Il Fatto 26.3.18
Milano 1848, la rivoluzione degli uguali che fece l’Italia
di Alfio Caruso
Dal
18 al 22 marzo 1848 nasce a Milano l’Italia che verrà. È il frutto
dell’unica rivolta, in cui popolo, borghesia e nobiltà combattono
assieme, benché sia il primo a pagare il prezzo più alto. Naturalmente
tra invidie, compromessi, voltafaccia. Eppure quel sentimento di Nazione
alla fine si rivela più forte di qualsiasi interesse di bottega, di
qualsiasi egoismo personale, di qualsiasi gelosia di classe sociale.
Quelle che sono passate alla Storia come le 5 giornate rappresentano il
massimo esempio di rivoluzione nel segno dell’egalitarismo: non ci sono
capi preordinati, ognuno conquista i galloni sul campo, ogni quartiere,
ogni barricata decide al proprio interno qual è la risoluzione migliore
da prendere. L’unico paragone possibile è con le 4 giornate di Napoli.
Il tutto sintetizzato nel vecchio austero dalla barba bianca, rimasto
senza nome, che guida per 5 giorni la barricata di Porta Nuova.
La
ribellione viene preparata per un anno nell’abitazione del giovane
economista Cesare Correnti in via Spiga. È la sede del Comitato Segreto,
sul quale da centosettant’anni ci si dibatte e che oggi tanti indizi
inducono a ritenere il motore della rivolta. L’hanno intuito il capo
della polizia asburgica, il barone trentino Carlo Giusto Torresani, e il
suo malefico braccio destro, Luigi Bolza. Per impedire la rivolta
basterebbe l’irruzione, che però mai viene ordinata. Che cosa avviene in
quelle stanze lo racconta un altro dei giovanissimi protagonisti,
Giovani Visconti Venosta, fratello minore di Emilio, nel giudizio di
molti il miglior ministro degli Esteri italiano: “Tra gli amici più
intimi ce n’erano di ogni rango. C’erano dei preti come il Lega, il
Mongeri, il Vignait; c’erano dei giovani del patriziato come il Porro,
Cesare Giulini, Guerrieri, Giovanni e Carlo D’Adda, Giulio Carcano;
c’erano degli artisti, dei giovani ingegneri, medici, professionisti e
anche dei buontemponi, compagni di università, cacciatori e bevitori, ma
pieni di buona volontà, che venivano a prendere gli ordini e
s’incaricavano del contrabbando patriottico dei libri e dei giornali e,
alla fine, dei fucili”.
In quella Milano rigurgitante di rabbia
antiaustriaca e di passione per un’Italia ancora indistinta e dai
contorni alquanto confusi altri luoghi assurgono a simbolo del dilagante
patriottismo. Ecco le sale della Società dell’Unione, sopra le vetrine
del caffè Cova, dove agisce una sorta di associazione clandestina, di
cui l’intera città parla e favoleggia, il Club dei lions. Così vengono
indicati i giovani cospiratori aristocratici, che vi si radunano nel
cuore della notte illuminata dalle prime lampade a gas.
Il ritrovo
più ambito è il salotto della contessa Clara Maffei nella centralissima
corsia dei Giardini (l’attuale via Manzoni). C’è la ressa per essere
accolti, per sedere sui divani in mezzo a tanti giovani ansiosi di
emergere, magari nella sera in cui vi fanno capolino Verdi e Manzoni. Lì
s’incontrano e si legano per la vita e per la morte i fratelli Dandolo,
Morosini, Correnti, D’Adda, Luciano Manara, incaricato da Verdi di
aggiornarlo per lettera sugli accadimenti cittadini, mentre egli è in
tournèe con le sue acclamate opere. E il cappello adoperato nell’Ernani
diventa un simbolo dell’agognata italianità assieme al bianco e al
giallo indicante i colori dello stato pontificio, cioè Pio IX al culmine
dell’immeritata popolarità.
Il 2 gennaio lo sciopero del fumo
lanciato dal professore di fisica Giovanni Cantoni, di famiglia ebraica e
di simpatie mazziniane, ottiene un strepitoso successo, malgrado le
ricorrenti provocazioni dei gendarmi di Torresani e dei militari di
Radetzky. A esso si associa l’astensione dal gioco del lotto.
Per
Vienna rappresentano un segnale allarmante: dal monopolio del tabacco
l’erario imperiale ricava 4.300.000 lire (oltre 15 milioni di euro),
dall’altro circa 750 mila lire (2 milioni e mezzo di euro). Il 6 gennaio
platea e palchi deserti alla Scala, che inaugura l’anno con la Norma di
Bellini: nove biglietti venduti, soltanto quattro palchi occupati, in
tutto trenta spettatori, per la gran parte funzionari e ufficiali
austriaci. Che la situazione precipiti lo dimostra la fuga delle regine
del pettegolezzo: la prima ballerina viennese Fanny Elssler, cui un
ammiratore compra il pitale per una cifra astronomica, la contessa russa
Giulia Samoylova, ex favorita dello zar, i cui capricci hanno segnato
l’epoca e dettato le mode.
E quando il Comitato Segreto decide di
lanciare la sfida, malgrado la penuria di fucili e munizioni, Milano
risponde con commovente dedizione. Incomincia da subito l’epopea delle
barricate, dei mobili tirati dai balconi, dei professori che guidano
l’assalto dei propri studenti, delle alabarde della Scala trasformate in
armi. Il nemico spietato ha le sembianze da Babbo Natale del
feldmaresciallo Radetzky, comprensivo finché niente e nessuno disturba
il suo ordine, ma pronto a spianare ogni quartiere di fronte alla
ribellione. Sulle barricate si esalta la chiacchieratissima relazione
tra Manara e la bella delle belle, Fanny Bonacina, entrambi sposatissimi
e con figli. Purtroppo pesano da subito le indecisioni del “re
tentenna” Carlo Alberto preoccupato per le spinte un po’ autonomiste, un
po’ repubblicane di Milano. Il suo mancato intervento obbliga i
milanesi a liberarsi da sola. La solerzia di Carlo Cattaneo,
l’intelligenza più lucida e più critica delle cinque Giornate, ci
consente di sapere che fra le 335 vittime 160 erano artigiani e operai,
25 domestici, 14 contadini, 29 commercianti, 16 borghesi. Più quattro
bambine. E 38 donne, quasi tutte operaie.
La ritirata austriaca dà
la spinta alle speranze ai pochi interessati alle sorti della Penisola,
annuncia per la prima volta che l’Italia può esistere. Poi verranno le
delusioni della prima guerra d’indipendenza, delle promesse tradite di
Carlo Alberto, del ritorno degli imperiali, della caduta della
repubblica romana. Alla fine, come scriverà Manara alla Bonacina,
“dobbiamo morire per chiudere con serietà il Quarantotto”. Lui e gli
altri andranno a immolarsi a Roma l’anno seguente.