lunedì 26 marzo 2018

Corriere 26.3.18
E i fanti contadini fecero l’Italia
di Aldo Cazzullo e Gian Antonio Stella


«Dopo Caporetto, la guerra cambia segno. Si tratta di difendere la patria, di badare alla terra, di proteggere la famiglia». A quei mesi di tenuta, riscatto e trionfo, «capolavoro di una generazione», Aldo Cazzullo dedica la nuova edizione de La guerra dei nostri nonni : «A quei fanti contadini che salvarono il Paese, e con il Paese noi». alle pagine 32 e 33

Grande guerra La nuova edizione illustrata del saggio edito da Mondadori
I fanti fecero l’Italia Come si arrivò a Vittorio Veneto
Valore e sacrificio narrati da Aldo Cazzullo
di Gian Antonio Stella
«P onte de Priula l’è un Piave streto/ i ferma chi vién da Caporeto/ Ponte de Priula l’è un Piave streto/ i copa chi che no ga ‘l moscheto./ Ponte de Priula l’è un Piave nero/ tuta la grava l’è un cimitero». Ed era davvero un cimitero ai primi di novembre del 1917, come racconta questa canzone riscoperta dal poeta e cantautore Massimo Bubola, il greto del nostro fiume «sacro alla patria».
Dopo lo sfondamento degli austriaci a Caporetto due milioni e mezzo di persone, soldati e civili, inseguitori e profughi in fuga, si rovesciarono con carri e masserizie verso i ponti sul Piave. Come scrive Sergio Tazzer in Piave e dintorni. 1917-1918: fanti, Jäger, alpini, Honvéd e altri poveracci , l’ultimo reparto a passare il fiume a Ponte della Priula fu un battaglione del 152º reggimento della brigata Sassari agli ordini del capitano Giuseppe Musinu. Che avrebbe poi ricordato: «Mi dissero che stavano per far saltare il ponte: temevano che gli austriaci riuscissero a passare il Piave. Mandai avanti un sottufficiale per dire di aspettare. Arrivammo appena in tempo. Ero in retroguardia, per proteggere la ritirata. Quando l’ultimo dei nostri fu dall’altra parte del Piave, passammo anche noi. E il ponte fu fatto saltare».
Bisognava reggere l’urto. A tutti i costi. Le sentinelle nei settori affidati alla Sassari, racconta ancora Tazzer, «avevano l’ordine di sparare contro chiunque al “chi va là?” non rispondesse in sardo: fra gli imperial-regi non erano pochi quelli che parlavano italiano. E così i sassarini si cautelavano: “Se sese italianu, faedda in sardu!”, se sei italiano, parla in sardo».
Ed è ai mesi della tenuta, del riscatto e del trionfo cantato dai giornalini di propaganda («Grida, bandiere, evviva, applausi, fiori!»), che Aldo Cazzullo dedica la nuova edizione de La guerra dei nostri nonni (Mondadori). Edizione illustrata con una ricca raccolta di foto. Le fosse comuni. Il corpo di un soldatino ucciso per aver obbedito all’ordine insensato di dar l’assalto a una trincea protetta da matasse di filo spinato: «I comandi sembravano impazziti. “Avanti!” Non si può! “Che importa? Avanti lo stesso”. Ma ci sono i reticolati intatti! “Che ragione! I reticolati si sfondano coi petti o coi denti o con le vanghette. Avanti!”». Il «maggiore con il volto scavato dalle intemperie e lo sguardo puntato verso orizzonti lontani. Per tutto l’anno viveva con le sue mitragliatrici, e da entrambi i lati della sua tana, sugli alpeggi d’alta quota, si scorgevano a decine i neri fori delle granate, che il nemico aveva esploso per cercare di snidarlo».
E ancora il corpo di un civile fucilato come spia e riverso su una seggiola come una marionetta. I barellieri impegnati nel recupero dei feriti e dei morti. I ricoverati in un ospedale militare e affidati a materne suorine. La distribuzione del rancio e il supplementare supplizio quotidiano dell’igiene: «Soldati intenti alla caccia ai pidocchi». E il cappellano militare che impartisce la benedizione ai fanti cristiani nostri perché accoppino i fanti cristiani altrui, magari sotto l’incitamento del «Papa del Piave» Pio X che, nato a venti chilometri dal fiume invalicabile, sul giornale «La tradotta» appare alla Madonna e la mette in guardia dai tedeschi: «I roba tuto, i xé bestie, i bastona/ fin ne le case ‘sti sporchi i ne va/ e quando i branca una povera dona/ se la xé bela… Signore pietà!»
Brutta bestia, la guerra. Sempre. Ma peggio ancora quando l’hai in casa. Nella valletta nascosta dove andavi a funghi. Nel cortile dietro il ciliegio. Accanto ai covoni di fieno. Allora no, il Piave non è più solo un luogo geografico o la retorica di Gabriele d’Annunzio: «Vi sono forse oggi altre acque in tutta la patria nostra? Ditemelo. V’è oggi una sete d’anima italiana che si possa estinguere altrove? Ditemelo».
«Con il 1918, dopo Caporetto, la guerra cambia segno», scrive Cazzullo nella integrazione del libro che deve la sua fortuna editoriale proprio all’arte di tenere insieme gli eventi epocali del conflitto e le storie dei nostri nonni, «Si tratta di difendere la patria, di badare alla terra, di proteggere la famiglia, di evitare che pure alle altre donne italiane venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave. Fu allora che i nostri nonni, fanti contadini, salvarono il Paese, e con il Paese noi, loro discendenti».
Non fu un miracolo dovuto alla buona sorte, quella vittoria. Fu molto di più: «Per la prima e ultima volta nella storia unitaria, l’intera nazione si mobilitò: soldati, operai, donne, che presero il posto degli uomini nelle fabbriche e nelle case. Fu la vittoria dei nostri nonni e delle nostre nonne. Il capolavoro di una generazione, di cui oggi possiamo andare orgogliosi».
Ad aiutarci in questo esercizio di memoria, fino a non molti anni fa, c’erano sparsi nelle campagne, sulle montagne e nelle case del Veneto (che come scrive Edoardo Pittalis nel suo libro La guerra di Giovanni contò sessantaduemila morti, uno ogni dieci caduti) mille oggetti che dopo la mattanza erano stati recuperati dai contadini e dai fabbri e restituiti a nuove funzioni quotidiane.
Un antiquario, Egidio Guidolin, ci fece tre anni fa una mostra: La vita dopo la guerra . «È così: dopo ogni guerra, anche la più menzognera e spaventosa, torna la pace. La voglia di ricominciare. La vita», scrisse Ermanno Olmi, «I bossoli d’artiglieria lavorati dai battirame per farne dei portafiori da mettere nel capitello con la madonnina o sopra il camino in cucina. L’elmetto rovesciato che con la saldatura di un tubo diventa un imbuto. Il piatto di una gavetta bucherellata per farne una grattugia... Il pezzo più bello, però, è quell’elmetto appeso col filo di ferro a un picchetto sul muro e trasformato in un vaso di fiori. C’è un buco, in quell’elmetto. Forse di una pallottola o della scheggia di una granata che ferì o uccise il soldatino che lo indossava. E quel buco, attraverso il quale passò forse la morte, consente oggi all’acqua in eccesso di andarsene. E aiuta a vivere quelle bellissime stelle alpine. È vita. Arte. Poesia».