Friuli-Venezia Giulia
di Marisa Fumagalli


Ultracentenario, candidato alle regionali del Friuli-Venezia Giulia. Boris Pahor, scrittore triestino-sloveno, per la precisione è nato il 26 agosto 1913. Autore di romanzi e saggi (più volte proposto per il Nobel), il suo nome oggi figura nella lista Slovenska Skupnost (Unione Slovena), che appoggia il Partito democratico. «Credo che non verrò eletto — dice — ma, nel caso, passerò la mano. A parte la mia età avanzata, non sono un politico. Il mio posto è davanti alla macchina per scrivere. Ciò che mi preme è dare testimonianza a favore dell’identità slovena, calpestata dalla Storia. Realtà non abbastanza conosciuta in Italia. Sottaciuta perfino».
Come nasce la proposta di questa candidatura?
«Non è la prima volta. La quinta, se non vado errato. Mai eletto, comunque. Minoranza nella minoranza. Nel 2009, per esempio, mi presentai come candidato sloveno con la Sudtiroler Volkspartei . A ogni modo, tempo fa è venuto a casa mia Igor Gabrovec, attuale vicepresidente del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia, e mi ha chiesto di entrare in lista. Ovviamente, ho accettato».
Sarebbe disposto anche a partecipare a incontri pubblici? Un tempo si chiamavano comizi.
«Ribadisco, non sono un politico, ma se mi proponessero di andare a fare qualche conferenza in giro per la Regione, non direi di no. Certo, dovrei sentirmi in forma. In questo momento lo sono. D’altra parte, la mia attività di conferenziere è consolidata. Sapesse quante scuole ho girato. Almeno i giovani devono conoscere la Storia. Vera. Io gliela racconto».
Quali fatti, in particolare?
«Ascolti: il mio libro più famoso è Necropoli . Dentro, c’è l’atroce esperienza vissuta nei campi di concentramento nazisti. Ma la repressione, anche per noi sloveni, non fu solo di marca hitleriana. Cominciò con il Fascismo negli anni Venti del ’900. Nel 1926, verso di noi, le leggi di Mussolini diventarono particolarmente aggressive. Ma in Italia l’argomento, a quanto pare, è tabù. Nei miei ricordi, c’è una data cruciale, il 13 luglio 1920, quando, bambino, a Trieste vidi bruciare per opera dei fascisti il Narodni Dom, la Casa del popolo sloveno».
Dunque, lei si presenta con l’Unione Slovena, partito attivo dalle elezioni politiche del 1963, d’ispirazione cristiano-sociale. Ma Boris Pahor, non è credente.
«È vero, non sono credente, e lo sottolineo. Politicamente, oggi potrei definirmi un socialdemocratico. Le mie idee maturarono quando, lasciato il lager, finii in un sanatorio a Parigi in cura per la tubercolosi. A quell’epoca, lessi molti saggi sul Comunismo, ma fra il filocomunismo di Sartre e le idee di Camus, che dal comunismo si staccò, optai per le seconde. L’impegno civile di Camus, non prono alle ideologie, è un esempio. Chiarito ciò, appoggio volentieri lo Slovenska Skupnost per la sua linea di difesa delle minoranze. E mi sta bene appoggi il Pd».
Quindi è un elettore del Partito democratico.
«Sì. E meno male che, alle elezioni del 4 marzo, pur avendo il Pd perso voti, la mia amica Tatjana Rojc, scrittrice, traduttrice, è stata eletta in Senato come indipendente. La legge italiana dovrebbe comunque garantire che in Parlamento le minoranze siano rappresentate».

La Stampa 27.3.18
Aggressioni e tombe profanate
La Francia nell’incubo antisemitismo
In aumento gli episodi di intolleranza, picchiato bimbo con la kippah Dopo Charlie Hebdo sempre più ebrei hanno lasciato il Paese
di Paolo Levi


