lunedì 26 marzo 2018

Il Fatto 26.3.18
Gran Bretagna, l’eccellenza universitaria va alla rivolta
È in corso il più grande sciopero della storia dell’accademia: parte dalla previdenza ma abbraccia l’intero sistema dell’ateneo-corporation, fatto di manager, speculazione edilizia e impiegati della cultura sempre meno pagati e liberi
di Mirko Canevaro


L’accademia britannica è malata. Non si direbbe: le classifiche internazionali mostrano un sistema ricco e dinamico. Ora il sistema è bloccato da scioperi a tappeto – i primi quattordici giorni si sono appena conclusi, e si parla di scioperi ulteriori nel periodo degli esami. Classi vuote, corsi sospesi, lauree a rischio, occupazioni, a migliaia nei picchetti, sotto neve e pioggia.
L’occasione è un attacco ferale alle pensioni amministrate dallo USS, il fondo che copre i docenti (e parte degli amministrativi) delle principali università – il più grande del Regno Unito, con un capitale da sessanta miliardi. L’attacco dura da anni, con una prima riduzione del 13% del totale dei compensi percepiti nel 2011, e ancora un aumento dei contributi richiesti a fronte di una riduzione ulteriore delle pensioni nel 2015. Entrambe le riforme furono puntellate da scioperi (limitati), chiusi da accordi negoziati dalla UCU (il sindacato) spacciati per vittorie, in realtà rese incondizionate. Lo stesso meccanismo negoziale si replica ad anni alterni nelle dispute salariali: anni di aumenti inferiori all’inflazione hanno significato un calo nei salari reali, dal 2009, del 16%.
Ma il contesto non è una crisi del settore, anzi. Le università sono ricche, per studenti paganti (oltre £ 9.000 l’anno), per fondi di ricerca, per donazioni. Il fatturato del settore è intorno ai 28 miliardi di sterline, con profitti intorno al 7% (senza contare l’indotto).
Ci sono avanzi di bilancio imbarazzanti, che si riversano però nella marketizzazione e finanziarizzazione del settore. Nella remunerazione di una classe manageriale di CEO più che rettori, con il record di Glynis Breakwell (Bath) di £ 468.000 l’anno. E in progetti edilizi faraonici a loro maggior gloria – università come capitalisti fondiari. Gli studenti pagano sempre di più, i docenti guadagnano sempre meno e un mondo parassitario meta-universitario, tra finanza, speculazione, edilizia, management e burocrazia ingrassa.
Ora l’ultimo attacco: il fondo, dice una valutazione, ha un deficit insostenibile. Soluzione: eliminare ogni garanzia pensionistica. I membri contribuiscono, ma la pensione è determinata dal mercato – dal ritorno sugli investimenti dello USS. Il risultato: tagli alle pensioni, in media, di £10.000 l’anno. Ma il deficit è fittizio – le entrate sono in realtà ben superiori alle uscite.
È una proiezione basata su scenari futuri apocalittici di crisi estrema del settore, di collasso dei ritorni sugli investimenti, applicando tassi di sconto bassissimi. Tutto questo è emerso non dagli oscuri comunicati dello USS e delle università, dal gergo finanziario che nasconde piuttosto che spiegare. È emerso perché con le competenze di decine di migliaia di accademici ci si riesce, a penetrare l’arcano.
Operazioni analoghe – i diritti dei lavoratori abbattuti sulla base di calcoli fantasiosi spacciati per fatti, di pretesti su cui costruire la narrativa ideologica del “non c’è alternativa” – avvengono quotidianamente, in genere alle spese di categorie più deboli, sprovviste degli strumenti per penetrare l’inganno.
E così è iniziato il più grande sciopero nella storia dell’accademia britannica, che parte dalle pensioni ma contesta l’intero sistema, la nuova università-corporation di manager e speculatori, consumatori paganti e impiegati della scienza sempre meno remunerati, liberi e autonomi. Migliaia di docenti nei picchetti, migliaia di nuovi iscritti al sindacato e, fianco a fianco, migliaia di studenti che hanno compreso la portata della battaglia. Dall’altra parte delle barricate l’establishment accademico e finanziario (con un governo ostile che sta a guardare) si è dapprima rifiutato di trattare. Poi, sotto pressione anche da alcuni rettori illuminati, preoccupati per la competitività di un settore le cui le condizioni lavorative sono sempre meno attraenti, si è tornati al tavolo dei negoziati. Dopo due settimane di scioperi la leadership sindacale è giunta a un accordo derisorio, sulla falsariga di quelli degli anni passati, spacciato per una vittoria e già annunciato dai TG come finale e risolutivo.
Ma questa volta è diverso – il 12 marzo, all’annuncio dell’accordo, è scoppiata una tempesta sui social media e nei picchetti. Il giorno dopo i rappresentanti delle sezioni, all’unanimità, in rappresentanza di assemblee di base anch’esse unanimi o quasi, hanno chiesto di rifiutare l’accordo. Contro le sue aspettative, e malgrado gli annunci dei TG e la sicumera delle élite, la leadership sindacale ha dovuto cedere alla pressione: l’accordo è rifiutato e la battaglia continua. Si è entrati in territori inesplorati – un’azione sindacale di maniera, un balletto di scioperi e negoziati al ribasso, si è autonomamente radicalizzata, dal basso, prendendo in contropiede l’establishment accademico, finanziario e sindacale.
È di venerdì la notizia di una nuova proposta: una nuova valutazione del fondo, a sconfessare le proiezioni precedenti, che coinvolga sindacati e accademici, e la riforma congelata almeno fino ad Aprile 2019. Una vittoria inattesa, per quanto imperfetta e provvisoria. La vicenda è d’interesse non solo per gli accademici britannici. È d’interesse per tutti. Può davvero un’azione radicale mettere in discussione lo status quo? Si può effettivamente cambiare direzione di marcia? Davvero non c’è alternativa?