venerdì 23 marzo 2018

Il Fatto 23.3.18
Foxtrot, “arance e soldati morti”: specchio di Israele
di Samuel Maoz


Film sull’errore, sulla deroga, sull’inevitabile senso di colpa di matrice ebraica. Ma anche sui giochi di un destino beffardo che “danza” a quattro tempi riportandoti sempre al punto di partenza, come la circolare follia dell’homo hominis lupo. E chi è causa del suo mal pianga se stesso. Foxtrot è tutto questo, ma soprattutto è l’opera che maggiormente ha diviso l’opinione pubblica israeliana dalla sua uscita nazionale avvenuta a settembre, dopo aver vinto il Gran Premio della Giuria alla Mostra veneziana.
Il regista Samuel Maoz da Tel Aviv un po’ ci è abituato. Gli era accaduto con Lebanon, il suo esordio del 2009 che mostrava il mondo dal periscopio di un tank e che si era guadagnato a sorpresa il Leone d’oro sempre al Lido. Ma con Foxtrot – opera seconda arrivata ben 8 anni dopo – si è indubbiamente spinto oltre. Al centro del racconto è il destino di una famiglia che cambia repentinamente alla notizia improvvisa della morte del figlio ventenne, militare in servizio nel cuore del deserto. Una storia composta da colpi di scena (da non rivelare…) che attraversa tre generazioni e si concentra sulla nemesi “punitiva” che passa di padre in figlio.
Al controverso cineasta ex mitragliere dell’esercito non va proprio giù di vedere il proprio Paese in perenne balia dell’imprevedibilità dettata dal casus belli. Il suo cinema, rarefatto nel tempo ma pungente come un diamante, nasce per raccontare la bulimia militarizzata d’Israele, questa incapacità di concepire l’universo senza l’(ab)uso delle armi. Va da sé che a furia di sparare incappi nell’errore fatale, specie se sei poco più che ventenne e sei al presidio resiliente di un avamposto nel nulla ove i “passanti” più frequenti sono i dromedari. A insabbiare il tuo errore, poi, ci pensano i generali perché giammai l’onore dell’esercito sia infangato. Meglio infangare la coscienza. Per il 56enne regista che imbracciò il suo primo Super8 a 13 anni tutto questo è inaccettabile: ma sbeffeggiare l’esercito e attirarsi mezza nazione contro era l’inevitabile effetto. Il suo Foxtrot ha messo Israele sottosopra, dal macromondo dei media alle intimità famigliari: “Io e mio marito abbiamo litigato dopo averlo visto” rivela una giovane cineasta pacifista israeliana. Ma ben venga il dibattito laddove in gioco c’è la riformulazione morale di uno status quo. Catartico su ferite profonde e perennemente sanguinanti, Foxtrot è però anche e soprattutto una magnifica opera cinematografica. Vertiginoso di inquadrature in coerenza al contenuto, capace di sorprendere per fulminee variazioni ritmiche e stilistiche, avvalorato da un cast superlativo.
E come diversi testi imponenti, questa seconda fatica di Maoz ha spaccato anche la critica: direttamente dal capolavoro al film furbo e pretestuoso, senza passare per mezze misure. D’altra parte Foxtrot è lo specchio emblematico di un Paese fatto di estremismi e contraddizioni, quell’Israele che lo stesso regista sintetizza in un’immagine assoluta quanto ironica, “arance e soldati morti”.