«L’antisemitismo è l’onta della Francia»: nell’ultimo incontro con i responsabili del Crif - l’organo rappresentativo degli ebrei di Francia - Emmanuel Macron ha promesso una risposta «implacabile» contro quello che bolla come il «flagello» della République. Con circa mezzo milione di persone, la Francia è la prima comunità ebraica dell’Europa occidentale e gli atti antisemiti, tra insulti, tombe profanate e aggressioni segnano la cronaca locale e nazionale. Appena pochi giorni fa, Aurélien Enthoven, figlio di Carla Bruni-Sarkozy e del suo ex compagno filosofo Raphael Enthoven, è stato vittima del più cieco livore dei social, tra insulti antisemiti, minacce di morte, frasi irripetibili contro la madre, solo perché aveva detto in un video che «le razze non esistono».
A fine gennaio suscitò indignazione l’episodio di un bimbo ebreo di 8 anni aggredito in strada a Sarcelles, mentre si recava a lezione con in testa una kippah. Dopo un 2015 segnato dai primi attentati jihadisti a Parigi e da un numero record di azioni e minacce antisemite, il 2016 ha registrato un netto ripiegamento (-58,5%), pur rimanendo a un livello preoccupante. Impietoso il quadro descritto dal presidente del Crif, Francis Kalifat, che si appella al governo affinché «ovunque in Francia venga ripristinata l’autorità dello Stato», con una «politica di tolleranza zero e sanzioni esemplari per contrastare l’antisemitismo del quotidiano che - avverte - prospera nel nostro Paese». Anche perché, questa la sua riflessione, «siamo schiacciati tra l’antisemitismo tradizionale prevalentemente di estrema destra e l’antisemitismo antisionista prevalentemente di estrema sinistra», a cui si aggiunge «l’antisemitismo musulmano molto radicato tra i giovani di 15-25 anni». Con l’aumento degli attentati contro cittadini e simboli ebraici, il crescente antisemitismo in banlieue e le stragi dell’Isis, negli ultimi anni circa 5000 ebrei ogni dodici mesi hanno deciso di lasciare la Francia ed emigrare in Israele, la cosiddetta «Aliyah». Dopo il massacro al supermercato kasher di Porte de Vincennes (gennaio 2015, due giorni dopo l’attacco alla redazione del settimanale Charlie Hebdo), fu lo stesso premier israeliano Bibi Netanyahu a tendere la mano agli ebrei sotto shock: «Il vostro avvenire è in Israele, tornate nella vostra patria».
Un appello a cui quell’anno aderirono in 7900, un record assoluto nella recente storia del Paese. L’affermazione scatenò una polemica con Manuel Valls allora primo ministro. «La Francia non sarebbe più la stessa se i nostri connazionali ebrei dovessero abbandonarla perché hanno paura», ha detto di recente Macron, che due settimane fa ha presentato un nuovo piano contro il razzismo e l’antisemitismo per il biennio 2018-2020. La sua principale sfidante alle presidenziali, Marine Le Pen, invitò gli ebrei a non indossare in pubblico la kippah perché a suo parere «potrebbe essere pericoloso». Aggiunse che per «sconfiggere l’estremismo islamico ci vuole uno sforzo congiunto che richiede sacrifici da parte di tutti».
Parole che suscitarono proteste al veleno. In questi ultimi anni, la leader del Front National ha cercato di fare il possibile per cancellare la pesante eredità del padre Jean-Marie Le Pen, più volte condannato per le sue uscite antisemite e razziste, come quando considerò le camere a gas un «dettaglio della storia». A gennaio, il grande editore Gallimard ha invece rinunciato al contestato progetto di ripubblicare gli scritti antisemiti di Louis-Ferdinand Céline, ritenendo che non ci sono ancora le condizioni per sviluppare «serenamente» il progetto.

Corriere 27.3.18
Il leader laburista britannico
Corbyn sotto accusa per «antisemitismo» Corteo a Westminster
di Luigi Ippolito


