Il Fatto 23.3.18
Caso Facebook, Il nuovo segreto di Pulcinella
di Roberto Faenza
Scoprono
gli scandali quando i buoi sono scappati dalla stalla. Le notizie che
in queste ore hanno investito Facebook e gli altri social hanno aperto
una voragine. Le anime candide la scoprono solo ora. Non sapevano di
traffici ancora peggiori? I guai sono iniziati anni fa quando alcune
case farmaceutiche, entrate in possesso di dati sensibili che ci
riguardano, hanno costruito immense banche dati del nostro vissuto. Una
volta che queste informazioni vengono registrate nei loro archivi, non
ci appartengono più. Fare norme per proteggere la privacy è pia
illusione, anche se la raccolta si ammanta del ruolo di “ricerca a scopo
scientifico”.
Tempo fa Jessica Hamzelou, giornalista
specializzata in scienze mediche, ha raccontato su New Scientist che la
multinazionale 23andMe possiede informazioni riservate di milioni di
persone, senza che lo sappiano. Per farne che? Per venderle al migliore
offerente. Altro che “fini politici”, come nel caso odierno di Facebook.
Nessuno al mondo, lo spiega John Perry, scienziato genetico
all’Università di Cambridge, è in grado di reclutare tanti dati
personali. Sanno di noi tutto, dai gusti alimentari sino alle nostre
tendenze sessuali. Una parte viene resa nota ai ricercatori scientifici,
“ma i rapporti con le case farmaceutiche sono molto più redditizi”.
Veniamo così a scoprire che le nostre informazioni sono immesse sul
mercato a chi le paga di più.
Vogliamo parlare di cifre? La
rivista Forbes ha scoperto che la Genentech, altra multinazionale delle
biotecnologie (con ramificazioni anche in Italia) “ha pagato 60 milioni
di dollari per avere l’intero genoma di 3 mila clienti della 23andMe”.
Fate un po’ di calcoli, moltiplicate per milioni di profili e vedrete
quanti miliardi incassano. Domanda: perché a guadagnare è solo chi si
arricchisce grazie ai nostri dati? Se proprio non vogliono riconoscerci
un equo compenso, diciamo 50%, almeno una piccola percentuale neppure?
Nessuno si pone questi quesiti, ma lo scandalo Facebook dovrebbe aprirci
gli occhi. Cambridge Analytica, di cui si parla ora, ha fatto lo
stesso: ha venduto milioni di profili, utilizzati durante la campagna
presidenziale per far prevalere Trump sulla Clinton.
Secondo me è
uno scandalo di portata più devastante del Watergate, che nel 1972 segnò
la caduta di Nixon. Là c’era lo spionaggio, qui c’è il furto di
identità di milioni di cittadini, i quali ingenuamente hanno consegnato
vita, morte e miracoli personali a compagnie da cui sarebbe meglio stare
alla larga. Mi sorprende che il mondo si sia stupito solo ora, quando è
da anni che sappiamo una scomoda verità: i social network cedono i
nostri segreti persino alle agenzie di spionaggio. Lo ha dimostrato
Julian Assange, allorché fece divampare Wikileaks, evidenziando come
l’intelligence di mezzo mondo registri le nostre conversazioni, mail e
quant’altro. Alle sue rivelazioni, sono seguite quelle dell’ex agente
Cia, il giovane Edward Snowden.
Eppure già nel 2016 si era saputo,
dagli atti del Comitato del Congresso americano, come Facebook avesse
venduto 100.000 dollari di spot elettorali a una compagnia legata al
Cremlino, in occasione delle elezioni presidenziali americane. Trump “ha
pagato 15 milioni di dollari a Cambridge Analytica (eccola tornare),
per profilare e targetizzare milioni di americani”, carpendo da Facebook
i loro profili. È di queste ore la notizia che sia Obama che la Clinton
hanno fatto altrettanto, lui nell’elezione del 2012, lei nel 2016. Ha
ragione un giovane commentatore di laggiù, Will Oremus, quando scrive
che “il vero scandalo non è quanto ha fatto Cambridge Analytica, ma che
Facebook l’abbia reso possibile”. Infatti, commentando le elezioni del
2016, Newsweek ha scritto che i big della rete “hanno usato i dati
personali di milioni di persone per manipolare le notizie e influenzare
il voto”. Chissà quando smetteremo di affidare a simili malandrini il
nostro privato.