Corriere 26.3.18
Il diritto-dovere di celebrare l’eroismo dei soldati contadiniIl brano Un estratto del capitolo inedito. Perché è uno sbaglio svalutare il successo del 1918
di Aldo Cazzullo
Per il centenario di Caporetto sono usciti libri a decine, alcuni molto belli. Sul Piave e sul Grappa neanche uno.
La sconfitta ci ispira. Ci raccontiamo di aver perso anche le poche guerre che abbiamo vinto.
Oppure
ci rifugiamo nella retorica, come il mito della «Razza Piave», caro al
secessionismo veneto. Ma sul Piave accanto ai veneti morirono lombardi e
lucani, napoletani e genovesi. La brigata Aosta sul Grappa era composta
da siciliani: i valdostani erano quasi tutti morti.
Sul «Corriere
della Sera» ho proposto che il 4 novembre 2018, centesimo anniversario
della vittoria dei nostri nonni nella Grande Guerra, torni a essere
festa nazionale, anche se cade di domenica. Un po’ come il 17 marzo
2011, centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Ho ricevuto
tante lettere di consenso, ma anche messaggi che mi hanno fatto male.
Molti
italiani sono convinti che non ci sia stata nessuna vittoria, anzi
nessuna battaglia. Si è diffusa in rete la leggenda secondo cui il 30
ottobre 1918 l’esercito non avrebbe avuto neppure un morto: Vittorio
Veneto non è mai esistita. In realtà la sola IV Armata, nei durissimi
combattimenti infuriati sul Grappa negli ultimi giorni del mese, perse
824 ufficiali e 23.600 soldati, dei quali 5.200 morti, 18.500 feriti e
poche centinaia di dispersi; un terzo degli effettivi delle fanterie,
una proporzione mai raggiunta neppure nelle giornate peggiori sul Carso.
Bisognava attaccare, recuperare parte del terreno perduto, entrare a
Trento e a Trieste, avanzare il più possibile prima dell’armistizio. Gli
austriaci, che si erano dissanguati nell’ultima offensiva passata alla
storia come la battaglia del solstizio (15-25 giugno 1918), a ottobre
resistettero più del previsto. Poi cedettero di schianto, cominciarono
la ritirata, furono inseguiti, a volte accerchiati; come venne
raccontato con parole fin troppo enfatiche nel bollettino della vittoria
affisso su tutti i municipi d’Italia.
Altri lettori fanno notare
che la guerra si concluse sul territorio italiano, che non abbiamo
conquistato nulla. Una motivazione priva di senso, in particolare per
una guerra di posizione come il primo conflitto mondiale. Se è per
questo, i tedeschi combatterono per oltre quattro anni in territorio
francese; ma alla fine furono sconfitti. Neppure il terribile computo
delle vittime aiuta a capire. I vincitori ebbero più morti dei vinti; ma
la guerra industriale fu decisa dall’intervento degli americani. Una
lezione che due giovani sottufficiali, Adolf Hitler e Benito Mussolini,
non appresero; altrimenti non avrebbero scatenato, e perduto, la Seconda
guerra mondiale.
Altri ancora sostengono che non ci sia nulla da
festeggiare. E questo un po’ lo capisco. La Grande guerra è stata
innanzitutto un’immane carneficina. Era meglio non farla. L’Italia
avrebbe dovuto restarne fuori. Invece fu decisa con un colpo di Stato
che esautorò il Parlamento, e fu condotta in modo sbagliato quando non
criminale.
Non è una follia che l’Italia sia intervenuta: nel
maggio 1915 tutte le grandi e medie potenze europee, dalla Russia
all’impero ottomano, dalla Gran Bretagna alla Germania, dall’impero
austroungarico alla Francia, sino ai piccoli eserciti balcanici stavano
combattendo; e l’Austria non avrebbe mai ceduto Trieste in cambio della
neutralità. È una follia però che l’Italia sia entrata in guerra senza
tenere in nessun conto le lezioni dei primi mesi del conflitto. È una
follia che i generali abbiano imposto per anni la tattica degli assalti
frontali spesso non supportati dall’artiglieria, che si siano eseguite
decimazioni punendo con la morte fanti che non erano colpevoli di nulla,
che i prigionieri fossero considerati alla stregua di disertori, che si
sia impedito ai loro familiari di inviare pacchi di viveri e
medicinali.
Il tradimento delle classi dirigenti però non toglie
nulla al sacrificio dei nostri nonni. Anzi, lo rende se possibile ancora
più valoroso. Con il 1918, dopo Caporetto, la guerra cambia segno. Si
tratta di difendere la patria, di badare alla terra, di proteggere la
famiglia, di evitare che pure alle altre donne italiane venisse fatto
quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave.
Fu allora che i nostri nonni, fanti contadini, salvarono il Paese, e con
il Paese noi, loro discendenti.
L’Italia nacque allora. Nelle
trincee. Sul Grappa e sul Piave. Eravamo un popolo giovane. Non ci
capivamo neppure tra di noi: ognuno parlava il suo dialetto. Potevamo
essere spazzati via; dimostrammo di essere un popolo, una nazione.
Questo sì lo possiamo festeggiare, lo dobbiamo celebrare, abbiamo il
dovere di ricordare.