Londra «Quando è troppo è troppo»: la lettera aperta dei leader della comunità ebraica britannica era dura nei toni e nella sostanza. E accusava il leader laburista Jeremy Corbyn di tollerare pericolose manifestazioni di antisemitismo, nel suo partito e fuori. Alle parole sono seguiti i fatti: ieri pomeriggio si è tenuta, di fonte a Westminster, una dimostrazione di protesta delle organizzazioni ebraiche. Un fatto senza precedenti.
La pietra d’inciampo per Corbyn è stato un murale comparso nel 2012 nell’Est di Londra: raffigurava un gruppo di persone, facilmente identificabili come banchieri ebrei, intenti a giocare a monopoli sulle spalle della gente. All’epoca, quando era stato deciso di cancellare il disegno, Corbyn aveva manifestato solidarietà con l’autore.
Mal gliene incolse. Perché ora quel post su Facebook è diventato la prova, nelle parole delle lettera, della sua incapacità «di affrontare seriamente l’antisemitismo, a causa della sua fissazione ideologica con una visione del mondo che è istintivamente ostile alle comunità ebraiche».
Corbyn ha provato a correre ai ripari, dicendosi «sinceramente dispiaciuto» che l’antisemitismo «si sia affacciato nel partito laburista e che troppo spesso sia stato liquidato come un affare di poche mele marce». E ha chiesto un incontro urgente con i leader ebraici.
Ma ormai il danno sembra essere fatto. Anche perché già due anni fa il Labour era stato costretto a lanciare una inchiesta interna sull’antisemitismo, che si era conclusa con la sospensione dell’ex sindaco di Londra, Ken Livingstone e di un deputato.
Questo incidente si somma alla figuraccia di Corbyn sul caso della spia russa avvelenata: il leader laburista è stato molto cauto nell’accusare Mosca, a differenza del governo: e ha scontentato tanti anche nel suo partito. Che, intanto, si sta dividendo pericolosamente pure sulla Brexit. Forse che Jeremy stia perdendo il suo tocco magico?

Repubblica 27.3.18
Regno Unito
Corbyn si scusa per l’antisemitismo del suo Labour
di Enrico Franceschini


LONDRA, REGNO UNITO «Ne abbiamo abbastanza». È il segnale di protesta del Jewish Leadership Council, l’ente che riunisce le associazioni degli ebrei britannici, contro Jeremy Corbyn. Il leader del Labour si è scusato per un like messo da lui stesso «distrattamente» su Facebook a un murale discriminatorio, in cui un gruppo di banchieri ebrei giocano a Monopoli sulla schiena di schiavi neri. «Ci sono sacche di antisemitismo nel partito, le combatteremo», ammette. Ma a giudizio degli ebrei d’Inghilterra, e di una parte del Labour, non è sufficiente. «Con la sua inazione, Corbyn incoraggia l’antisemitismo della sinistra», afferma Jonathan Arkush, presidente del Jewish Council.
Non è la prima volta che il Labour e il suo leader ricevono accuse di questo genere. Corbyn risponde ribadendo che il partito è contro «ogni tipo di razzismo», ma sembra trascurare l’antisemitismo. «Jeremy deve fare di più», avvertono i deputati che lo criticano. La questione potrebbe far perdere voti al Labour. E contribuisce a incrinare l’immagine del suo capo, finora apparso a prova di qualsiasi polemica. Ultimamente è in difficoltà, per la decisione di non incolpare direttamente la Russia per l’attacco con il gas nervino a Salisbury e per l’estromissione dal governo ombra dell’opposizione di un ministro che ha chiesto un secondo referendum sulla Brexit. La macchia dell’antisemitismo gli getta addosso altro discredito, Non è detto che farà ripartire la rivolta nel partito. La base del Labour, composta da oltre mezzo milione di iscritti, lo appoggia. La dirigenza si è rinnovata con l’arrivo su poltrone chiave di uomini e donne fedelissimi del leader. Il gruppo parlamentare gli rimane ostile. E la candidatura a sindaco di Sheffield del moderato Dan Jarvis, ex ufficiale dei parà, segnala che la fronda passa dalle regioni, unendolo a Andy Burnham, sindaco di Manchester, e a Sadiq Khan, sindaco di Londra. Se Corbyn scivola, il prossimo leader potrebbe venire dalle città.

