Il Fatto 22.3.18
L’Onu stronca la Polizia arbitro della verità sul web
Il
relatore per la libertà di espressione contro il piano Minniti di usare
la Postale per combattere le “fake news” durante le elezioni: “Pericolo
per la democrazia”
di Carlo Di Foggia
La
sintesi è durissima: la lotta alle fake news messa in piedi dal
ministero dell’Interno viola la libertà di espressione dei cittadini
italiani ed è “incompatibile con gli standard internazionali fissati
dalle leggi sui diritti umani”. Parole del Relatore speciale per la
promozione e la tutela del diritto alla libertà di opinione e di
espressione dell’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu. In una
lettera di 5 pagine inviata ieri al governo italiano, l’inglese David
Kaye fa a pezzi lo strumento istituito dal ministero durante la scorsa
campagna elettorale, bollandolo come un’iniziativa da Paese non proprio
democratico.
Breve riassunto. Il 18 gennaio scorso, il ministro
Marco Minniti e il capo della polizia Franco Gabrielli hanno presentato
il cosiddetto Red Button per segnalare le fake news (definite “notizie
false”) direttamente dal portale del commissariato digitale della
polizia postale. Una scelta che ha scatenato polemiche feroci, visto che
non è compito dello Stato stabilire la verità, anche perché vincolata
solo alla durata della campagna elettorale. Attraverso il pulsante gli
utenti potevano “indicare contenuti attribuibili a notizie false”
attivando così gli agenti della postale, incaricati di “viralizzare
contro-narrative istituzionali”, scrive Kaye, cioè dare risalto a
smentite ufficiali. In un primo comunicato la polizia parlava
addirittura di “oscuramento di contenuti inappropriati”, senza
specificare quali, e “identificazione degli autori”, salvo poi eliminare
il passaggio (senza comunicarlo). Queste cose le può decidere solo un
giudice, non la Polizia.
Nella sua lettera Kaye si dice
“preoccupato” e chiede al governo di ripensare il provvedimento, che
cozza con gli standard internazionali per la tutela della libertà di
espressione. Secondo il Relatore Onu, il “pulsante rosso” è
incompatibile con i criteri di “legalità, necessità e proporzionalità”
fissati dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici –
sottoscritta dall’Italia nel 1978 – in difesa del “diritto di ogni
individuo di avere un proprio parere senza interferenze e di cercare,
ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni tipo e con qualsiasi
media”. Secondo l’Onu, i criteri per individuare le fake news fissati
dal protocollo della Polizia sono “indefiniti e quindi sollevano
preoccupazioni sulla loro vaghezza”. Non solo. Il protocollo lega la
lotta alle fake news alle leggi penali contro la diffamazione, che in
Italia, secondo Kaye, sono già molto pesanti perché impongono “sanzioni
significative”. L’Onu cita un rapporto dell’ottobre 2016 che parla di
oltre 5000 denunce per diffamazione presentate in Italia ogni anno.
Secondo il documento, nel 2015 i tribunali hanno condannato 475
giornalisti per accuse di diffamazione, con 320 condannati al pagamento
di un’ammenda e 155 a pene che prevedono la reclusione. “Sono
preoccupato – spiega il relatore dell’Onu – che ciò conferisca al
governo una discrezionalità eccessivamente ampia per perseguire
dichiarazioni che sono critiche nei confronti di personalità pubbliche e
politiche. La mancanza di chiarezza su come opererebbe il Protocollo,
unita alla minaccia di sanzioni penali, solleva il pericolo che il
governo diventerà arbitro della verità nel campo pubblico e politico. Di
conseguenza, temo che il Protocollo sopprimerebbe in modo
sproporzionato un’ampia gamma di condotte espressive essenziali per una
società democratica, comprese le critiche al governo, le notizie, le
campagne politiche e l’espressione di opinioni impopolari, controverse o
di minoranza”. Secondo Kaye, insomma, la lotta alle fake news tentata
dal governo italiano è molto più pericolosa per la democrazia delle
stesse fake news. Il Relatore dell’Onu sollecita l’esecutivo a prendere
in considerazione “misure alternative”, come “la promozione di
meccanismi indipendenti di controllo dei fatti, il sostegno dello Stato a
mezzi di informazione pubblici indipendenti, diversi e adeguati, e
l’educazione pubblica e l’alfabetizzazione mediatica, che sono stati
riconosciuti come mezzi meno invasivi per affrontare la disinformazione e
la propaganda”. Considerazioni che in tempo i datagate sembrano scritte
non solo per il caso italiano, ma quasi ad arginare, per così dire, la
tendenza di certi pezzi di classe dirigente in diversi Paesi di
scegliere la scorciatoia della censura di Stato invece di capire come
mai l’elettorato non vota come vorrebbero.
“L’iniziativa aveva il
solo scopo di facilitare, in un periodo pre elettorale, la possibilità
per i cittadini di segnalare una notizia falsa che avrebbe potuto
condizionare “l’opinione pubblica orientandone pensiero e scelte”, ha
spiegato ieri il Viminale. Il contrario dei rischi rinvenuti da Kaye.
Dopo il 4 marzo, il ministero ha rimosso il “Pulsante”. Sui suoi
risultati è buio fitto. Secondo il Corriere, a fine febbraio erano state
“bloccate” “128 fake news”. Come riportato da Valigia blu, però, gli
unici risultati disponibili parlano di sole 14 smentite di fake news.