Corriere 27.3.18
La festa sacra delle lenzuola che illumina via del Quadraro
di Aurelio Picca


Quando la vidi non sapevo fosse Roma. Era domenica e nell’aria non volava un grammo di polvere. L’autobus ci lasciò sulla via Appia, a cinquanta metri da via del Quadraro. Sulla destra l’acquedotto proseguiva obliquo: un lungo treno di catrame, un pezzo di legno carbonizzato.
La luce del mattino timbrava ogni oggetto. Anche l’asfalto era una pista. Ma nessuna macchina o moto la percorreva. Il cielo, molto alto, sono sicuro che aveva abbandonato con gentilezza l’alba e andava a rincorrere il sole di giugno.
Con la tata, o serva, alla quale avevano ucciso a tradimento il marito di notte in un portone di San Lorenzo, percorrevo a piedi via del Quadraro per attraversare piazza San Giovanni Bosco e poi il viale con i palazzi — scatoloni di cartone imbandierati di bucato. Erano color pelliccia di volpe. Dalle finestre scendevano perfette decine di lenzuola bianche. Una festa di luce.
La basilica non l’avevo neppure notata. Dopo molti anni mi sarebbe apparsa come una centrale nucleare, con la cupola identica a quella di Borgo Sabotino: spettrale di notte, ambigua e ammonitrice di giorno.
Tenendo la mano alla tata venivo risucchiato dalla festa sacra delle lenzuola immobili su fondo begiolino. Roma era una visione. Roma è sempre una visione quando decide di fermarsi smemorata. Di assentarsi dal mondo. Di cancellare il suo stesso passato. Roma è la meraviglia quando emerge dal nulla. È un maschio-femmina nudo; enorme e invisibile; un remoto console che si apposta concentrato con il gladio in mano. Roma è una specie di fotogramma che cattura l’eternità.
Non girava auto né persona. Allora eccoci a casa della figlia di Nunziata, sposata minorenne a un bravo ragazzo che in seguito diverrà ufficiale della Forestale, e che molti anni dopo, scoprendo sua moglie adultera, si getterà dal settimo piano di un palazzo dell’Alberone dove si aggiravano, sempre su Appia Nuova, per l’esattezza al bar Cavallini dei Colli Albani, quelli del clan dei Marsigliesi con Bellicini, Bergamelli e Berenguer in testa.

Corriere 27.3.18
Una guida completa all’affascinante percorso di incrementodella conoscenza che ha visto protagonisti personaggi della statura di Pitagora, Apollonio, Keplero, Newton, Cantor. Una grande avventura dell’intelletto umano
La misteriosa potenza della matematica Un esercizio di libertà per capire l’universo
di Giulio Giorello


La matematica «è la chiave e insieme la porta di tutte le scienze». Così dichiara a metà del Duecento il francescano di Oxford Ruggero Bacone. Ecco, invece, una provocatoria descrizione di come lavorano i cultori di tale straordinaria disciplina: «Visitai la scuola di matematica, dove il maestro impartiva il suo insegnamento con un metodo che in Europa si stenterebbe perfino a immaginare. Teorema e dimostrazione venivano nitidamente scritti sopra un’ostia sottile (…). Lo studente era tenuto a ingoiarla a stomaco vuoto e, per tre giorni successivi, a mangiare soltanto pane e acqua. Via via che l’ostia era digerita, l’essenza (dell’inchiostro) saliva al cervello, portando seco il teorema». Siamo all’Accademia di Lagado, di cui riferiva Lemuel Gulliver nei suoi Viaggi (1726), la cui cronaca, «assai sconnessa e scorretta», si deve alla penna di Jonathan Swift. E pensare che, circa mezzo secolo prima, le dimostrazioni matematiche erano state considerate come «l’occhio della mente» nell’ Ethica di Baruch Spinoza!
Da millenni la potenza della matematica nel renderci comprensibile il mondo era stata discussa e valutata. Senza nemmeno risalire all’antico sapiente greco Pitagora (e a Platone), sarà qui sufficiente un esempio. Nel III secolo avanti Cristo Alessandria d’Egitto era il centro della cultura ellenistica. Qui insegnavano i maggiori matematici dell’antichità: tra questi Apollonio, nato intorno al 262 a Perga, in Asia Minore. In un’opera che fortunosamente è arrivata fino a noi, Le coniche , aveva studiato le curve che si ottengono tagliando un cono con un piano, e a una di esse — una curva chiusa dalla forma oblunga — aveva dato il nome di ellisse.
Diciassette secoli dopo, il tedesco Giovanni Keplero aveva sostenuto che le orbite dei pianeti del sistema solare non erano circonferenze, come aveva ritenuto ancora Copernico, ma ellissi! Ma quale causa poteva produrre orbite di quel tipo? Alcuni, come l’inglese Edmond Halley, immaginavano che si trattasse di una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza Sole-pianeta. Comunque, nell’estate del 1684 Halley si rivolse a Isaac Newton, che si era già posto il problema e l’aveva risolto. «Come hai fatto a sapere che si tratta di un’ellisse?» gli chiese. «L’ho calcolata» fu la risposta. E nei Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) Newton enunciò la legge della gravitazione universale. Quando nella notte di Natale del 1758 gli astronomi osservarono una cometa dalla traiettoria fortemente ellittica, il cui ritorno per quell’anno era stato previsto da Halley mediante calcoli basati sulla teoria newtoniana, divenne chiaro come una figura geometrica concepita da un matematico alessandrino sezionando un cono potesse descrivere un aspetto della natura, le orbite dei pianeti.
Giacomo Leopardi, nel suo Zibaldone , in data 29 giugno 1821, osservava: «Una verità isolata (…) poco giova (…) al progresso dell’intelletto. Cercandone la prova, se ne conoscono i rapporti e le ramificazioni (sommo scopo della filosofia). E perciò i geometri non si contentano di avere scoperta una proposizione, se non ne trovano la dimostrazione».
Eppure lo stesso Leopardi non esitava a lamentarsi di una «arida geometria», se questa era applicata in maniera pedante! Ma non va dimenticato che, giovanissimo, il poeta di Recanati si era appassionato alla storia dell’astronomia, facendo di Newton e di Keplero gli eroi della conoscenza, per non dire di Galileo Galilei. Questi nel Saggiatore (1623) aveva dichiarato che l’universo è un «grandissimo libro» scritto «in lingua matematica», i cui «caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche». La metafora era già presente in non pochi autori medioevali, ma mentre nel loro caso l’enfasi era posta sull’autore del volume, cioè Dio onnipotente, con Galileo l’accento è rivolto alla lingua con cui è scritto. Si noti che Galileo, per altro in contatto con Keplero, non parla minimamente di ellissi!
Un grandissimo fisico del Novecento, Paul Dirac, era solito notare che non c’è alcuna ragione che giustifichi l’impiego della matematica nello studio di come è fatto il mondo: sta di fatto che, però, ha successo. Un altro fisico teorico, Eugene Wigner — cognato di Dirac, che ne aveva sposato la sorella — in una conferenza affrontò L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali , per concludere che si tratta di «qualcosa che confina col mistero, e non ammette una spiegazione razionale». Secondo Dirac, invece, la matematizzazione della realtà riflette una proprietà intrinseca. «Il matematico partecipa a un gioco di cui inventa le regole, mentre il fisico partecipa a un gioco le cui regole sono fornite dalla Natura; ma con il passare del tempo diventa sempre più evidente che le regole che il matematico trova interessanti sono le stesse che la Natura ha scelto». E un altro eccezionale protagonista della fisica del Novecento, Niels Bohr, sottolineava come la nostra capacità di dare numeri e figure alle cose fosse l’aspetto davvero «umanistico» del lavoro del matematico!
Se il ricorso a nozioni matematiche non è semplicemente una sistematizzazione di conoscenze preesistenti, ma una via per la scoperta, il segreto sta forse in quella che il matematico ottocentesco Georg Cantor considerava «l’essenza della matematica: la sua libertà». Insofferente delle pressioni di qualsiasi potere che le sia estraneo, essa si è affrancata persino da vincoli rigidi con l’intuizione sensibile. Osservava un gigante della matematica del Novecento, André Weil, che questo non è però un processo che obbedisca a un disegno divino. Scriveva alla sorella Simone (febbraio 1940) che la matematica «non è altro che un’arte, una specie di scultura in un materiale estremamente duro e resistente (come certi porfidi usati a volte, credo, dagli scultori)». Ma quest’arte è una sfida a capire e trasformare la nostra presenza nel mondo.

Corriere 27.3.18
Caccia ai numeri primi Il Sacro Graal aritmetico

Resta indimostrata dal 1859 l’ipotesi Riemann
Una sfida intrigante per le menti più raffinate

di Elena Rinaldi

Oggetti misteriosi da secoli tengono col fiato sospeso generazioni di matematici. Sono i numeri primi, gli atomi che costituiscono la materia dell’aritmetica. La loro natura di enti indivisibili si svela fin dai primi anni di studio con la definizione di numero primo come naturale, diverso da uno, divisibile solo per l’unità e per se stesso, ma la distribuzione e il riconoscimento di questi oggetti restano ancora oggi un enigma irrisolto.
Migliaia di menti brillanti si sono affaccendate per conquistare il Sacro Graal della matematica, ossessionate dal traguardo più ambito da ogni ricercatore: dimostrare una congettura che potrebbe svelare i segreti dei numeri primi, l’ipotesi di Riemann. È un giovane matematico tedesco trentatreenne quello che nel 1859 scrive per l’Accademia di Berlino un articolo destinato a far storia: Sul numero dei primi minori di una certa grandezza . Il problema era già noto da secoli, ma la risposta che fornisce nell’articolo Bernhard Riemann è sorprendente: non solo descrive quanti primi esistono in un certo intervallo, ma anche come trovarli. L’idea che questi numeri si diradano man mano che si procede nella successione dei naturali potrebbe far pensare che siano in numero finito, ma un’elegante dimostrazione del III secolo a. C., contenuta negli Elementi di Euclide, dimostra invece che sono infiniti. Dalla consapevolezza che non possano essere elencati nella loro totalità, nasce l’esigenza di trovare una legge che permetta di costruirli o di riconoscerli. Numerosi algoritmi riescono a individuare nuovi primi, ma non esiste un metodo generale per ottenerli o per fattorizzare un numero qualsiasi. Il riconoscimento degli atomi che compongono le molecole matematiche garantisce la sicurezza di password e codici. Chi riuscirà a carpire i segreti di questi oggetti otterrà non solo la gloria matematica, ma soprattutto avrà un passepartout per tutte le porte online.
La conoscenza di questi enti deriva dalla comprensione della loro distribuzione. Quanti numeri primi ci sono tra 1 e 100? Quanti tra 100 e 1000? È come saltare su sassi in un fiume. Prima sono molto ravvicinati poi sempre più lontani fra loro. Poiché sono infiniti si troverà sempre un sasso sul quale poggiare il piede. Studiando una particolare funzione complessa, la zeta di Riemann, il matematico intuisce che «tutti gli zeri non banali della funzione zeta hanno parte reale ½». Seguendo la particolare direzione indicata da Riemann sarebbe dunque possibile trovare tutti i numeri primi.
«L’ipotesi di Riemann, come fu chiamata quella congettura, è rimasta un’ossessione per tutto il XX secolo e lo è ancora oggi, dal momento che ha resistito a qualunque tentativo di dimostrazione o confutazione», scrive John Derbyshire nella prefazione al libro L’ossessione dei numeri primi , con il quale si apre la collana del «Corriere». Come in un avvincente romanzo giallo si alternano indizi e personaggi. Nei capitoli dispari l’autore delinea con chiarezza le parti matematiche che occorrono per comprendere il caso e nei pari descrive i principali protagonisti coinvolti nella storia. Le vicende percorrono scenari inaspettati e affascinanti, come la meccanica quantistica e la musica, curiosità divertenti come una formica che cammina su un righello, apparenti contraddizioni e formule definite «chiavi d’oro», in grado di aprire importanti porte.
L’ossessione dei numeri primi è un mistero da un milione di dollari, come dimostra il premio istituito dalla fondazione del Clay Mathematics Institute e dall’American Institute of Mathematics per chi dimostrerà o confuterà l’ipotesi. Un’impresa che si è rivelata sempre più ardua negli anni, ma i cui fallimenti hanno portato a nuovi progressi matematici. Un esempio di come l’evoluzione della conoscenza scientifica e del pensiero logico proceda in una continuità di intenti e in un’innovazione di metodi, un testimone trasmesso dalle menti del passato a quelle del futuro.
Perciò secondo John Derbyshire «questo libro appartiene più propriamente a Bernhard Riemann, il quale nella sua breve vita segnata da molte sventure donò all’umanità tanto valore eterno, compreso un problema che ancora centocinquant’anni dopo continua a tormentarci».